sabato 25 maggio 2013

I governanti ci vogliono uccidere


La denuncia di Ida Magli: “I governanti ci vogliono uccidere” 

Minimalista, depressa, costantemente sull’orlo del baratro. E’ questa l’Italia che vuole l’Europa?O è la conseguenza di errori politici? Ne discutiamo con Ida Magli, antropologa e saggista italiana. Nel suo lavoro ha applicato il metodo antropologico alla cultura occidentale, pubblicando i risultati delle ricerche in numerosi saggi dedicati al cristianesimo, alla condizione delle donne, agli strumenti della comunicazione di massa. Ida Magli, nel 1997, con il suo saggio “Contro l’Europa”, ha previsto ciò che oggi sta accadendo in Europa, in Italia.
Dal 1997 lei afferma che l’Europa, questa Europa, è dannosa per l’Italia. Come spiega l’europeismo italiano a tutti i costi?
Sono i governanti, i politici, i sindacalisti, più qualcuno dei grandi industriali per ovvi motivi di allargamento del mercato, ad aver imposto l’europeismo italiano a tutti i costi. Lei fa bene a sottolineare che è ‘italiano’: in tutti gli altri paesi, sebbene i governanti spingano verso l’unificazione europea, non c’è l’assolutezza che c’è in Italia, naturalmente anche a causa dell’obbedienza dei mezzi d’informazione nel tenere il più possibile all’oscuro i cittadini sugli scopi dell’Europa e sui suoi aspetti negativi, un’obbedienza quasi incredibile. Faccio un solo esempio: tanto Mario Monti quanto Emma Bonino sono stati compartecipi del più grosso scandalo avvenuto in seno al governo europeo (La Commissione Santer: Commissione Europea in carica dal 1995 al 1999, quando è stata costretta alle dimissioni perché travolta da uno scandalo di corruzione – ndr) e costretti alle dimissioni con due anni di anticipo dalla scadenza del mandato per motivazioni ignobili quali nepotismo, contratti illeciti, enorme buco di bilancio, come recitala Gazzettaufficiale dell’UE. Ma nessun giornalista lo dice mai e nessuno l’ha mai sottolineato, neanche quando Mario Monti è stato capo del governo e oggi in cui Emma Bonino è ministro degli esteri nel governo Letta.”
Quali sono gli interessi in gioco?
“I motivi di esclusivo interesse per i governanti sono molti, ma mi fermo a illustrarne soltanto due. Il primo è di carattere politico: distruggere gli Stati nazionali e per mezzo dell’unificazione europea, distruggere i popoli d’Europa, ossia i ‘bianchi’, facilitando l’invasione degli africani e dei musulmani per giungere a un governo ‘americano mondiale’. Naturalmente per la grande maggioranza degli italiani, quella comunista, l’universalizzazione era già presente negli ideali marxisti ed è persistita, malgrado le traversie della storia, fino ad oggi in cui vede finalmente realizzati i propri scopi nel governo Letta. Si spiega soltanto così la lentezza e la tortuosità che sono state necessarie per giungere al governo Letta: era indispensabile creare le condizioni che giustificassero il vero governo ‘europeo’, abilitato a distruggere l’Italia consegnandola all’Europa. Il secondo motivo è esclusivamente d’interesse personale: si sono costruiti, spremendo e schiacciando il corpo dei sudditi, un grande ‘Impero’ finto, di carta, che non conta nulla e non deve contare nulla in base ai motivi che ho già esposto, ma che per i politici dei singoli Stati è ricchissimo. Ricchissimo di onori, di benemerenze, di poltrone, di soldi. Governare oltre cinquecento milioni di persone, con tanto di ambasciate aperte in tutte le parti del mondo, fa perdere la testa a questi politici che vengono dal nulla e che non sono nulla e che, quando manca una poltrona in patria, la trovano in Europa per se stessi, parenti, amici, amanti, con un giro immenso di possibilità e libero da ogni controllo. Non c’è praticamente nessuno dei politici oggi sulla scena che non sia stato parlamentare europeo: Napolitano, Bonino, Monti, Prodi, Letta, Rodotà, Bersani, Cofferati e tanti altri ancora, con un ricchissimo stipendio e benefici neppure immaginabili  per i comuni lavoratori. Essere parlamentare europeo significa anche impiegare il poco tempo passato a Bruxelles a tessere i legami e scambiare i favori utili per la futura carriera in patria, godendo anche alla fine di questi ben cinque anni di dura fatica, di una cosa strabiliante: la pensione per tutta la vita.”
In un suo recente intervento ha affermato che non c’è nessuna luce al termine del tunnel della crisi. Il tunnel è dunque la realtà alla quale dobbiamo abituarci?
“Sì, il tunnel è la realtà. Non dobbiamo abituarci, però, anzi: dobbiamo guardarla in faccia come realtà. Niente di ciò che dicono i politici prospettando un futuro miglioramento nel campo economico è vero e realizzabile, perché non possiamo fabbricare la moneta, come fa ogni Stato sovrano (Come fanno in questi giorni il Giappone e l’America per esempio – ndr). Una moneta uguale fra paesi diversi è una tale aberrazione che non è possibile credere a un errore compiuto dai tanti esperti banchieri ed economisti che l’hanno creato, fra i nostri Ciampi e Prodi. E’ stato fatto volutamente per giungere a una distruzione.”
Per distruggere cosa?
L’introduzione dell’euro ha sferrato il colpo di grazia all’economia degli Stati. Se viceversa si fosse trattato davvero di un errore, allora perché, invece di metterli alla gogna, continuiamo a farci governare da quegli stessi banchieri ed economisti che non sopportano la minima critica all’euro? Dunque la situazione economica continuerà ad essere gravissima e il solerte Distruttore si prepara a consegnarci all’Europa sostenendo che mai e poi mai potremo mancare agli impegni presi e che per far funzionare l’euro bisogna unificarsi sempre di più. Questa è la meta cui si vuole giungere. Visto che la moneta unica non funziona, perché sono diverse le produzioni dei singoli Stati, cambieranno forse queste produzioni unificando le banche e le strutture economiche? Bisogna farsi prendere per imbecilli non reagendo a simili affermazioni. L’unica possibilità che abbiamo per salvarci è che sorga qualcuno in grado di organizzare una forza contraria. Io non lo vedo, ma lo spero. Lo spero perché l’importante è aver capito, sapere quale sia la verità, guardare in faccia il nostro nemico sapendo che è ‘il nemico’.”
In Italia, come in altri paesi colpiti da questo nuovo assetto di mercato che tanti chiamano crisi economica, spesso il suicidio è visto come una soluzione. Come si spiega antropologicamente che è meglio morire invece di ribellarsi?
“La spiegazione si trova in quello che ho detto: i governanti ci vogliono uccidere, lavorano esclusivamente a questo scopo, obbligandoci a fornire loro le armi per eliminarci il più in fretta possibile. Questo è il ‘modello culturale’ in cui viviamo. In base alla corrispondenza e l’interazione fra modello culturale e personalità individuale, chi più chi meno, tutti gli italiani percepiscono il messaggio di condanna a morte che i governanti hanno stabilito per noi in ogni decisione che prendono, in ogni discorso che fanno, in ogni persona che scelgono, in ognuno dei decreti, delle leggi che emanano e delle tasse che impongono. E tuttavia non se ne può parlare: la condanna a morte è chiara ma implicita, sottintesa, segreta, nascosta perché ovviamente l’assassinio individuale così come il genocidio di un popolo, è un delitto e non si può accusarne il governo, il parlamento, i partiti: nessunoE’ questo il motivo per il quale ci si uccide: l’impossibilità a parlarne, a dirlo chiaramente perfino a se stessi, a fare qualsiasi cosa per evitarlo e ad accusare il proprio ‘padre’. Neanche Shakespeare sarebbe stato in grado di descrivere la tragedia che stiamo vivendo, per la quale stiamo morendo. Qualcuno riesce forse a rendersi conto di che cosa significhi eliminare volontariamente i ‘bianchi’, la civiltà europea, invece che tentare di allontanare il più possibile questa fine, di imprimere nella storia lo sforzo per la salvezza? Qualcuno riesce a concepire un delitto più nefando di questo: che si siano assunti il compito di agevolare  questa morte soprattutto gli italiani, i governanti italiani, quando viceversa avrebbero dovuto essere loro a impedirlo, a voler conservare il più possibile l’immensa Bellezza che gli italiani hanno donato al mondo?

Signoraggio: finalmente se ne può parlare !



Un J’accuse contro i Signori del denaro

L’intervento M5Stelle alla Camera

L’intervento alla Camera del deputato 5 stelle Sibilia del 21 maggio scorso ha riproposto il cruciale problema del signoraggio e delle banche nel Parlamento della Repubblica: non è cosa da poco, anzi è un atto di coraggio politico importante. Dal 1995 ad oggi sono stati presentati molti progetti di legge di partiti di ogni tendenza – unico grande assente il PD – finalizzati a riprendere il maltolto dal governo Amato, quel Dl 333 del 1992 che trasformò l’industria di Stato in Spa, privatizzando indirettamente anche la Banca d’Italia. AN e Rifondazione Comunista, la Destra di Storace e l’IdV di Lannutti, Buontempo e il Pdl di Berlusconi (una legge, la 262/05, peraltro approvata e mai applicata), tutti hanno proposto obbiettivi quali la ri-nazionalizzazione più o meno soft della Banca d’Italia, il reddito di cittadinanza, l’emissione diretta di moneta da parte dello Stato tramite la riesumabile Zecca.
Più volte del resto Grillo ne aveva parlato, e oltre a lui Berlusconi, che nel giugno 2012 aveva accennato alla possibilità-necessità per lo Stato di tornare a battere moneta, non solo Euro (l’art. 105 del Trattato di Maastricht lo potrebbe permettere, laddove recita che la BCE ‘autorizza’ l’emissione dell’Euro) ma anche la Lira. Berlusconi si è fermato alla soglia della campagna elettorale. Adesso però, grazie a Grillo, la questione signoraggio e banche entra con un discorso chiaro e forte in Parlamento, sentito probabilmente da fasce di popolazione molto più ampie, sia perché 5 stelle ha comunque un grande seguito, sia perché la crisi è ancora più acuta. Tutti sanno, anche se molti fanno finta di non sapere, che nessuna, dicesi nessuna delle misure proposte dai due partiti di governo per superare la crisi, potrà essere realizzata veramente (non come provvedimento effimero ma come svolta definitiva) a meno che lo Stato italiano non ritorni padrone dell’emissione monetaria e del suo reddito, come lo fu, sia pure attraverso quel che sembra essere stato un doppio binario di emissione (la Bd’I ente di diritto pubblico, e i “Biglietti di Stato a corso legale”) dal 1936 al 1992.

Il signoraggio esiste, lo diceva un uomo delle Banche, Beniamino Andreatta. Lo riconoscono come vero un opinionista serio e accreditato come Sergio Romano, e poi i nobel dell'Economia Krugman e Allais
Signoraggio? Reddito da signoraggio? Che sono queste fantasie, queste ‘farneticazioni’? Puntualmente questo è il ritornello che viene riproposto ogni volta che il tema sfora i confini ristretti di qualche piccolo gruppo di auritiani. La minoranza è tollerata (si fa per dire) ma se rischia di diventare maggioranza, allora partono i missili al contrattacco: come alcuni siti e ‘esperti’ di rete in queste ore, che assicurano che il signoraggio è una invenzione clerico-fascista, o comunque una bufala
Ma il signoraggio non puo’ non esistere: esiste in base a un principio di logicità; a argomentazioni di insigni studiosi e opinionisti, a testimonianze di protagonisti attivi (che guadagnano dal reddito di signoraggio) e passivi (che subiscono un danno per esserne stati privati); e a eventi storici che mostrano con ogni evidenza la centralità della moneta e del suo controllo nel divenire delle società umane, e probabilmente non da pochi secoli, ma da millenni.
Cominciamo dal secondo punto, il più facile. Leggiamo ad esempio questo passo dell’articolo di Beniamino Andreatta pubblicato da Il Sole 24 ore il 26 luglio 1991, in occasione del decimo anniversario della lettera dell’allora ministro del Tesoro del governo Spadolini, al governatore della Banca d’Italia Ciampi, lettera che come ormai noto a molti, separava il Tesoro dalla Banca d'Italia. E’ proprio questo politico legato al mondo delle banche e dei loro interessi a riconoscere qualcosa che mai il suo milieu ammetterebbe in modo pubblico, e cioè che quella sua decisione extralegale aveva sì comportato un maggiore controllo di Palazzo Koch sull’inflazione, ma aveva anche provocato, vista la necessità del Tesoro di finanziarsi sul mercato e dunque a tassi più elevati, “la riduzione del signoraggio monetario” (sic) del Ministero stesso (cioè dello Stato) creando effetti negativi sulle finanze pubbliche:
“la riduzione del signoraggio monetario e i tassi d' interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l' escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale”, debito che commenta l’articolista avrebbe favorito “la creazione di un debito pubblico enorme - da meno del 60% nel 1980 al 120% nel 1994” [i]
L’ammissione di Andreatta ha un alto valore probatorio dell’esistenza di un reddito da signoraggio. Ma anche altre testimonianze contribuiscono a sdoganare la parola-tabù e quel che essa rappresenta: ad esempio Sergio Romano, parlando dell’inondazione planetaria del dollaro USA come di un mezzo con cui “l' America ... ha finanziato in tal modo il suo debito”, la definisce tranquillamente come “la più colossale operazione di signoraggio mai realizzata nella storia dell' umanità”[ii]: con il che riconoscendo che il reddito da emissione monetaria non riguarda peraltro solo il Novecento o l’età contemporanea o quella moderna, ma in pratica tutta la storia umana, tutte le società umane uscite dalla fase del baratto.
Prima di lui anche un economista di sinistra molto attento al ruolo del capitale finanziario nella crisi polacca degli anni Ottanta, Riccardo Parboni, aveva definito il ruolo mondiale del dollaro allo stesso modo. [iii].
Il signoraggio produce o guadagno (per chi lo esercita) o perdita (per chi lo subisce)
Come si può vedere, in queste citazioni ogni volta il signoraggio è fonte di guadagno o di perdita, secondo il punto di vista da cui ci si pone. Una questione di reddito dunque, insito nel potere di emissione monetaria. ‘Guadagnare’ è il verbo usato amche dal premio Nobel Paul Krugman, da lui riferito a “un governo (...) quando stampa moneta che spende in beni e servizi» [iv]. Con lui un altro studioso, Maurice Obstfeld. Maurice Allais, altro premio Nobel per l'economia, si dilunga ampiamente sulla questione, e scrive:
“Questa riforma (la riforma del sistema monetario, ndr) si deve basare su due principi fondamentali:
1) La creazione di moneta deve essere di competenza dello Stato e dello Stato soltanto. Tutta la creazione di moneta eccedente la quantità di base da parte della Banca centrale deve essere resa impossibile, in maniera tale che scompaiano i “falsi diritti” derivanti attualmente dalla creazione di moneta bancaria;
2) Tutti i finanziamenti d’investimento a un termine prestabilito devono essere assicurati da fondi di prestito a scadenze maggiori, o tuttalpiù alla stessa scadenza".
(Per questo occorre)
- l’attribuzione allo Stato, cioè alla collettività, del reddito da signoraggio proveniente dalla creazione di moneta, e il conseguente alleggerimento delle imposte attuali;
- un controllo agevole da parte dell’opinione pubblica e del Parlamento della creazione monetaria e delle sue implicazioni”.
Tutti questi vantaggi sarebbero certamente fondamentali. I profondi cambiamenti necessari dalla loro attuazione andrebbero a scontrarsi naturalmente contro forti interessi e contro pregiudizi profondamente radicati (…) [v]
Insomma, al di là delle opzioni di ciascuno sulla questione - da una parte Andreatta, dall’altra Maurice Allais o Giacinto Auriti – il fatto del ‘signoraggio’, cioè a dire del potere di emissione monetaria e del reddito che esso produce, è riconoscibile e riconosciuto [vi]. Solo il cosciente opportunismo di chi va a caccia di banche per rafforzare il suo potere – costume rintracciabile ormai a destra come a sinistra – solo la superficialità supponente di taluni, solo certo dogmatismo (soprattutto del marxisti ortodossi: anche Parboni era marxista, ma con un’attenzione ben diversa alla questione rispetto ai marxisti o post-marxisti della nostra epoca) possono negare la verità dei fatti: il reddito da emissione monetaria esiste, ed è più o meno alto secondo banconota, derivato dalla differenza tra il costo tipografico della banconota stessa e il valore su di essa stampigliato. Una realtà che - passando a prove di carattere storico - ben dovevano conoscere i diversi organismi di potere in conflitto tra loro per il controllo della zecca della Repubblica di Venezia: “Nel 1472, con quello che il Mueller definisce un colpo di mano, il Consiglio dei Dieci (“di X” nel testo originale) avocò a sé la giurisdizione sulla Zecca, che eserciterà fino al 1583, quando la materia tornerà di competenza del Senato. Va sottolineato che la data del 1472 è particolarmente significativa dal punto di vista monetario: la notizia, giunta a Venezia nel Maggio di quell’anno, che il Duca di Milano stava per immettere sul territorio grossi e grossoni falsi, per un valore di 80.000 ducati e che lo stesso progettavano Ferrara, Mantova e Bologna, destò comprensibili preoccupazioni. Il pericolo venne subito avvertito come una minaccia allo Stato stesso e quindi affrontato nel Consiglio dei Dieci, che garantiva segretezza e rapidità di intervento. Intorno agli anni Settanta si verifica anche una svolta nelle scelte monetarie della Serenissima: dopo la fase di smodata coniazione di moneta sopravvalutata tesa a sfruttare i territori dominati e i ceti economicamente più deboli, durata dal 1440 al 1470, Venezia inizia, nella coniazione della moneta piccola, la politica del ‘contagocce’" (vii) .
E' un episodio parziale ma significativo. A Venezia ci si batteva per il controllo della Zecca: perché mai se dal conio di monete non ci si guadagnava? Di eventi che riguardano la centralità del capitale bancario nella storia e la sua capacità di "inventare" il debito degli Stati, ce ne sono del resto molti:
"Jacob il Ricco (Jacob Fugger) ... Il suo intervento nell'elezione dell'imperatore Carlo V nel 1519 è decisivo: sul totale degli 850.000 fiorini (ché tanto sono costati i voti degli elettori) i Fugger ne hanno fornito 540.000" (Pierre Jeannin, Mercanti del '500, A. Mondadori, Milano 1962, p. 12).
Ezra Pound cita altri fatti e censure di fatti, come la «la decade 1830-1840 (quella della lotta vittoriosa di Van Buren e Jackson contro le banche )” che “ è quasi sparita dai libri di scuola», o come l’esperienza della moneta della Pennsylvania, gestita dai Quaccheri, eliminata su pressione della Banca d’Inghilterra.
Ovviamente ogni capitolo e dichiarazione di testimone storico potrebbe e dovrebbe essere approfondita, o semplicemente precisata sul versante delle fonti: vedi l’industriale Henry Ford: ““Meno male che la popolazione non capisce il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo capisse, credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione”: o il presidente americano Thomas Jefferson:
“Se il popolo americano permetterà mai alle banche private di controllare l'emissione del denaro, ... le banche e le compagnie che nasceranno loro intorno priveranno il popolo dei suoi beni finché i loro figli si ritroveranno senza neanche una casa sul continente che i loro padri hanno conquistato”.
Ma tutto quanto raccontato da Ezra Pound non è stato smentito dagli autorevoli prefattori critici dei suoi libri, come Paolo Savona e Giorgio Lunghini. Famosa la dichiarazione di William Paterson, fondatore della Bank of England, 1694: “Il banco trae beneficio dall'interesse su tutta la moneta che crea dal nulla” che sintetizza in modo efficace quel che avrebbe poi denunciato lo stesso Marx nel I libro del Capitale:
“Quindi l'accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d'Inghilterra (1694). La Banca d'Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all'otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a battere moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un'altra volta al pubblico in forma di banconote. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d'Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l'altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all'ultimo centesimo che aveva dato”. (Carlo Marx, Il Capitale, 1885, Libro I, capitolo 24, paragrafo 6, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 817-818).
Mi fermo qui. E’ una storia da approfondire, come fanno ormai da molti anni tantissimi studiosi. Ma negare il fatto del signoraggio con battute idiote e con ironica supponenza è - di fronte a tanta mole di dati - un’esercizio tanto assurdo quanto inutile. Esso si scontra del resto – come dicevo agli inizi - anche con il mero principio di logicità: un falsario, un banchiere privato e/o lo Stato, una volta che stampano banconote e le immettono sul mercato guadagnano, eccome, dalla differenza tra il costo tipografico e il valore stampato sulla banconota stessa. E’ ovvio che il falsario va impedito di compiere la sua truffa. Meno ovvio sembrerebbe che tale divieto venga applicato anche al Banchiere privato. Eppure è proprio così: solo lo Stato ha diritto di emissione monetaria e dunque di incassarne il reddito, perché esso rappresenta (quale che sia la sua natura e il suo governo) il Popolo, e perché la massa monetaria circolante è-deve essere la proiezione del Lavoro di tutti cittadini che ne fanno parte.
Claudio Moffa

[i] Danilo Tailo, Euro Vale la legge ferrea del divorzio, Corriere della Sera, 21 novembre 2011. Per l'articolo di Andreatta vedi i due jpg pubblicati qui sotto.
[ii] Sergio Romano, Imperi Come prevedere un crollo imminente, Corriere della Sera, 18 aprile 2010
[iii] Citato in Tonino Perna, Il capitale usuraio. La sovranità finanziaria non è più in mano agli Stati. Ancora più grave è la crisi della democrazia rappresentativa, e la minaccia del debito ecologico, www.altreconomia.it, 10 novembre 2011: “il compianto Riccardo Parboni parlava fin dagli anni 70 del secolo scorso, di “signoraggio del dollaro”. In sostanza gli Usa sono stati per quarant’anni l’unico Paese al mondo che poteva pagare i propri debiti con l’estero attraverso l’emissione di cartamoneta, vale a dire svalutando il dollaro”
[iv] Paul R. Krugman - Maurice Obstfeld, International Economics: Theory and Policy, Addison Wesley, 2009, p. 626.
[v] Maurice_Allais, La crise mondiale d’aujourd’hui, Clément Jugar ed., Paris 1999
[vi] Talvolta anche sulla stampa: ad esempio sul sito dei de Il Giornale.it questo termine richiama 173 strisce corrispondenti ad altrettanti articoli di giornale, alcuni firmati ‘red’
[vii] G. Bonfiglio Dosio, “Controllo statale e amministrazione della Zecca veneziana fra XIII e prima metà del XVI secolo”, ‘Nuova rivista storica’, LXIX, pp. 463-476.

Precari, l'Istat certifica lo sfruttamento


Lavoro, per i precari stipendi del 25% più bassi: fermi a 1.000 euro

Pubblicato il 25 maggio 2013 12.43 | Ultimo aggiornamento: 25 maggio 2013 13.41
ROMA – Il lavoro precario vale sempre meno: chi ha un contratto a termine ha in media uno stipendio del 25% più basso rispetto a chi ha un posto a tempo indeterminato. 
Lo certifica l’Istat nel Rapporto annuale. Nel 2012, spiega l’Istituto italiano di statistica, la retribuzione media mensile netta di un dipendente a termine a tempo pieno si ferma a 1.070 euro, 355 euro in meno rispetto a un dipendente ”standard”.
L’Istat non usa la parola precario ma lavoratore ‘‘atipico” (contratti a termine e collaborazioni), tuttavia la sostanza non cambia. Nel Rapporto esplicitamente l’Istituto di statistica spiega come ”un indicatore importante dello svantaggio del lavoro atipico è dato dal differenziale retributivo con l’occupazione standard”, ovvero stabile e senza riduzioni d’orario.
Guardando solo a chi è full time, tra un dipendente a tempo determinato e uno a tempo indeterminato il divario, pari in media a un quarto, è dovuto a più ragioni, anche se ormai può essere considerato una costante.
”Il differenziale è in parte spiegato da effetti di composizione, quali l’età, il settore di attività, la professione. Ma le differenze permangono anche a parità di caratteristiche e aumentano al crescere dell’anzianita’ lavorativa, poiché al tempo determinato non si applicano gli scatti di anzianità”.
Ecco che, evidenzia, ”la differenza è di 85 euro per chi lavora da appena due anni e cresce a 392 euro per chi ha una carriera lavorativa di 20 anni e oltre, non necessariamente tutta da atipico”.

Perchè non scoppia la rivoluzione


Perchè non scoppia la rivoluzione in Italia? di sovvertitor

BeppeGrillo #tuttiacasatour Siena