domenica 4 dicembre 2011

Tagli? Si torna alla recessione



ROMA – Nel momento in cui l’Italia attende di conoscere definitivamente il contenuto della manovra, che sembra indirizzata verso una pressione fiscale, due economisti dicono la loro sulle possibili misure. Sono Luca Ricolfi per La Stampa e Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia nel 2008. I due spiegano che tutti questi possibili tagli non faranno altro che portarci verso una nuova recessione.
Luca Ricolfi su La Stampa scrive:
“Finché i nostri produttori di ricchezza avranno un handicap dell’ordine del 30% su tutte le voci di costo fondamentali (energia elettrica, imposte societarie, contributi sociali) il nostro tasso di crescita resterà sempre indietro rispetto a quello degli altri, anche dovessimo attuare tutte le riforme a costo zero che tecnocrati e professori predicano da decenni. Se quasi nessun produttore straniero investe in Italia, se anche chi già c’è e sarebbe disposto a rimanerci non si stanca di far intendere che potrebbe levare le tende (vedi le polemiche di questi giorni sulle dichiarazioni di Marchionne), non è solo perché in Italia non si può licenziare, c’è la cattivissima Fiom, la giustizia civile è lenta e il fardello burocratico è da manicomio. Il fatto che in Italia ci siano pochi posti di lavoro (specie per giovani e donne), e pochissimi investimenti stranieri, dipende pesantemente dal mero fatto che da noi produrre costa troppo.
Ecco perché, alla fine, la prima cosa che cercherò di capire della manovra che si sta per varare non sarà se è equa, o se dà più fastidio agli elettori di Alfano o a quelli di Bersani, ma se ha ragionevoli possibilità di far ripartire la crescita. Possibilità basate non solo sulla volubilità psicologica dei mercati (pronti ad apprezzare ogni segnale di serietà) ma, più prosaicamente e ragionieristicamente, sulla dura realtà dei conti aziendali. Quale che sia il saldo finale, la domanda cruciale è: quanto costerà la manovra in termini di provvedimenti (come la riduzione dell’Irap) il cui effetto sia di incidere direttamente sui costi di produzione?”.
E ancora, spiega Ricolfi: “Se la risposta sarà «solo 2-3 miliardi», mi sarà difficile, visto che la manovra sarà comunque una mazzata sui consumatori, non pensare che i suoi effetti recessivi siano destinati a prevalere su quelli di rilancio della crescita. Se la risposta fosse invece «più di 5 miliardi», con conseguente boccata di ossigeno a chi ha ancora voglia di lavorare e produrre in Italia, qualche speranza mi sentirei di coltivarla. Se non altro perché, per quanto suggestionabili, i mercati qualche calcolo lo sanno ancora fare”.
Gli fa eco Paul Krugman che scrive: 
“Non molto tempo fa si diceva che la crisi poteva portare, nel peggiore dei casi, al default della Grecia. Ora si profila l’evenienza di un disastro di proporzioni assai maggiori. È vero che la pressione sui mercati si è un po’ allentata mercoledì. Come mai siamo arrivati fin qui? La risposta più comune è che l’origine della crisi dell’euro va individuata nell´irresponsabilità fiscale. In tv è un gran vociare di esperti: in assenza di tagli alla spesa pubblica l’America finirà come la Grecia. Ma è vero quasi l’opposto. Benché i leader europei identifichino il problema nella spesa pubblica troppo alta dei Paesi debitori, la realtà è che in Europa la spesa è troppo bassa. E imporre una maggiore austerità è stata una mossa negativa, che ha peggiorato la situazione. 
Krugman quindi riassume: Negli anni precedenti alla crisi del 2008 in Europa, come in America, il sistema bancario era fuori controllo e il debito galoppava. In Europa però, gran parte dei prestiti erano transfrontalieri, i fondi tedeschi finivano al sud. L’operazione veniva considerata a basso rischio. I destinatari in fondo facevano tutti parte dell’area dell’euro, che cosa mai poteva succedere? In massima parte, detto per inciso, i prestiti non erano diretti ai governi, ma al settore privato. Solo la Grecia ai tempi d´oro presentava gravi deficit di bilancio statale. La Spagna, alla vigilia della crisi, vantava addirittura un surplus. 
Poi la bolla scoppiò. La spesa privata nei Paesi debitori crollò. I leader europei avrebbero dovuto riflettere su come impedire che questi tagli alla spesa provocassero una recessione in tutta Europa. Invece risposero all´inevitabile conseguente crescita del deficit imponendo a tutti i governi – non solo a quelli dei Paesi debitori – di tagliare la spesa pubblica e aumentare l´imposizione fiscale. Non tennero conto dei moniti di chi pronosticava un aggravarsi della depressione. “La tesi secondo cui le misure di austerità potrebbero innescare un processo di stagnazione non è corretta”, dichiarò Jean-Claude Trichet, all’epoca presidente della Bce. Il motivo? Perché “da politiche che stimolano la fiducia verrà un impulso, non un ostacolo alla ripresa economica”. 
Ad aprile, la Bce ha iniziato ad aumentare i tassi di interesse, pur essendo palese a gran parte degli osservatori che l’inflazione, semmai, era troppo bassa. Non è stata una coincidenza che proprio ad aprile la crisi dell’euro sia entrata in una nuova, terribile fase. Lasciamo stare la Grecia. Come economia, confronto all’Europa, è paragonabile all’area di Miami rispetto agli Stati Uniti. A questo punto i mercati hanno perso la fiducia nell’euro in generale, portando i tassi di interesse a salire anche in Paesi come l’Austria e la Finlandia, non certo noti per la loro sregolatezza.
L’appello all’austerità generale associato al morboso terrore dell’inflazione da parte della banca centrale fanno sì che ai Paesi indebitati sia impossibile sfuggire alla trappola del debito. Questa accoppiata è quindi garanzia di default sul debito, corsa al ritiro dei depositi bancari e crollo finanziario generale. Mi auguro, sia per il bene dell’America che dell´Europa, che gli europei invertano la rotta prima che sia troppo tardi. Ma, in tutta sincerità, non credo che lo faranno. È molto più probabile che noi li seguiamo sulla strada della rovina.

4 dicembre 2011

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