domenica 30 giugno 2013

In un'economia di guerra i diritti acquisiti non esistono

Mariolino Cannuli e l'economia di guerra

dal blog di Grillo

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L'Italia è di fronte a un baratro, ma il governo è fermo come un paracarro. Letta, dedito al gioco del Subbuteo dove il massimo rischio è la slogatura dell'indice, annuncia, annuncia, annuncia. Capitan Findus sembra la versione aggiornata e minimalista della presentatrice televisiva Mariolina Cannuli (che prego di scusarmi per l'irriverente, per lei, confronto). C'è una calma piatta, come in mare quando non vedi un gabbiano, non c'è un'onda, un refolo di vento prima della tempesta. Che aspettiamo? Siamo falliti e lo neghiamo e affossiamo le imprese con carichi insostenibili come l'aumento dell'anticipo dell'Irap, dell'Ires e dell'Irpef definiti dal ministro dell'Economia Saccomanni "Un prestito dei contribuenti che a livello individuale ha un peso molto soft". Un peso di 2,3 miliardi di euro, soft- soft, una piuma. E' necessaria attuare subito, entro l'autunno, un'economia di guerra.Tagliare le province, portare il tetto massimo delle pensioni a 5.000 euro, tagliare finanziamenti pubblici ai partiti e ai giornali, riportare la gestione delle concessioni pubbliche nelle mani dello Stato, a iniziare dalle autostrade, perché sia l'Erario a maturare profitti e non aziende private come Benetton o, dove questo non sia possibile, ridiscutere le condizioni, eliminare la burocrazia politica dalle partecipate dove prosperano migliaia di dirigenti, nazionalizzare il Monte dei Paschi di Siena, eliminare ogni grande opera inutile come la Tav in Val di Susa e l'Expo di Milano, ridurre drasticamente stipendi e benefit dei parlamentari e di ogni carica pubblica, cancellare la missione in Afghanistan, fermare l'acquisto degli F35. Si potrebbe continuare a lungo. Non c'è più tempo. Le risorse vanno destinate alla defiscalizzazione parziale delle piccole e medie imprese, all'introduzione del reddito di cittadinanza e all'abbattimento del debito pubblico. Quest'ultimo, nonostante una tassazione abnorme, cresce al ritmo di 120 miliardi all'anno. Nel 2013 dovremo collocare 400 miliardi di titoli di Stato (chi li comprerà e a che condizioni?) e intanto si discute di riforme costituzionali per il mantenimento del potere da parte dei partiti e delle lobby. Qualcuno obietterà che si vanno "a toccare" diritti acquisiti, come nel caso delle pensioni d'oro (in Italia sono 100.000 i “super-pensionati” e costano allo Stato italiano 13 miliardi di all’anno per cui vengono utilizzati i contributi pensionistici di ben 2.200.000 lavoratori). I diritti acquisiti non sono contemplati più da un pezzo per gli esodati, per i precari, per chi non prenderà mai la pensione. In un'economia di guerra i diritti acquisiti non esistono più.

IL LATO OSCURO DEI DERIVATI DI STATO

IL LATO OSCURO DEI DERIVATI DI STATO - IL TESORO NON SPIEGA PERCHÉ NEL 2012 HA RINEGOZIATO 32 MILIARDI DI DERIVATI STIPULATI ANNI ADDIETRO

Alessandro Penati: Si “rinegozia” un derivato perché altrimenti dovrebbe essere chiuso in perdita; con la “rinegoziazione” si sostituisce il vecchio derivato con uno nuovo per rinviare le perdite nel tempo. Non è simile al caso Mps?...

Alessandro Penati per La Repubblica
Draghi tra Saccomanni e GrilliDRAGHI TRA SACCOMANNI E GRILLI
Il comunicato del Tesoro in risposta alle rivelazioni di Repubblica sui derivati dello Stato è lacunoso e contiene palesi errori. Esattamente come nel marzo del 2012, quando Bloomberg rivelò che lo Stato aveva pagato 3 miliardi a Morgan Stanley (guidata in Italia, ironia della sorte, da un ex ministro dell'Economia) per la chiusura di un derivato.
Il Tesoro dichiara di non tenere conto del valore di mercato dei derivati stipulati poiché non generano movimenti di cassa, se non a scadenza; di conseguenza, non rientrano nel calcolo del debito pubblico, in accordo coi criteri stabiliti da Eurostat. Nessuno chiede di contabilizzare i derivati come debito, ma si reclama trasparenza sulle perdite potenziali per lo Stato: il valore di mercato dei derivati, infatti, misura la dimensione del debito potenziale, moltiplicato la probabilità che si materializzi.
MORGAN STANLEYMORGAN STANLEY
È come se un'assicurazione non accantonasse riserve considerando i sinistri inesistenti fino al momento in cui deve liquidarne uno. Sarebbe un falso in bilancio. A prescindere dalle regole di contabilità pubblica, un governo deve rendere conto ai cittadini degli impegni che potrebbero gravare sulle loro tasche.
Sono impegni, inoltre, che il Tesoro può dover liquidare prima della scadenza, per esempio se le perdite superano livelli concordati (Termination clause), come nel citato caso di Morgan Stanley.
Il Tesoro perde sui derivati; ma potrebbe guadagnarci. In questo caso, la controparte avrebbe le risorse per pagare (il caso Lehman insegna)? In altre parole, non dovremmo conoscere il rischio controparte per lo Stato Italiano? Il Tesoro non spiega perché nel 2012 ha rinegoziato 32 miliardi di derivati stipulati anni addietro, come documentato da Repubblica.
Si "rinegozia" un derivato perché altrimenti dovrebbe essere chiuso in perdita; con la "rinegoziazione" si sostituisce il vecchio derivato con uno nuovo per rinviare le perdite nel tempo. Non è simile al caso Mps? E chi ha verificato che i valori usati nella "rinegoziazione" non fossero troppo favorevoli alla banca controparte?
Il Tesoro dichiara di stipulare derivati "nell'interesse del Paese" e per "coprirsi dai rischi". Spetterebbe all'opinione pubblica stabilire cosa sia nell'interesse del Paese; ma a prescindere da questo, che lo si compri per "coprirsi" o per "speculare", un derivato equivale sempre a una scommessa: uno vince e un altro perde e paga.
saccomanni-draghiSACCOMANNI-DRAGHI
I derivati, quindi, trasferiscono i rischi tra due scommettitori. Va benissimo per i privati, non per lo Stato, per due buone ragioni. Prima: quando i privati comprano e vendono rischi, ne sopportano le conseguenze economiche; mentre funzionari e governanti impegnano risorse dei cittadini: chi decide quanti e quali rischi prendere, a prescindere dalle motivazioni (anche nobili)?
Seconda: i privati usano derivati per trasferire rischi al di fuori del loro controllo, mentre il Tesoro li usa per prendere posizione su rischi, come il costo del debito pubblico, che dipendono da sue decisioni. Un potenziale conflitto di interessi.
Sorge il dubbio che questo potenziale conflitto sia alla base dell'ostinato rifiuto del Tesoro a fornire una rappresentazione chiara, tempestiva ed esaustiva delle sue posizioni in derivati. Non si darebbero informazioni per evitare imbarazzi.
ministero del TesoroMINISTERO DELL'EURO
Per esempio, il Tesoro giustifica la posizione esistente in derivati per potersi avvantaggiare da un possibile futuro aumento dei tassi a breve: ovvero paga un premio per guadagnare se c'è un forte rialzo dei tassi Bot. E' un segno di sfiducia (si temono difficoltà di collocamento per i Bot), oppure si dà del fesso a chi ha comprato recentemente Bot a tassi così bassi che il Tesoro non ritiene sostenibili?
Oppure è il frutto di un accordo con le banche che hanno venduto i derivati, per non fare sapere le loro posizioni? Inquietante, visto che sono anche grandi operatori del nostro debito pubblico.
L'inspiegabile reticenza del Tesoro alimenta da 10 anni ricorrenti insinuazioni circa l'uso opportunistico di derivati per agevolare il nostro ingresso nell'euro. Basterebbe un poco di trasparenza per spazzarle via. La stessa trasparenza sui derivati che le norme dello Stato, giustamente, impongono ai privati.

Lo Ior torni allo spirito delle origini

LE CONSULTAZIONI DI BERGOGLIO SULLA “BANCA DI DIO”: A RAPPORTO LA FINANZA LOMBARDA (BAZOLI), I CAVALIERI DI COLOMBO E I TEDESCHI

Il Papa vuole fare dello Ior una “banca etica” per i depositi dei religiosi e una fondazione esterna per gli investimenti – Ma non si muove foglia senza il “parere” della finanza che pesa molto in Vaticano – Bergoglio a colloquio con i “banchieri bianchi” lombardi (Bazoli), i tedeschi e i cavalieri di Colombo…

Paolo Rodari per La Repubblica
Il torrione Niccolò V, sede dello Ior  niccolovIL TORRIONE NICCOLÒ V, SEDE DELLO IOR NICCOLOV
Mentre la Commissione sullo Ior istituita dal Papa lavora per fare luce all'interno dell'istituto bancario vaticano oggi in grande difficoltà per le indagini delle procure di Roma e Salerno, il Consiglio della Corona voluto dal Papa per riformare la curia romana, finanze incluse, consulta varie personalità del mondo bancario ed economico alla ricerca di soluzioni concrete per il futuro.
PAPA FRANCESCO JORGE BERGOGLIOPAPA FRANCESCO JORGE BERGOGLIO
Cosa ne sarà dello Ior è decisione che verrà presa definitivamente a ottobre, ma intanto, dai primi pareri sentiti, la strada che sembra aprirsi è del tutto nuova: una riforma degli statuti che porti alla costituzione sia di una «banca etica» che gestisca i depositi degli istituti religiosi e dei singoli uomini di Chiesa, sia di una «fondazione esterna» che gestisca gli investimenti più importanti promuovendo nel contempo iniziative culturali che avvalorino gli investimenti stessi.
CARDINALE TARCISIO BERTONECARDINALE TARCISIO BERTONE
La riforma, in questa chiave, sarebbe l'unica in grado di rispondere concretamente alle attese di Moneyval, il Comitato del Consiglio d'Europa che valuta le misure nazionali per il contrasto del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo. Insieme, questa stessa riforma, comporterebbe un cambio di uomini al vertice che alla luce delle vicende che hanno coinvolto monsignor Nunzio Scarano è secondo alcuni quanto mai attuale. La domanda resta una: può un monsignore di curia operare illecitamente senza che i suoi vertici e i superiori vaticani facciano nulla per impedirlo?
Giovanni BazoliGIOVANNI BAZOLI
Sono tre i mondi economici chiamati a dare un proprio parere. Anzitutto il gruppo lombardo della cosiddetta Finanza Bianca nato nella prima Repubblica attorno a intellettuali e banchieri vicini all'Università cattolica del Sacro Cuore quali Giovanni Bazoli, Angelo Caloia, e ai tempi anche il cardinale Carlo Maria Martini.
Ancora oggi il gruppo è ascoltato in Vaticano. Anche un'area tedesca ascesa durante il pontificato ratzingeriano è stata sentita. Quando la Banca d'Italia sequestrò, nel 2010, 23 milioni di euro depositati dallo Ior su due conti aperti presso il Credito Artigiano, l'istituto bancario trasferì parte dei suoi depositi in Germania. Oltre al neo presidente Ernest von Freyberg, influente è Hans Tietmeyer, economista e banchiere presidente della Deutsche Bundesbank tra il 1993 e il 1999. Infine, le lobby americane.
CARL ANDERSON CAVALIERE SUPREMO DEI CAVALIERI DI COLOMBOCARL ANDERSON CAVALIERE SUPREMO DEI CAVALIERI DI COLOMBO
Fra questi i Cavalieri di Colombo che molto hanno spinto per un pontificato che portasse anzitutto Roma e la curia romana su altri lidi. Non è un caso che proprio due giorni fa Carl Anderson, cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, nonché membro del consiglio di sovrintendenza dello Ior, il "board" laico che supervisiona le attività della banca vaticana, sia stato ricevuto dal Papa.
PETER WELLSPETER WELLS
Ma oltre ad Anderson c'è Peter Wells, fra i responsabili della segreteria di stato vaticana inserito dal Papa all'interno della stessa Commissione per lo Ior. L'idea condivisa da tutti è che lo Ior torni allo spirito delle origini. Un'istituzione che non lavori più con una logica di speculazione finanziaria ma di vero aiuto ai bisognosi. Fra questi ci sono i tanti religiosi sparsi nel mondo che spesso in condizioni di povertà estrema si spendono per gli ultimi. È per loro che la banca deve sopravvivere, non per altri fini.
L'incontro è passato per lo più inosservato. Eppure è proprio di questa nuova prospettiva che hanno parlato in via ufficiale in un convegno organizzato a maggio dal Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, guidato dal cardinale Peter Turckson, e dalla tedesca fondazione Adenauer. L'argomento era fare banca e finanza «per il bene comune».

Anche per gli USA la BCE è terrorista !

Gli USA avrebbero spiato la BCE per anni

Si allarga ora lo scandalo datagate negli USA, il quotidiano Tedesco Der Spiegel sostiene che Washington avrebbe spiato la BCE per anni

Edward-Snowden
Qualcuno comincia a dire che la Presidenza Obama abbia addirittura i giorni contati; al momento questo ci sembra ancora poco probabile, ma se le indiscrezioni del quotidiano Tedesco Der Spiegel venissero confermati, il Presidente degli Stati Uniti sarebbe chiamato a rispondere sulla questione, e immaginiamo avrebbe difficoltà a spiegare al Mondo perchè la NSA ha spiato attraverso cimici e hacker i lavori interni della BCE.
Dalla Germania viene addirittura citata la fonte di questa notizia: un documento ufficiale datato Settembre 2010 diffuso dall’ormai celebre talpa Edward Snowden nel quale si fa esplicito riferimento ad operazioni di spionaggio della Banca Centrale Europea, con accesso illegale al network interno dell’istituto.
Ma come sarebbe avvenuta fisicamente questa grande azione di spionaggio ?
Si sa, un hacker professionista può accedere ad ogni network nel Mondo, a prescindere dalla distanza fisica tra l’hacker e il sistema in cui vuole irrompere. Ma come la mettiamo per le cimici ?
Le cimici sarebbero state piazzate in uffici istituzionali a Washington e nella sede delle Nazioni Unite. Insomma, l’NSA aveva accesso sia alle email di chiunque lavorasse all’interno della BCE, sia alle telefonate (almeno) verso gli USA.
Leggendo l’articolo pubblicato su Der Spiegel si trovano poi altre informazioni abbastanza inquietanti, una su tutte il modo in cui viene chiamata la BCE nel rapporto: “the target” (in Italiano “bersaglio” o “obiettivo”).
Dal Parlemento Europeo sono già arrivate le prime reazioni, ed è probabile che nelle prossime ore si affronti un acceso dibattito a Bruxelles. Martin Schulz (il famoso “kapo” secondo Berlusconi) ha dichiarato che, se quanto detto dovesse essere verificato,questo avrà un severo impatto sulle relazioni tra UE e USA.
Schulz ha anche chiesto agli Stati Uniti di fare chiarezza subito: non si capisce, infatti, come lo spionaggio della BCE possa avere qualcosa a che fare con la motivazione ufficiale utilizzata fino ad ora da Obama per giustificare lo scandalo datagate: il pericolo terrorismo.

Titoli tossici, noi come la Grecia

Titoli tossici, noi come la Grecia (“il manifesto”, 27 giugno 2013)

Inserito da Guido Viale on giugno 30, 2013 – 
Chi o che cosa ha autorizzato i nostri governi a giocare al casinò dei derivati con il denaro degli italiani? Quale regolamento interno, quale legge, quale norma della Costituzione? E perché non se ne può sapere niente? Secondo quanto riferito da la Repubblica (e dal Financial Times) del 26.6, il Tesoro italiano è esposto per 160 miliardi di euro (più di un decimo del PIL italiano) con operazioni sui derivati la cui data di stipulazione non è nota; il governo Monti ne ha rinegoziati nel corso dell’anno scorso per un importo di 31 miliardi, registrando su queste operazioni una perdita potenziale, non ancora giunta a scadenza, di circa 8 miliardi (poco meno dell’importo con cui la ministra Gelmini e, dopo di lei, il ministro Profumo sono riusciti a distruggere sia la scuola che l’Università italiane). Naturalmente il Ministro del Tesoro ha subito smentito ogni rischio, ma quella smentita vale quanto il Ministro: cioè zero. Infatti solo un anno fa, su un’altra partita di derivati del Tesoro si era già registrata una perdita di 3 miliardi, saldata dal governo Monti. Su di essa c’era stata una interrogazione parlamentare dell’IdV e una elusiva risposta – “si tratta di un caso unico e irripetibile” – del sottosegretario Rossi Doria; designato a rispondere non si sa perché, dato che Rossi Doria si occupa di scuola e non di finanza, materia sui cui è lecito supporre una sua totale incompetenza. Ma se tanto dà tanto, sui 160 miliardi di derivati in essere, le perdite “a futura memoria”, che verranno cioè caricate sul bilancio dello Stato nel corso degli anni, per poi dire che gli italiani sono vissuti “al di sopra delle loro possibilità”, potrebbero ammontare a parecchie decine di miliardi di euro.
Ma facciamo un passo indietro: da tre anni ci ripetono che la Grecia ha fatto il suo ingresso nell’euro “truccando i conti” perché, in base a suo indebitamento, non ne avrebbe avuto titolo; di qui i guai – e che guai! – in cui è incorsa successivamente. Successivamente. Perché all’epoca del suo ingresso nell’euro nessuno si era “accorto” di quei trucchi. Poi si è scoperto che a organizzarli era stata la banca Goldman Sachs, allora diretta, per tutto il settore europeo, da Mario Draghi, nel frattempo assurto alla carica di Presidente della BCE, cioè dell’organo preposto a garantire la riscossione di quei debiti contratti in modo truffaldino. E di quei trucchi non si è più parlato. Ma lo stratagemma a cui il governo greco e Goldman Sachs erano ricorsi per truccare i conti era proprio quello di nascondere un indebitamento eccessivo (secondo i parametri di Maastricht) dietro a derivati da saldare in futuro. Nello stesso periodo – o poco prima, cioè con maggiore preveggenza – il governo italiano sembra essere ricorso esattamente allo stesso stratagemma: ufficialmente per “coprire” il debito italiano dai rischi del cambio (allora c’era ancora la lira) e dalle variazioni dei tassi di interesse: i derivati sono stati infatti introdotti nel mondo della finanza come forma di assicurazione contro la volatilità dei cosiddetti mercati; ma, come si vede, la funzione che svolgono è il contrario di ciò che pretendono di essere. E’ comunque del tutto evidente che lo scopo effettivo di quelle operazioni era quello di “truccare” i conti e garantire così anche all’Italia l’ingresso nell’euro. Qui la presenza ricorrente dello stesso personaggio è ancora più dirompente; perché nel periodo che intercorre tra la probabile – non se ne sa ancora molto – sottoscrizione di quei derivati e l’emersione dei primi debiti che essi comportano Mario Draghi è stato direttore generale del Tesoro (l’organismo contraente) dal 1991 al 2001; poi, utilizzando in modo spregiudicato il cosiddetto sistema delle “porte girevoli”, responsabile per l’Europa di Goldman Sachs (una delle banche sicuramente coinvolta in queste operazioni), poi Governatore della Banca d’Italia e poi Presidente della BCE e in questo ruolo uno degli attori più decisi a far pagare agli italiani – e agli altri infelici popoli vittime degli stessi raggiri – la colpa (in tedesco Schuld, che, come ci ricordano i ben informati, vuol dire anche debito) di essere vissuti “al di sopra delle proprie possibilità”.
BCE
Non basta: ogni sei mesi, ci informa sempre Repubblica, il Tesoro è tenuto a trasmettere una relazione sullo stato delle finanze pubbliche, comprensivo anche dei dati sull’esposizione in derivati, alla Corte dei Conti. Ma in venti anni o quasi, questa si è accorta solo ora dei rischi connessi a queste operazioni e, per saperne di più, ha inviato la Guardia di Finanza a perquisire le stanze del Tesoro; che però si è rifiutato di esibire la relativa documentazione (di qui qualche talpa che ha fatto verosimilmente scivolare nella redazione di Repubblica le 29 pagine di quella relazione). Ci ricorda qualcosa tutto ciò? Sì, ci ricorda da vicinissimo le recenti vicende del Monte dei Paschi di Siena i cui dirigenti – oggi in carcere o sotto inchiesta perché considerati dalle Procure di Siena e Roma degli autentici delinquenti – sono riusciti a nascondere alla vigilanza della Banca d’Italia (oh, che combinazione!) una esposizione debitoria incompatibile con il regolare funzionamento di una banca, nascondendola sotto degli onerosissimi derivati, che hanno tenuto rigorosamente nascosti per anni. Il casinò dei derivati accomuna così le istituzioni di governo del paese alle banche truffaldine (per ora MPS; ma chissà quante altre si trovano nelle stesse condizioni, e non solo in Italia. La presenza di Mario Draghi al vertice della BCE non è certo fattore di tranquillità).
Per saperne di più, cioè per capire in che mani siamo finiti, in che mani ci hanno messo i governi che si sono succeduti negli ultimi 30 anni (cioè da quando la teoria liberista e il pensiero unico la fanno da padroni e, in termini pratici, da quando è stato portato a termine il famigerato “divorzio” tra Tesoro e Banca centrale che ha messo le politiche dei governi in balìa della finanza: leggi degli speculatori internazionali) basta leggere la sinossi di come funziona il casinò dei derivati che, sempre su Repubblica del 26.6 ha fatto Luciano Gallino.
“Nel mondo – spiega Gallino – circolano oltre 700 trilioni di dollari (in valore nominale) di derivati [cioè 700mila miliardi, oltre 10 volte il valore presunto del prodotto lordo mondiale, nota mia], di cui soltanto il 10 per cento, e forse meno, passa attraverso le borse. Il resto è scambiato tra privati, come si dice, “al banco”, per cui nessun indice può rilevarne il valore”. Ma aggiunge, anche di quel dieci per cento scambiato nelle borse, a definirne il valore concorre solo il 40 per cento [cioè il 4 per cento degli scambi complessivi, nota mia]. “Di quel 40 per cento, almeno quattro quinti hanno finalità puramente speculative a breve termine…Di tali transazione a breve, circa il 35-40 per cento nell’eurozona e il 75-80 per cento nel Regno Unito e in USA si svolgono mediante computer governati da algoritmi…che operano a una velocità anche di 22mila operazioni al secondo… Ne segue che chi parla di “giudizio dei mercati” [praticamente tutti gli esponenti dei mondi politico, imprenditoriale, manageriale e accademico, nota mia] dovrebbe piuttosto parlare di “giudizio dei computer”. “Macchine cieche e irresponsabili – aggiunge Gallino – opache agli stessi operatori e ancor più ai regolatori. E per di più, inefficienti”. Ma molto efficienti però, aggiungo io, nel trasferire ricchezza dai redditi da lavoro e dalla spesa sociale ai profitti e alla rendita, compito che nel corso degli ultimi trent’anni hanno svolto egregiamente. E non senza che gli addetti alla “regolazione” dei mercati, siano essi manager o politici, o entrambe le cose grazie al sistema delle “porte girevoli”, ci abbiano messo tutta la loro scienza e il loro potere per portare questo trasferimento fino alle estreme conseguenze: quelle che oggi possiamo vedere esposte in vetrina nella catastrofe della Grecia. Ma allora, perché continuare a rimaner sottomessi a un sistema simile? Non è ora trovare la strada per tirarsene fuori al più presto?

L'esplosione delle rivolte sociali

www.resistenze.org - osservatorio - mondo - politica e società - 25-06-13 - n. 459

La geografia delle rivolte sociali

Sergio Cararo | contropiano.org

25/06/2013

Dai Pigs ai Brics. L'esplosione delle rivolte sociali coinvolge soprattutto i paesi emergenti. Il cambio di passo nell'economia mondiale aumenta le aspettative lì dove si cresce ma congela il conflitto dove è aumentata la paura di perdere tutto. E' ipotizzabile un punto di convergenza della rivolta sociale?

Le rivolte popolari che hanno squassato prima il Medio Oriente e adesso paesi emergenti come Brasile, Turchia, Sudafrica, interrogano in modo decisivo sulle prospettive della lotta nel classe nel mondo contemporaneo.

La fortissima polarizzazione tra i centri imperialisti e i paesi emergenti, provoca effetti rilevanti nelle periferie interne come i paesi europei Pigs, dove le istituzioni del capitalismo finanziario e multinazionale impongono un brusco arretramento delle condizioni sociali e delle aspettative generali. Aspettative che, al contrario, non potevano che crescere nei paesi emergenti che vedono aumentare la loro quota nell'economia mondiale e i ritmi di crescita. Il problema è che le classi dominanti dei Brics non si sottraggono al dominio del capitalismo e della egemonia della finanziarizzazione, frustrando così le aspettative accresciute delle classi sociali che sono venute affermandosi dentro i nuovi livelli economici. Lo conferma il Brasile dove il PT (Partito de los Trabahladores) diventato partito di governo non si è sottratto ad una certa marcescenza e corruzione che viene denunciata nelle manifestazioni e dai movimenti sociali.

Percentuale sulla produzione manifatturiera mondiale

 1991-19922011-2012
Stati Uniti21,815,4
Giappone19,49,6
Germania9,26,1
Francia5,02,9
Italia5,53,1
TOTALE50,943,1
Cina4,121,4
Brasile2,12,9
India1,23,3
Russia0,22,8
Corea del Sud2,42,1
TOTALE10,032,7
Da questa tabella mancano paesi importanti come Turchia e Sudafrica che possiamo ben considerare come economie emergenti.

La prima ha guadagnato diversi posti nella collocazione nelle filiere mondiali di produzione. Era tredicesima nel 1995 per valore aggiunto dei beni finali nelle esportazioni nell'area euro ed è salita all'ottavo posto nel 2009 (Bollettino mensile della Bce, maggio 2013). I turchi per anni hanno lavorato fino a 50 ore a settimana in previsione di una redistribuzione di reddito, diritti e qualità della vita che però non è arrivata (o è arrivata solo in piccola parte) e che ora è assai improbabile che arrivi di fronte alla crisi per ora ancora parziale di una bolla speculativa incentrata su edilizia e grandi opere.

Il secondo, Sudafrica, pur con tutte le sue arretratezze, rimane la maggiore potenza economica del continente africano (52 milioni di abitanti e un Pil di 408 miliardi di dollari nel 2011), insidiato dalla Nigeria ricca di petrolio e con il doppio degli abitanti ma priva di una struttura industriale come quella sudafricana. Le aspettative del dopo apartheid sono state ampiamente disattese sul piano economico-sociale con i programmi di crescita di ispirazione liberista del periodo M'Beki. L'attuale leadership di Zuma non ha avviato controtendenze ed anzi ha accentuato lo scontro sociale ad esempio con i minatori ma anche per i proletariato urbano delle baraccopoli. La morte di Mandela potrebbe togliere l'ultimo elemento "unificante" per la tenuta sociale, almeno sul piano dell'immagine e della memoria storica.

Anche in questi due paesi sono cresciute quelle che piuttosto arbitrariamente vengono considerate come "classi medie", trattandosi in larga parte di lavoratori salariati. Ma questa crescita quantitativa di lavoratori da un lato riduce la marginalità sociale dovuta all'economia informale e di pura sussistenza, dall'altro alimenta scolarizzazione di massa e dunque aspettative generali crescenti delle nuove generazioni. Un fenomeno analogo, questo, ai paesi arabi dove le rivolte della Primavera araba hanno visto protagonisti i giovani disoccupati ma scolarizzati.

Moises Naim, direttore della rivista Foreign Policy, in un interessante articolo (La Repubblica del 24 giugno) prova ad analizzare così le ragioni e la geografia delle rivolte sociali in corso. "In principio fu la Tunisia, poi il Cile e la Turchia. E ora il Brasile. Che cos'hanno in comune le proteste di piazza in Paesi così diversi tra loro? Varie cose… e tutte sorprendenti" afferma Naim. A suo avviso le cause scatenanti sono:

1. Piccoli incidenti che diventano grandi. In tutti questi casi, le proteste sono partite da avvenimenti locali che inaspettatamente si sono trasformati in un movimento nazionale.

2. I Governi reagiscono male. Nessuno dei governi dei Paesi dove sono scoppiate queste proteste è stato in grado di anticiparle. Gli eccessi della polizia o dei militari hanno finito per aggravare ulteriormente la situazione.

3. Le proteste non hanno capi né una catena di comando. Queste mobilitazioni di rado hanno una struttura organizzativa o leader chiaramente definiti.

4. Non c'è qualcuno con cui negoziare o qualcuno da incarcerare. La natura informale, spontanea, collettiva e caotica delle proteste disorienta i governi.

5. È impossibile prevedere le conseguenze delle proteste. Nessun esperto è riuscito a prevedere la primavera araba.

6. La prosperità non compra la stabilità. La principale sorpresa di queste proteste di piazza è che sono avvenute in Paesi di successo, dal punto di vista economico.

Quest'ultimo punto ci riporta alla riflessione iniziale. Se è vero che una maggiore prosperità non porta a maggiore stabilità, è anche vero che il conflitto sociale si fa più aspro e coinvolgente nei paesi in crescita economica che in quelli dove i diktat e le misure imposte ad esempio dalla Troika - come i paesi euromediterranei Pigs - hanno determinato sia una riduzione della crescita economica che delle aspettative generali. La paura di perdere ciò che è rimasto del modello sociale europeo più che mobilitare smobilita il conflitto sociale. Può essere questa una parziale risposta al perché nei paesi europei non ci sono rivolte sociali contro la brutalizzazione imposta da Unione Europea, Fmi e Bce. Ci sono certo resistenze sociali e sindacali importanti, in Grecia e Spagna più che in Italia, ma nulla di somigliante a quanto stiamo vedendo in Brasile o Turchia o a quanto abbiamo visto nei paesi arabi.

Nei paesi europei il controllo sociale e il ruolo di pompieri svolto da apparati istituzionali, sindacati ufficiali e partiti, anche di sinistra, è sicuramente più forte. Ma è indubbio che la contraddizione tra aspettative generali crescenti e miseria messa a disposizione dalle classi dominanti appaia oggi più forte nei paesi emergenti che nelle periferie interne dei centri imperialisti.

Questa brevissima disamina ci pone diverse questioni rilevanti e strategiche:

1)  In primo luogo è evidente la tendenza del capitalismo ad accentuare la "proletarizzazione" sia attraverso l'arretramento dello status delle classi medie e del lavoro salariato nei paesi capitalisti (es: i Pigs europei), sia attraverso la maggiore industrializzazione delle economie periferiche che sono state integrate dalle multinazionali nelle filiere mondiali della produzione. I salari e gli standard di vita diminuiscono nei paesi europei marginalizzati dalla gerarchizzazione nell'Eurozona intorno alla Germania o dell'area del dollaro intorno agli USA, aumentano invece nei paesi emergenti, inclusi i paesi dell'Europa dell'Est recentemente integrati nelle filiere produttive che fanno capo al nucleo centrale europeo.

2)  La crisi sistemica del capitalismo sta però scrollando tutta la geografia economica mondiale. I trend crescenti dei paesi emergenti - i Brics e non solo - stanno entrando in pesante sollecitazione anche sotto la spinta della centralizzazione finanziaria e industriale intorno ai poli imperialisti e alle loro principali aree monetarie (dollaro ed euro). Quando il gioco si fa duro le banche pretendono tutto (vedi l'arrogante documento della JP Morgan sui paesi euromediterranei) e l'abbassamento dei salari e degli standard sociali anche nei centri imperialisti rende reversibili processi come la delocalizzazione produttiva avviando controtendenze come la re-internazionalizzazione

3)  Il conflitto e le rivolte sociali seguono così dinamiche divergenti. Aumentano lì dove ci sono aspettative generali crescenti, diminuiscono lì dove ci sono aspettative generali in caduta libera. Ma in entrambi i casi il modello capitalista mostra tutti i suoi limiti. Non può far crescere oltre un certo limite le aspettative nei paesi emergenti, le riduce brutalmente in quelli a capitalismo avanzato. Una situazione eccezionale per riaffermare che le alternative al capitalismo - a partire dalla pianificazione economica - possono essere le sole a poter rappresentare una prospettiva di emancipazione delle classi sociali subalterne sia nei paesi emergenti Brics, sia in quelli europei Pigs.

4)  Se questo è vero, il terreno per le forze rivoluzionarie torna ad essere fertile come non lo era da decenni. Per seminare e raccogliere non basta però la spontaneità del movimento sociale né l'inerzia o le consuetudini dei partiti della sinistra eredi dell'abbandono dell'ipotesi rivoluzionaria da parte dei comunisti tra gli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo. Il Socialismo nel XXI Secolo (e non del XXI Secolo) può rientrare nell'agenda politica e storica dell'umanità con rinnovata credibilità. Molto dipende anche dalle soggettività e dalla maturità che si riuscirà a mettere in campo, in ogni singolo paese e in coordinamento tra di essi.