giovedì 6 novembre 2014

La (finta) indipendenza tra Banche centrali e governi

La (finta) indipendenza tra Banche centrali e governi. A parte una
di Vito Lops - 05/11/2014

Fonte: Il Sole24ore

Come è stato raggiunto questo obiettivo? Spingendo i governi a staccarsi dalla rispettiva banca centrale. In Francia il divorzio tra la il ministero del Tesoro e la banca centrale risale al 1979, in Italia al 1981, e così via

A fine anni ’70 il movimento iper-liberista ha ottenuto uno degli obiettivi del suo “programma”: porre gli Stati nelle stesse condizioni di una famiglia o un’impresa. Così come una famiglia e un’azienda devono fare molta attenzione alle entrate e alle uscite (cercando di bilanciarle) anche lo Stato non può eccedere nelle spese e deve far quadrare i conti. Perché se non lo fa rischia di creare un’elevata inflazione. Come è stato raggiunto questo obiettivo? Spingendo i governi a staccarsi dalla rispettiva banca centrale. In Francia il divorzio tra la il ministero del Tesoro e la banca centrale risale al 1979, in Italia al 1981, e così via.
Prima di allora i Paesi potevano tecnicamente fabbricare denaro a costo zero (perché dopo lo sganciamento della convertibilità oro-dollaro decisa dal presidente Richiard Nixon nel 1971 la moneta è diventata puramente fiduciaria, cioè basata sulla fiducia dei cittadini nei confronti del governo che la emette) o comunque al tasso di interesse stabilito a priori dallo stesso governo (si offriva un tasso nelle aste di titoli di Stato e in caso di invenduto per mancanza di offerta interveniva la Banca centrale bloccando così la risalita dei tassi). La Banca d’Italia lo ha fatto per anni innescando una repressione finanziaria (il tasso pagato sui titoli di Stato era inferiore all’andamento dell’inflazione). E’ questo il vero motivo per cui fino ad allora il debito pubblico in rapporto al Pil era sotto controllo ed è invece raddoppiato negli anni ’80 dopo il divorzio che ha posto il debito italiano totalmente al giudizio dei mercati. A quel punto è cambiato il paradigma: da allora sono stati gli investitori e non più il governo a scegliere il tasso di interesse che lo Stato doveva pagare sul debito pubblico. Agli investitori, si sa, la repressione finanziaria non piace e quindi hanno chiesto un tasso di interesse nominale più alto dell’inflazione per riportare il tasso reale in territorio positivo.

Questa è storia. Ma a questo punto le posizioni ideologiche si distanziano. Il movimento iper-liberista sostiene che il divorzio è sacrosanto perché è giusto mettere gli Stati sotto la disciplina del mercato. Se uno Stato non è soggetto a tale disciplina non sarà mai virtuoso e tenderà a generare “spese allegre” facendo lievitare la “tassa occulta” dell’inflazione. Se uno Stato non è virtuoso pagherà in ogni caso: con l’inflazione alta (in caso di tassi sul debito controllati dalle banche centrali) oppure con uno spread alto rispetto ai Paesi più virtuosi (in caso di divorzio)
La visione keynesiana, invece, si discosta profondamente, per almeno quattro motivi:
1) i mercati, lasciati allo sbando e con poche regole e molto non-regole – come quella che consente alle banche di svolgere contemporaneamente la funzione di banca tradizionale (prestare soldi alle imprese sulla base dei depositi, il che in realtà non è proprio così come spiega la Banca di Inghilterra) e di banca di investimento (destinare gli impieghi ad attività finanziarie, come l’acquisto di titoli derivati, anziché all’economia reale) – non sono efficienti. Tendono a creare bolle, a spingere i manager delle aziende, remunerati in stock option, a pensare ai profitti a breve termine piuttosto che a quelli a lungo dettati da logiche di investimenti pluriennali. Il tutto alimentando una distribuzione del reddito sbilanciata tra chi opera nel campo dell’economia reale e chi invece con la finanza. Gli stessi mercati poco regolamentanti che hanno spinto le attività finanziarie bancarie oggi a valere il 500% del Pil globale (a cui si aggiunge un 120% dal sistema bancario ombra).
2) per uno Stato che parte in svantaggio (quindi con tassi alti) diventa complesso tornare virtuoso nei conti (posto che per i keynesiani non è questo l’obiettivo di uno Stato) a fronte del pagamento di tassi reali positivi sul debito. Alti tassi sottraggono risorse da iniettare nella crescita. E quando il tasso reale è superiore alla crescita del Pil quel Paese finisce lentamente per deindustrializzarsi. E’ quello che sta accadendo in modo smaccato in Grecia da anni, che paga tassi reali sul debito superiore al 6% e anziché crescere, decresce.
3) una logica di repressione finanziaria favorisce l’industrializzazione di un Paese, una logica di tassi reali dei mercati positivi invece spingerebbe invece nella direzione opposta
4) considerare lo Stato alla stregua di un normale operatore privato non ha – a detta dei keynesiani – logica dato che lo Stato è l’unico operatore che può essere spinto a compiere degli investimenti sociali, che si incanalano nel concetto di vita buona e pensati per il benessere della collettività anche se talvolta poco efficienti dal lato del profitto, unico punto di vista invece di un attore privato.
Questi i termini dello scontro ideologico, da almeno 30 anni, vinto dal movimento iper-liberista. L’ultima crisi, però, ha evidenziato un paradosso. I mercati si sono rivelati più “keynesiani” di quanto si possa immaginare. Gli ultimi record di Borsa sono stati registrati proprio grazie alle politiche ultra-espansive delle banche centrali (in particolare Federal Reserve, Banca del Giappone e Banca di Inghilterra). Politiche che tecnicamente, nella teoria economica, si configurerebbero come inflazionistiche perché orientate sull’aumento del deficit e quindi non certo orientate al controllo della spesa.
Politiche in ogni caso che hanno messo in dubbio il concetto di indipendenza tra governi e banca centrale. La scorsa settimana, quando la BoJ ha annunciato un nuovo pacchetto di iniezioni monetarie per quasi 1.000 miliardi di dollari, lo ha fatto di concerto con il governo e con l’intento dello stesso di innalzare l’inflazione oltre il 2%. Il Giappone, quindi, tramite la Banca centrale, sta praticando la stessa repressione finanziaria che applicava l’Italia prima del divorzio del 1981. Perché l’inflazione è più alta del rendimento (+0,5% a 10 anni) pagato sull’enorme debito pubblico (220% del Pil). Difficile sostenere il contrario per quanto successo negli ultimi cinque anni negli Stati Uniti: con tre manovre di quantitative easing la Fed ha agito a braccetto con le esigenze del Tesoro e lo stesso dicasi per la Banca di Inghilterra.
Queste tre economie hanno reagito alla crisi praticando politiche espansive orchestrate dall’asse banche centrali-governi, formalmente indipendenti ma nella sostanza tutt’altro quando si è trattato di reagire a una crisi. Ed è lo stesso che fanno le banche centrali degli altri Paesi asiatici. Nel frattempo al momento non si sono visti i temuti effetti inflattivi di tali manovre.
L’unico istituto a ostentare con orgoglio lo scettro dell’indipendenza (anche se la sudditanza psicologica nei confronti della Bundesbank pare evidente) è la Banca centrale europea. Anche perché gli Stati rappresentati sono 18 e ognuno ha esigenze differenti (il Sud avrebbe bisogno di manovre espansionistiche, al Nord non dispiacerebbe una piccola stretta sui tassi). Un punto sul quale, al di là della posizione ideologica di partenza, è doveroso compiere una riflessione comune per provare a uscire dal guado.

Nessun commento:

Posta un commento