domenica 8 gennaio 2012

10 anni di euro ma il dollaro resta leader...


10 anni di euro ma il dollaro resta leader, ecco perché

rampini

C’era la promessa di un mondo bipolare, alla nascita dell’euro dieci anni fa. Un equilibrio monetario, un sistema più equo e pluri-centrico, meno vulnerabile agli shock unilaterali venuti dall’America: a questo doveva assomigliare il futuro con l’euro. Dieci anni sono pochi nella storia di una moneta, eppure non si sfugge ai bilanci: e fin qui la promessa è stata delusa. L’euro non ha protetto il Vecchio continente dalla crisi finanziaria partita dagli Usa, anzi lo shock sistemico del 2008 è l’origine di una serie di convulsioni che pur avendo il loro inizio a Wall Street hanno finito per mettere in questione la stessa tenuta dell’unione monetaria europea. E il mondo di oggi non ci appare più stabile, almeno per l’assetto dei mercati finanziari, di quanto fosse dieci anni fa.
La visione globale è importante nella genesi dell’euro. Dentro il patto franco-tedesco che risale al binomio François Mitterrand-Helmut Kohl, e che spianò la strada alla riunificazione delle due Germanie, la moneta unica aveva molteplici funzioni. Era certo un prezzo pagato dai tedeschi – la rinuncia al solido e amato marco – per il ricongiungimento con la Germania Est che alterava gli equilibri geostrategici e i rapporti di forze in Europa. Ma l’euro voleva essere anche il pilastro di un nuovo ordine monetario internazionale. I francesi vi portavano in eredità la loro antica avversione al predominio del dollaro: dai tempi del generale Charles de Gaulle e del suo consigliere economico Jacques Rueff, la Francia aveva instancabilmente denunciato i pericoli del “privilegio di signoraggio” detenuto dalla valuta americana. La Francia era stata la prima a vedere il “bluff” della parità dollaro-oro minacciando di convertire tutte le proprie riserve valutarie nel metallo giallo. I fatti avevano dato ragione ai moniti francesi: dal 1971 Richard Nixon aveva esplicitamente abbandonato ogni finzione sulla garanzia aurifera del valore del dollaro; con la guerra del Vietnam gli Stati Uniti avevano iniziato a praticare in modo spregiudicato un gioco che in seguito è diventato familiare, lo stampare dollari per finanziare le proprie avventure imperiali. Inflazione, instabilità e disordine, crisi finanziarie, erano una conseguenza della capacità americana di “spalmare” i costi dei propri problemi sul resto del mondo, costretto ad accettare i dollari Usa per mancanza di alternative. La polemica lanciata da de Gaulle-Rueff aveva finito per convincere anche i tedeschi. Pur meno antiamericani dei francesi, i governanti della Repubblica federale si rendevano conto che ogni accesso di febbre del dollaro (memorabili le crisi del 1974, 1983, 1992 e 1995) generava caos anche all’interno dell’Europa. Più volte il Sistema monetario europeo fu sul punto di soccombere per le tempeste venute dagli Stati Uniti. Ad ogni tracollo del dollaro, il marco tedesco si rivalutava consolidando il proprio ruolo di bene-rifugio; e tuttavia le svalutazioni di altre monete come il franco e la lira mettevano a repentaglio la sopravvivenza del mercato unico e quindi gli interessi strategici dell’industria tedesca. La nascita dell’euro, moneta condivisa da un aggregato economico equivalente agli Stati Uniti, sulla carta doveva esercitare una funzione di stabilizzazione all’interno del Vecchio continente, e di bilanciamento nei rapporti di forze globali tra le valute. In una geografia ideale, gli equilibri mondiali dovevano fondare su un treppiedi: con una moneta asiatica come terzo punto di appoggio (all’inizio si pensò allo yen giapponese, più di recente al renminbi cinese).
A dieci anni dalla circolazione del primo euro, quel progetto appare sempre distante. Se c’è stato qualche progresso verso un ordine multipolare delle monete, è stato lento e parziale. L’euro si è fatto strada, è vero, come seconda moneta detenuta dalle banche centrali di tutto il mondo nelle rispettive riserve ufficiali. Ma è un secondo posto ancora troppo distante dal primo; la superiorità del dollaro resta schiacciante se misurata in percentuale delle riserve valutarie. Ancora più incrollabile appare il dominio del dollaro in alcuni mercati chiave come quello delle materie prime. La più importante di tutte le materie prime, il petrolio, continua ad avere un prezzo misurato in dollari; e in dollari vengono regolate le transazioni, nonostante le ripetute minacce di questo o quel petro-leader (dal fu Gheddafi a Chavez) di abbandonare la moneta americana in favore dell’euro. Qui la spiegazione è fin troppo chiara: dietro il dollaro c’è la forza militare degli Stati Uniti espressa dalle basi che costellano il pianeta dal Pacifico al Golfo Persico; dietro il dollaro c’è una politica estera unica, per quanto controversa, che viene espressa dalla Casa Bianca. Dietro l’euro non c’è un esercito, non c’è una Sesta Flotta a guardia delle rotte petrolifere; non c’è una politica estera unica; non c’è neppure un governo.
L’altra delusione riguarda lo status dell’euro come moneta-rifugio per i risparmi. Su questo fronte il tradimento delle promesse è recente. Quando esplose la crisi del 2008, con epicentro a Wall Street, si poteva sperare che l’euro ne avrebbe beneficiato. Al contrario, ad ogni accesso di panico, è verso il dollaro che sono fuggiti i capitali del mondo intero. Perfino sulla questione dei debiti sovrani la reazione è stata fortemente asimmetrica. Dopotutto gli Stati Uniti hanno un rapporto debito-Pil molto superiore alla Francia, e non troppo distante dall’Italia. Hanno subito, non a caso, un downgrading del loro rating sovrano. Eppure i mercati si comportano come se la solvibilità di Washington fosse una certezza; e probabilmente hanno ragione. Ma è sensato dubitare della solvibilità italiana, belga, francese? Il problema vero sembra essere un altro: gli investitori non sembrano convinti che un “euro tedesco” sia veramente la stessa cosa di un “euro italiano”. O magari temono che questo sia vero oggi, non necessariamente domani. Pesa anche la mancata unificazione della finanza europea; l’assenza di una piazza globale che possa competere con New York (ci sarebbe, si chiama Londra, ma è rimasta fuori dall’euro). Né ci hanno aiutato gli asiatici. Il Giappone ha rifiutato un ruolo globale per lo yen; la Cina non accetta ancora la piena convertibilità del renminbi. Alla fine le differenze si misurano anche in termini di autostima. Quando la moneta unica ha avuto dei cedimenti improvvisi nella sua parità col dollaro, gli europei si sono allarmati per “l’euro debole”. Ma per la maggior parte del decennio è il dollaro ad aver perso quota, restando ben al di sotto della parità; per gli americani “il dollaro debole” non fa neppure notizia. Lo considerano, non a torto, un problema nostro.

FARAGE: SARKO’ E MERKEL SAPEVANO CHE BERLUSCONI DOVEVA LASCIARE


INTERVISTA A NIGEL FARAGE: SARKO’ E MERKEL SAPEVANO CHE BERLUSCONI DOVEVA LASCIARE

Intervista a Nigel Farage
di Ulderico de Laurentiis e Alberto SpampinatoFinalmente si torna online dopo la pausa natalizia, con un’intervista esclusiva ad un personaggio che ultimamente sta facendo parlare molto di sé in Europa, ma soprattutto in Italia, dove ormai è una vera e propria “Web-Star”. Stiamo parlando di Nigel Farage, politico britannico, leader dell’UKIP e deputato al Parlamento Europeo, dove si distingue quotidianamente con interventi molto duri nei confronti del sistema UE e delle sue alte burocrazie. Meridiana lo ha intervistato in esclusiva per voi, puntando l’attenzione sui temi caldi di queste ultime settimane di crisi politica, economica e monetaria. Buona lettura.

Mr. Farage, la crisi finanziaria sta mettendo seriamente in discussione la stabilità dell’ Eurozona e lei, senza molti giri di parole parla di fallimento dell’euro. Ritiene davvero che il sistema della moneta unica europea sia giunto al capolinea?
Sì. Ho sempre detto che un’unione con unica regolamentazione, doganale e monetaria del tipo”one-size-fits-none”, (una taglia unica che non veste bene nessuno n.d.r.) si sarebbe rivelata un fallimento. In realtà, sta fallendo dalla nascita, ma solo ora il fallimento si sta evidenziando a tutti, perché le risorse che sta consumando dall’inizio oramai sono quasi esaurite, dilapidate.
Dopo il caso della Grecia e dell’Italia, sembra diffondersi una strategia internazionale grazie alla quale i gruppi di potere finanziario internazionale si stanno sostituendo al potere politico, annullando il valore del consenso popolare e azzerando, di conseguenza, la possibilità del corpo elettorale di giudicare l’operato di chi li governa. I cosiddetti tecnici ormai gestiscono direttamente la politica di alcuni Stati e la politica sembra impotente davanti alle pressioni dei mercati. Siamo davanti a un rischio per la democrazia in Europa?
Sarebbe una grossolana stupidaggine non vederlo (il rischio n.d.r.), ma è già da tempo che l’Unione Europea ha distrutto la democrazia, utilizzando i soldi dei contribuenti per comprare i partiti politici e le entità di formazione dell’opinione pubblica in ognuno dei suoi stati assoggettati. La novità emersa rispetto alla Grecia e all’Italia è che è scomparsa anche la finzione di preservare e rispettare la democrazia. Ecco svelata la forma delle cose a venire.
 


Debito pubblico e signoraggio monetario: due questioni attorno alle quali si snoda prepotentemente il dibattito sulle crisi degli Stati Nazionali e il ruolo delle Banche. Sono le armi utilizzate da quei tecnici che lei ha definito “gli assassini dell’Europa”, nel perseguimento di un progetto di supremazia tedesca nell’eurozona?
Si, è così.
Alcune settimane fa, quando Berlusconi era ancora capo del Governo, Merkel e Sarkozy, durante un conferenza stampa tenutasi a margine di un Consiglio Europeo, si diedero uno sguardo di intesa e accennarono una risata, alla domanda dei giornalisti sulla fiducia in Berlusconi e nella sua capacità di attuare le riforme necessarie all’Italia per fronteggiare la crisi. Conosce quell’episodio? Che idea se n’è fatto?
Si, conosco l’episodio e sembra abbastanza chiaro, a posteriori, che Merkozy (sic) sapeva bene che Berlusconi sarebbe dovuto andar via.
Negli ultimi giorni, è stato stipulato un nuovo patto Europeo che secondo molti rappresenta la soluzione per un’ Europa più forte e per un Euro più stabile, mentre per alcuni altri si tratta di un’ulteriore perdita di sovranità per gli stati membri e di un accordo che non risolve affatto la crisi. Come mai, a suo parere, la stampa ha dato più spazio alla notizia che la Gran Bretagna non aderiva a tale accordo che ai dettagli dell’accordo stesso che sembrano ancora oggi sconosciuti al grosso dell’opinione pubblica?
È nel comportamento abituale dei mezzi di comunicazione controllati dall’Unione Europea, la tendenza a nascondere ciò che è più terribile e pericoloso nelle politiche dell’Unione focalizzando l’attenzione su problemi drammatici, ma secondari. Il veto di Cameron non è nemmeno importante – di per se – certamente non è decisivo – rispetto alla sbandata verso la sottomissione che l’Eurozona ha accettato nello stesso momento.
Come vede la situazione ungherese e quale soluzione pensa sarà adottata, anche in relazione con la crisi italiana, spagnola e greca?
L’Ungheria non è così facile da sottomettere perché non è infettata dall’Euro; ma è però infettata di altri mali dell’Unione, come l’eccessiva regolamentazione, regolamentazione dannosa e l’imprigionamento nell’unione doganale. Il drenaggio di risorse finanziarie e umane dalla periferia al centro dell’Unione Europea sta avanzando ovunque ed è solamente accelerato dall’Euro. L’unica vera soluzione non è quella di rottamare l’Euro, ma di sbarazzarsi dell’Unione Europea.
Se dovesse rivedersi in un partito politico italiano, quale sarebbe? Escludendo la lega nord con cui condivide già lo stesso gruppo al parlamento europeo.
Non credo che alcun partito politico italiano potrebbe attrarre il mio voto. Sono tutti servilmente pro-Unione Europea.
E se dovesse votare un politico italiano? Chi potrebbe essere il suo preferito?
Ammiro il signor Allam (Magdi Cristiano Allam n.d.r.) dell’Unione dei Democratici Cristiani e spero che presto vi siano molti altri come lui nel suo partito, che allora potrebbe meritare di essere votato.
Si ringrazia NDL per le traduzioni

Carabinieri sciolti nell'acido UE


Carabinieri. L’Arma verso lo scioglimento

L’Unione Europea impone la smilitarizzazione della quarta Forza Armata e l’accorpamento dei carabinieri alla Polizia di Stato.
- R. C.- 4 gennaio 2012- Sembrerebbe una bufala attendibile quanto la profezia dei Maya, invece è vero. L’Arma dei carabinieri in un futuro più o meno prossimo, ma certamente non remoto, è destinata ad un inevitabile scioglimento: Benemerita addio, è solo questione di tempo e di trattative politiche.
A molti verrà un groppo in gola, sono già entrati nella storia il gruppo leggendario Crimor, appartenente al Ros,  protagonista dell’arresto del capo dei capi, Totò Riina, capitanato da Ultimo, o le investigazioni scientifiche del Ris agli ordini colonnello, ora generale in congedo, Luciano Garofalo, per non parlare del delizioso ‘I racconti del maresciallo’ di Mario Soldati.
Un colpo di spugna sui militari caduti in servizio, ma pure sulla figura paciosa e tranquillizzate del maresciallo  comandante della stazione di paese, autorità riconosciuta insieme al sindaco e al farmacista, un pò buon padre di famiglia, un pò tutore della legge, filosofo e psicologo, che sapeva dosare perfettamente il bastone e la carota.
Sono annosi ormai i richiami del ministero dell’Interno  in merito alla necessità di una riforma che veda una reale unificazione delle Forze di Polizia con il contestuale passaggio dell’Arma alle dipendenze di tale dicastero. Al contempo, si susseguono le esternazioni in senso contrario del ministro della difesa che giura, invece, che i carabinieri resteranno alla Difesa. Versione non del tutto inesatta, i carabinieri in quanto tali, sopravviverebbero con un’aliquota destinata a supportare le nostre missioni all’estero con compiti di polizia militare.
Secondo la Ue e il ministero dell’Interno  la militarità dell’Arma non è quindi  vista come necessità di combattere più efficacemente la criminalità, dal momento che il codice di procedura penale stabilisce modalità di intervento uguali per tutte le Forze di Polizia, aggiungendo che non è ammissibile che le stesse forze dell’ordine si occupino di ordine pubblico dipendendo da amministrazioni diverse.
Per arrivare ai colpi bassi, ossia ai  dubbi sull’efficienza dell’Arma, voci neanche troppo di corridoio sostengono che  con lo scioglimento dell’Arma si spezzerebbe ogni legame con la difesa che, sempre stando a queste voci,  in maniera soffocante e per quasi duecento anni, ha condizionato destini, carriere ed efficienza di una forza armata che, nonostante il suo impegno, vede da sempre intere regioni ancora sotto il controllo della criminalità organizzata.
Europa solo la Francia, con la Gendarmerie Nationale, ha una forza di polizia paragonabile ai nostri carabinieri ma con alcuni tratti distintivi essenziali: il Capo del Corpo è un Direttore civile, i compiti sono nettamente distinti da quelli della Police Nationale per aree territoriali di competenza e per specializzazioni.
In Olanda, la Koninklijke Marechaussee, oltre ai compiti di polizia militare ha solo compiti di polizia di frontiera. In Belgio, la Gendarmerie è stata sciolta ed è confluita nella Police Nationale. In Spagna, la Guardia Civil, un Corpo di polizia a ordinamento militare, ha tuttavia un Direttore civile.
Questo è un prezzo da pagare alla globalizzazione, ma un maresciallo di lungo corso con rassegnazione confessa “Siamo disamorati, ma io un’altra divisa che non sia quella dell’Arma, non la indosserò mai”.
E’ comunque difficile immaginare un’Italia senza carabinieri, foss’anche solo per le barzellette.

La Polonia dice no all'euro


La Polonia dice no all'euro: segnale d'allarme per l'Ue

Varsavia vuole ritardare l'ingresso nella moneta unica per evitare il contagio dell'Eurozona

“Entrare nell’euro? Per il momento no, grazie”. Per non essere contagiata dai problemi dell’Eurozona, la Polonia sta pensando di rimandare a data da destinarsi l’ingresso nella moneta unica. Lo si è appreso da alcune fonti governative polacche. Per la tenuta dell’euro non è da considerare un allarme in sè. La notizia del dietrofront di Varsavia, anche se soltanto temporaneo, è un segnale che invece dovrebbe far preoccupare i governi dei Paesi europei in cui è adottato l’euro, perché è indirettamente un atto di accusa verso la politica monetaria e fiscale dell’Uem(Unione economica e monetaria).

Osservando le caratteristiche della Polonia, si può capire meglio perché la frenata polacca andrebbe letta come un serio campanello d’allarme per Ue e Bce. A livello congiunturale, innanzitutto, l’economia della Polonia viaggia a ritmi ben più elevati rispetto a quelli degli altri Paesi dell’Ue. Nel 2008, l’anno del fallimento di Lehman Brothers, il Pil era cresciuto del 5,1% e nel 2009, mentre il resto dell’Unione cadeva in recessione registrando una crescita negativa del Pil (-4,1% di media nei Paesi dell’Eurozona), Varsavia era riuscita a tenere botta e a crescere dell’1,7% nonostante una serie di attacchi speculativi alla sua valuta, lo zloty. In base alle stime della Commissione europea, di recente riviste al ribasso, la crescita del Pil polacco, anche se a ritmi meno sostenuti che in passato, registrerà performance più positive che nel resto dell’area euro: +4% nel 2011, flessione nel 2012 (+2,5%) e risalita nel 2013 (+2,8%).

Dal punto di vista strutturale, invece, la Polonia si segnala per una brillante gestione della politica monetaria e fiscale e per unruolo forte della banca centrale, che nel tempo ha costruito una notevole indipendenza dagli esecutivi in carica. Nel 2007, per esempio, il tasso di autonomiadella Banca centrale polacca in base ai criteri internazionali Gmt era del 92%, pari a quello della Bce, e ben superiore a quello della Bank of England, 65%, e della Fed, 78%, nello stesso anno.

La Banca centrale polacca si dimostra anche indipendente dalle banche perché priva di compiti di vigilanza: la supervisione finanziaria è infatti affidata a un’autorità indipendente unica, la Polish Financial Supervision Authority. Questo tipo di assetto basato sull’indipendenza e sullaspecializzazione ha consentito ai banchieri centrali polacchi di concentrarsi unicamente sullastabilità monetaria, tenendo sotto controllo l’inflazione (nel 2000 il tasso d’inflazione era a due cifre, nel 2007 era all’1,4%; il dato mensile di ottobre 2010, dopo un periodo di nuove tensioni, era del 2,6% a fronte di un 2% medio nell’Eurozona) e calmierando lo zloty, come avvenuto di recente, al fine di non far impennare il debito pubblico (nel 2011 il rapporto tra debito e Pil era al 54%) e mantenere la competività della moneta nelle esportazioni.

La Banca centrale ha agevolato, pertanto, anche la gestione della politica economica, permettendo al governo di mantenere i conti in ordine durante la crisi (il deficit sul Pil, per esempio, era del 3%).  E la buona salute del bilancio dello Stato, a sua volta, ha dato la possibilità di fare una politica fiscale  espansiva (accompagnata, negli anni scorsi, anche da una politica monetaria espansiva) che ha stimolato la domanda e fatto deprezzare la moneta locale, senza generare, come detto, un livello di inflazione insostenibile.

Disciplina fiscale, disciplina monetaria e vigilanza finanziaria affidata a un unico organo indipendente. E’ per questi tre motivi che la Polonia, pur desiderando da anni di entrare nell’area euro, in questo periodo rinuncia a fare il suo ingresso nel club della moneta unica. Se entrasse ora nell’Unione economica e monetaria troverebbe solo una di queste tre caratteristiche: la disciplina monetaria. Per il resto, la disciplina fiscale è ancora un traguardo lontano nonostante gli ultimi accordi presi dai leader dei Paesi Ue ad eccezione dell’Inghilterra: gli Stati europei sono pronti solo in parte a cedere sovranità in questo ambito e quelli più solidi economicamente – Germania in primis – non sono disposti ad accollarsi i debiti di altri attraverso strumenti come gli Eurobond. L’ultimo pilastro che rende l’economia polacca più fiorente rispetto a quelle europee, la vigilanza finanziaria consolidata, è altrettanto assente nell’Ue perché il meccanismo di supervisione si limita a un sistema di cooperazione con poteri decentrati che prevede tre organismi federali(rispettivamente per banche, mercati mobiliari e assicurazione) e lascia alle autorità nazionali i compiti di sorveglianza e gestione delle crisi.

Le autorità polacche, inoltre, si lamentano anche di alcune lacune dei trattati Ue: il Trattato di Lisbona non prevede nessun meccanismo che permette una fuoriuscita rapida dall’euro. Come a dire, nell’euro possiamo anche entrarci ma a patto che non sia una scelta irreversibile. Così, pur con l’intenzione di contribuire con un prestito al Fondo monetario internazionale per sostenere il fondo di salvataggio per l’Eurozona, la Polonia si mostra molto cauta prima di aderire all’euro. In queste condizioni, fare un passo così importante potrebbe essere, come minimo,controproducente. I governi dei paesi Euro facciano attenzione.