martedì 28 aprile 2015

Intervento di Saba (IASSEM) all'assemblea 2015 Intesa-Sanpaolo a Torino

lunedì 27 aprile 2015

Appello a Papa Francesco per una banca onesta (video)



Le slide della presentazione:




giovedì 23 aprile 2015

Il caso UBI BANCA

La verità sui Gruppi Bancari Italiani: il caso UBI BANCA
Non sarà un articolo breve, e neppure facile da comprendere, soprattutto per le sue ripercussioni, ma cercherò di renderlo il più semplice possibile.
Negli ultimi anni si è assistito ad un cambiamento radicale nel sistema bancario italiano: acquisizioni, fusioni, hanno creato grandi gruppi che teoricamente potessero contrastare il potere dei gruppi speculativi esteri.
Ora, ammesso e non concesso che UBI BANCA, UNICREDIT, INTESA SANPAOLO e via discorrendo non abbiano perseguito speculazioni a dir poco azzardate, anche se tutto sembra dimostrare il contrario ahimè a nostre spese, la domanda che vorrei porvi è altra.
Quando UBI BANCA assorbe una banca, che so, ad esempio la BANCA REGIONALE EUROPEA, secondo voi fa una valutazione d’azienda e la compra in toto, giusto?  
Facile pensare a questo, specialmente quando il BILANCIO PUBBLICO del gruppo, che potete vedere per il 2013 a questo link, al punto 2.1 dello stesso documento pubblico a pagina 7 dice letteralmente: “Unione di Banche Italiane Scpa (in breve UBI Banca) è la banca capogruppo del Gruppo UBI Banca ed è nata il 1° aprile 2007 in seguito alla fusione per incorporazione di Banca Lombarda e Piemontese in Banche Popolari Unite, con la conseguente integrazione dei due gruppi omonimi.”
UNIONE, dal dizionario Treccani, significa, “L’azione e l’operazione di unire, il fatto di unirsi o di essere uniti con uno o più altri individui, enti, oggetti, parti o elementi; dal lat. tardo unio -onis, der. di unus «uno»”.
Tanti che diventano uno, tante banche che diventano un gruppo.

Fino a qua tutto torna: se vi guardate in giro gli sportelli delle varie banche che sono diventano UNO nel gruppo UBI BANCA sono tutti o stati chiusi, oppure hanno cambiato la loro prima denominazione per essere tutti chiamati “UBI BANCA” e solo in rari casi, subito dopo, mantenere l’originario nome.
Si potrebbe pensare che sia successo qualcosa di diverso? In quanti si prendono la briga di andare a leggersi i bilanci pubblici, gli atti di conferimento, gli atti di fusione, nonostante siano atti pubblici ed interessino particolarmente se si hanno rapporto con questo gruppo?

lunedì 20 aprile 2015

Il signoraggio implicito degli americani

thewalking

Il signoraggio implicito degli americani

Maurizio Sgroi

http://www.sinistrainrete.info/index.php?option=com_content&view=article&id=5002:maurizio-sgroi-il-signoraggio-implicito-degli-americani&catid=98:articoli-brevi&Itemid=87

Conosciamo tutti l’esorbitante privilegio, come lo ebbero a definire i francesi, di cui godono gli americani, in quanto emittenti della moneta internazionale. Se ne parla dagli anni ’60, e malgrado la tanta letteratura che è stata scritta nel frattempo su questa sorta di signoraggio esplicito, ossia la differenza fra quanto costa agli americani emettere la moneta e quanto ci guadagnano dall’utilizzo che ne fanno loro, magari all’estero, e gli altri paesi, che tale signoraggio devono pagare, assai meno si conosce su un altro tipo di signoraggio, che è squisitamente implicito.
Mi riferisco, in particolare, al costo che gli americani scaricano indirettamente sui paesi che usano il dollaro per le loro transazioni commerciali e finanziarie, derivante dal fatto che il costo del dollaro, come ogni cosa, dipende dalle scelte di politica monetaria degli Usa.
Se vi sembra esoterica, questa domanda, forse è perché non ricordate che in giro per il mondo circolano circa 9 trilioni di asset denominati in dollari, emessi quindi da paesi non americani, con i quali il mondo dovrà fare i conti una volta che la Fed deciderà di cambiare le sue scelte di politica monetaria.
Peraltro questa cosa non deve essere poi così tanto esoterica se la Bis ha deciso di dedicarci un working paper uscito qualche tempo fa (“Financial crisis, US unconventional monetary policy and international spillovers”), scritto da Qianying Chen, Andrew Filardo, Dong He e Feng Zhu.
Mi decido a leggerlo non tanto perché sia un patito della modellistica macroeconomica, che tendenzialmete aborro, ma perché l’analisi consente di apprezzare un punto dolente della nostra attualità, che ormai i regolatori di mezzo mondo non si stancano di ripetere: il costo dell’exit strategy americana, in particolare per i paesi emergenti, che più di altri dal 2009 in poi hanno fatto largo uso dell’indebitamento internazionale in valuta americana. Chiunque pensi che questa cosa non lo riguardi, dovrebbe riflettere meglio sulla profondità delle interconnessioni finanziarie globali.
Ma soprattutto vale la pena leggere lo studio perché esprime a chiare lettere un concetto che gli entusiasti dei quantitative easing (QE) tendono a sottovalutare: il QE, e in particolare quello Usa, ha un costo che può diventare rilevante per moltissimi.
Ciò non vuol dire che il QE non abbia prodotto anche benefici, ma più sottilmente, che insieme ai benefici ci sono anche i costi, reali e potenziali. Per dirla con le parle degli autori, “Abbiamo riscontrato che l’impatto stimato del QE sono notevoli e variano al variare delle economie”. E in particolare quando si parla di economie emergenti.
Tutto questo nella consapevolezza che “sappiamo ancora poco sull’impatto delle politiche non convenzionali sulle attività reali e che finora sono state fatte poche ricerche sugli spillover transfrontalieri, specialmente nelle economia emergenti”.
Alcuni studi hanno stimato che il QE americano abbia abbassato i tassi sui bond di 20-80 punti nelle economie avanzate e abbia provocato un deprezzamento del dollaro del 4-11%. Altri hanno rilevato che il prezzo delle commodity ha declinato sostanzialmente prima che la Fed lanciasse il QE. E tutto ciò solleva interrogativi su come si comporteranno questi valori una volta che tale politica straordinaria verrà meno.
Anche perché non c’è identità di vedute fra gli studiosi sull’utilità di politiche coordinate fra le varie banche centrali. Acuni pensano tuttora che il QE sia un problema dei singoli paesi che lo attivano, e che gli evetuali spillover transfrontalieri siano tutto sommato trascurabile.
Altri pensano il contrario. Ossia che le migliaia di miliardi di asset acquistati dalle banche centrali, Fed in testa, hanno avuto a avranno in futuro inevitabili conseguenze sull’economia globale, come si è già osservato studiando gli effetti che hanno provocato sul dollaro e quindi indirettamente su tutti i paesi che sul dollaro basano la loro economia.
Perciò gli autori hanno svolto un’analisi basandosi sui dati relativi a 17 economie, avanzate ed emergenti, studiando i dati dal 2007 al 2013. Ciò che ne hanno tratto è stato che il calo degli spread provocato da QE ha avuto notevole ripercussioni globali sia sul lato finanziario che su quello economico.
La buona notizia è che tali effetti hanno prevenuto esiti ancora più nefasti, tipo un collasso del sistema economico globale. Quella cattiva è che per la stessa ragione li possono provocare adesso, una volta che l’allentamento monetario terminerà.
Il rischio emergenti si appalesa con chiarezza una volta che si osservi come il QE americano abbia impattato assai più su questi paesi che su quelli avanzati. Ed proprio su questi paesi che il signoraggio implicito ha spiegato i suoi esiti più importanti.
Ma ovviamente esiti ancora più importanti il QE della Fed li ha operati in casa, abbassando notevolmente i rendimenti e alimentando la crescita del credito. In generale gli studiosi hanno rilevato che un calo di 20,7 punti base negli spread nei bond corporate ha elevato dello 0,2% il Pil reale in un orizzonte di tre anni.
D’altronde che il QE abbia giovato, momentaneamente, agli Usa è fuor di dubbio. Così come è fuori di dubbio che il resto del mondo ne abbia subito le conseguenze.
L’analisi mostra che il calo degli spread sui bond corporate Usa ha impattato notevolmente sulle economie dell’America latina e dell’Asia, sia relativamente ai mercati azionari e obbligazionari, ma anche sul mercato valutario, visto che il deprezzarsi del dollaro ha apprezzato le loro valute.
In Brasile infatti si sono riprodotti effetti simili a quelli registrati altrove, con le azioni in crescita, come il credito e il prodotto. Il paese ha potuto godere di una crescita indotta del prodotto e ha potuto uscire rapidamente dalla recessione del 2009, grazie allo zio Sam.
In Cina il calo dell’US term spread ha avuto lo stesso effetto sulla crescita della moneta e del credito, che hanno ceduto lo 0,2 e lo 0,3% rispettivamente, per poi tornare positivi in pochi mesi. Ma anche la Cina ha goduto, seppure meno del Brasile per le sue più stringenti condizioni monetarie, della bonanza americana.
Ma il signoraggio implicito ha svolto i suoi esiti anche nell’eurozona. In particolare un taglio di 14,2 punti dell’Us term spread, ha provocato un ribasso nell’eurozona di 10 punti base, sempre nell’orizzonte di tre anni. Un calo di 20,7 punti base, oltre ad abbassare il rendimento in Europa, ha provocato un crescita del credito nell’area dello 0,1% e dell’output dello 0,2%, facendo pure crescere l’inflazione. Inoltre, i prezzi delle azioni sono cresciuti dell’1% in quattro mesi.
Se osserviamo gli esiti del QE sui paesi emergenti, notiamo che, a parte l’entità di tali conseguenze, gli effetti sono stati simili a quelli registrati nell’eurozona.
Tutto ciò dimostra con chiarezza una semplice, elementare verità: di fronte agli Usa siamo tutti paesi emergenti, o, se preferite, di fronte al Signore americano, siamo tutti chi più chi meno vassalli.
E questo spiega molto bene perché un semplice starnuto della Fed è capace di contagiare il raffreddore al resto del mondo.
Con buona pace della Bce.

domenica 19 aprile 2015

Cassa depositi e prestiti, da oggi la Bce la finanzia

Cassa depositi e prestiti, da oggi la Bce comprerà anche le sue obbligazioni

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/15/cassa-depositi-prestiti-oggi-bce-comprera-sue-obbligazioni/1594177/

Cassa depositi e prestiti, da oggi la Bce comprerà anche le sue obbligazioni
Numeri & News
Il gruppo che gestisce il risparmio postale è entrato nella cerchia degli enti che possono beneficiare del quantitative easing dell'Eurotower anche grazie all'emissione destinata ai piccoli risparmiatori. Sempre mercoledì il cda ha approvato il bilancio 2014 e deciso di concedere ai Comuni una rinegoziazione di mutui per un valore complessivo di 13,4 miliardi
La notizia farà felice il presidente Franco Bassanini e l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini: da ora in poi la Banca centrale europea, nel quadro del quantitative easing, comprerà anche i bond del gruppo che gestisce il risparmio postale degli italiani. Una novità che è anche “merito” del primo prestito obbligazionario destinato ai risparmiatori, quello emesso a marzo e, a differenza dei buoni postali, non garantito dallo Stato: grazie a quella emissione da 1,5 miliardi e a un’altra, riservata agli istituzionali, effettuata alla fine del mese scorso, la cassa ha infatti raggiunto la soglia minima di 10 miliardi di titoli negoziati necessaria per rientrare nell’elenco delle agenzie pubbliche (dalla Banca europea degli investimenti all’European stability mechanism) che possono beneficiare del programma dell’Eurotower partito un mese fa.
La novità, decisa dal direttivo nel giorno della conferenza stampa movimentata dal lancio di coriandoli sulla testa di Mario Draghi, permetterà alla Cassa di alleggerire il bilancio di una parte delle passività. Proprio mercoledì il consiglio di amministrazione ha approvato i conti dell’esercizio 2014, che si è chiuso, come previsto, con utili per 2,17 miliardi di euro, in calo dell’8% rispetto al 2013. La raccolta complessiva risulta in crescita dell’11% a 325 miliardi di euro, di cui 252 rappresentati dalla raccolta postale. Il margine d’interesse si è attestato a 1,2 miliardi di euro, in flessione del 54% rispetto all’esercizio precedente per la contrazione dei tassi di mercato e in particolare la discesa del rendimento del conto corrente di Tesoreria. Il gruppo, che è partecipato al 18,4% dalle Fondazioni bancarie, ha “mobilitato e gestito risorse” per 29 miliardi di euro circa, in aumento del 5% rispetto all’esercizio precedente. Ma è calato notevolmente il “sostegno al sistema produttivo nazionale”, a cui sono stati dedicati 7,6 miliardi di euro contro i 16,1 del 2013, nonostante il lancio del plafond per l’acquisto di beni strumentali e del fondo minibond (strumenti di finanziamento destinati alle piccole e medie imprese).
Al contrario sono salite del 59%, a 9,4 miliardi, le risorse concesse agli enti locali. Il cda, che a fine marzo aveva deliberato di dedicare 15 miliardi a un programma di rinegoziazione dei mutui contratti da Regioni, Province e città metropolitane, mercoledì ha deliberato un’iniziativa identica anche per i mutui concessi ai Comuni. L’iniziativa riguarda potenzialmente circa 90mila finanziamenti in favore di 4.400 enti, per un ammontare di 13,4 miliardi. Gli enti potranno allungare la durata di rimborso del proprio debito e ottenere una riduzione del tasso di interesse medio.

lunedì 6 aprile 2015

TTIP, TPP e analoghe porcherie

micromega

TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali

di Carlo Formenti

La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.

TTIP, TPP e analoghe porcherie

micromega

TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali

di Carlo Formenti

La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.

sabato 4 aprile 2015

€xit e ridenominazione

Sabato 28 Marzo 2015 21:07
gennaro zezza

€xit e ridenominazione

di Gennaro Zezza

http://gennaro.zezza.it/?p=1583

Mi ha colpito un passaggio dell’intervento di Vincenzo Visco “Fuori dall’euro?”, pubblicato su Economia e politica come contributo al dibattito originato dall’articolo di Realfonzo e Viscione.
Sembra che Visco sia meglio informato (certamente meglio informato di me!) sugli accordi siglati dai nostri governi in sede internazionale. Riporta infatti che
nel 2012 in occasione della costituzione del ESM gli stati membri dell’eurogruppo hanno concordato che una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, possa essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori
Verificare questa affermazione non è affatto facile. Il testo del trattato che istituisce l’ESM dovrebbe essere disponibile qui
http://www.european-council.europa.eu/media/582311/05-tesm2.en12.pdf
come riportato nella pagina della Commissione Europea sull’argomento, ma il Consiglio Europeo ha pensato bene di spostarlo, e trovarlo tramite il loro motore di ricerca interno è un’impresa. Dalle scarne informazioni si desume che il Trattato che istituisce l’ESM, modificato nel 2012, ha richiesto ai governi di inserire delle clausole (CAC, Collective Action Clauses) nelle emissioni di tutti i titoli con scadenza superiore a 12 mesi, a partire dal 2013. Dei dettagli tecnici legali sono – ad esempio – qui: http://www.linklaters.com/pdfs/mkt/london/A14950441_0_11_120508_CAC_client_memo_MND.pdf
Queste CAC tutelano i creditori, stabiliscono le priorità su chi viene rimborsato per primo, ecc.
Non sono riuscito a verificare, in una mezza giornata di lavoro, se Visco abbia ragione, ma supponiamo che sia vero. La prima conseguenza è che, nella totale mancanza di informazione, i nostri governi continuano ad assegnare tutele e diritti ai creditori – soprattutto ai creditori esteri – a scapito dei diritti e delle tutele degli italiani.
Amici più esperti di me nel diritto internazionale mi dicono però che questi Trattati, qualora siano in contrasto con gli interessi nazionali, non verrebbero applicati. In ogni caso, aver sottoscritto queste clausole renderà più complesso il processo di eventuale uscita dall’euro.
Visco aggiunge anche
i 140 mld che la Banca d’Italia acquisterà con i finanziamenti QE da parte della BCE (…) saranno per definizione di diritto estero
Questa affermazione è senz’altro errata, perché la Banca d’Italia acquisterà i titoli sul mercato secondario, e quindi sotto legislazione italiana. Ci sono però delle clausole di compartecipazione al rischio nel caso di default, e presumo che una ridenominazione in “nuove lire” dei titoli sia assimilata ad un default. In ogni caso, sembra più credibile quanto discusso qui, dove si afferma che i titoli pubblici acquistati nel programma QE sarebbero “de facto” fuori dalla giurisdizione italiana.
Si veda anche questo documento della Banca d’Italia.
Ma allora, posto che il QE si tradurrà in una iniezione di liquidità per le banche italiane, che la utilizzeranno per acquistare attività finanziarie in giro per il mondo – e non certo per finanziare le PMI italiane – se il costo da pagare è trasformare debito pubblico italiano in debito estero, ne vale la pena?