giovedì 12 novembre 2015

Il testamento di Luciano Gallino: Costruire le fabbriche del dissenso

manifesto

Luciano Gallino, costruire le fabbriche del dissenso

Roberto Ciccarelli

Addio al grande socio­logo Luciano Gal­lino, scom­parso a 88 anni. Ritratto di un intel­let­tuale poli­tico costruito in anni di inter­vi­ste al telefono. Perché al tele­fono il pen­siero viene messo al lavoro. A una domanda, può cor­ri­spon­dere una rispo­sta impre­ve­di­bile al ritmo del presente
gallinoLuciano Gallino è morto a 88 anni. L’ultima volta che l’ho sentito al telefono, per un’intervista, era ai primi di luglio 2015. Ci eravamo lasciati con un appuntamento in autunno, quando sarebbe uscito il suo nuovo libro Il denaro, il debito e la doppia crisi, una lunga lettera ai suoi nipoti, più che un testamento uno strumento di battaglia contro l’austerità. Pensavamo a un’altra intervista, per discutere del libro. Mi disse: “Sa sono stato male, ma ho continuato a lavorare al libro. Adesso sto correggendo le bozze”.Era pieno di energia, mi disse. Lo richiamato più volte, nelle ultime settimane. Non è stato possibile parlarci.

Il ticchettìo dell’Olivetti
Era diventata un’abitudine, questa lunga frequentazione telefonica iniziata, credo, nel 2009.
Il nostro metodo di lavoro era improvvisato, ma era sempre preciso, infallibile. Lo chiamavo al mattino, prospettavo l’argomento dell’intervista: una dichiarazione del governo di turno, un avvenimento politico europeo di primo piano, un movimento degli studenti, una legge finanziaria, l’ultimo libro pubblicato. Mi rispondeva cortese, sembrava prendere appunti a mente, mi chiedeva sempre di richiamarlo al pomeriggio. Prendeva molto sul serio l’argomento, sembrava volerlo studiare a fondo. Lo richiamavo e, alla prima domanda, iniziava a parlare con un filo di voce, con calma, a raffica. Faticavo a stargli dietro.

Durante un dialogo avvenuto a fine 2012, per una lunga intervista pubblicata a fine anno su Il Manifesto, si interruppe. Mi chiese: “Ma lei sta scrivendo mentre parlo?”. “Sì, professore”. “Ah che bello, mi ricorda l’Olivetti, questo ticchettìo continuo”.
Gallino ha coltivato a lungo l’esperienza di vita, e di lavoro, per il grande industriale di Ivrea. La sua collaborazione con “l’impresa responsabile” dell’ingegnere (a cui ha dedicato uno dei suoi ultimi libri) iniziò nel 1956, all’Ufficio Studi Relazioni Sociali, una struttura di ricerca aziendale all’avanguardia per i tempi, qualcosa che oggi appare fantascienza per gli italiani. Per gli undici anni successivi, fino al 1971, ha diretto il Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull’organizzazione (SRSSO) sempre all’Olivetti, negli stessi anni iniziava a Stanford una carriera scientifico che lo avrebbe portato a diventare uno dei sociologi del lavoro, dell’industria, della teoria sociale riconosciuti in tutto il mondo. Per capire Gallino, e la sua tensione verso l’innovazione e diritti dei lavoratori, bisogna capire con chi lavorava a Ivrea. Il suo dirigente era Paolo Volponi, lo scrittore di “Corporale” o de “Le Mosche del Capitale” che molto raccontò dell’esperienza di fabbrica da parte degli intellettuali marxisti, e non, divisi tra la visione autoritaria della Fiat e quella illuministica, razionale e neo-comunitaria di Olivetti.
Il ticchettìo della tastiera del mio computer, mi disse, gli ricordò quella stagione a cui è rimasto fortemente legato: la stagione degli scrittori e poeti in fabbrica: Giudici, Fortini, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni. Ma anche di intellettuali di grande respiro europeo come Sergio Bologna. Tutta una generazione formata allo studio concreto, materiale dell’organizzazione dell’impresa intrecciata con la vita al lavoro dei lavoratori. A contatto con i circuiti della produzione, con le asprezze della mediazione sindacale e politica, con l’esigenza di portare l’impresa nel territorio, o nella città, e non di sussumere il territorio e la vita nell’impresa. Gallino conosceva la tecnica dall’interno e la pensava con un doppio cervello: la scienza dell’organizzazione americana e la teoria critica della scuola di Francoforte.

Al telefono
Ho conosciuto Gallino dai suoi libri, non come studente, o come collega. Il dizionario di sociologia, Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazioneIl costo umano della flessibilità,Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisiLa lotta di classe dopo la lotta di classeIl colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, tra i tantissimi. E l’ho conosciuto al telefono. Uno strumento che permette di mantenere una strana intimità pur restando dei perfetti estranei. Il telefono permette di mantenere la giusta distanza dalle cose, in un equilibrio tra ciò che si sa e lo sconosciuto.
Perché, al telefono, il pensiero viene messo al lavoro. A una domanda, può corrispondere una risposta imprevedibile. Ad esempio, nel 2009: in un’intervista sul precariato dell’università, che molto ha preoccupato Gallino, il professore emerito mi sorprese, spingendo a cambiare completamente il senso dell’intervista. Iniziò a parlare di reddito di base per tutti, una prospettiva — mi disse — non proprio convergente “con la mia formazione di sociologo dell’industria”. Continuavo a scrivere, provando a non perdere una parola. Gallino, dopo una breve riflessione, era pronto a rovesciare le sue casematte e stare all’altezza del problema. La prospettiva non lo convinceva, ma andava sino in fondo alla questione, con una decisione che nel tempo sarebbe diventata un vero stile politico. Ecco cosa mi disse:
“Una delle posizioni etico-politiche del reddito di base è rendere gli individui maggiormente liberi dinanzi alle scelte lavorative e, si può presumere, anche alle scelte nel percorso universitario e post-universitario. Se una persona è a reddito zero, cioè se non ha mai avuto un lavoro normalmente retribuito o è un giovane in cerca di una prima occupazione, accetterà qualunque tipo di lavoro. Se, invece, avesse un reddito di base, il cui scopo è tenere le persone al di sopra della soglia di povertà, sarebbe più libero di compiere le sue scelte. Non cercherebbe a tutti i costi uno sbocco lavorativo redditizio. È un po’ tutto da sperimentare, ma ritengo che questo carattere del reddito di base, cioè la costruzione di maggiori spazi di libertà fuori dall’assillo del bilancio quotidiano, potrebbe avere effetti positivi anche sulla ricerca e sui percorsi universitari in genere. Chi è pregiudizialmente ostile al reddito di base troverà infinite ragioni per opporsi. Vi sono molti pro e molti contro. Per ragionare in concreto, il reddito dovrebbe assorbire tutte le spese che vengono erogate sotto la forma di ammortizzatori sociali e assimilati. Se si mette insieme il costo della cassa integrazione ordinaria, cassa straordinaria, cassa integrazione in deroga, liste di mobilità, prepensionamenti, assistenza ai pensionati sotto la soglia di povertà e altre forme di assistenza, sono miliardi di euro. In altre parole, bisogna pensare ad una generale trasformazione delle politiche sociali. I calcoli che si fanno stabiliscono che per stare al di sopra di una soglia della povertà una famiglia avrebbe bisogno di 1.500 euro o giù di lì, 5 o 600 euro per due familiari, la metà per uno o due figli. Ci sarebbe comunque un margine non coperto, però la trasformazione degli ammortizzatori sociali come — per fare un gioco di parole — base per il reddito di base potrebbe far fare un grande passo in avanti. Il reddito di base non è condizionato dal fatto di avere avuto un lavoro. La cosa paradossale oggi è che per avere un sussidio di disoccupazione bisogna avere versato almeno 52 settimane di contributi”.

La lotta di classe dall’alto
Sin dalla fine degli anni Novanta, Gallino ha esplicitato la tensione etico-politica, comune a molti intellettuali torinesi, che lo ha portato a intervenire nel presente con una ricchezza di posizioni tutte ispirate a un rinnovato senso della radicalità. Radicale, lo era Gallino sia nell’impietosa e spesso disperante analisi del dominio capitalistico, sia nell’evocazione degli strumenti della resistenza e dell’alternativa.
L’approccio di Gallino non si limitava all’analisi delle diseguaglianze, oggi piuttosto in voga da quando Thomas Piketty ha avuto successo con un libro pretenziosamente intitolato “Il capitale del XXI secolo”. La gigantesca espropriazione della ricchezza  del lavoro avvenuta a partire dalla fine degli anni Settanta ad oggi, Gallino la chiamava “Lotta di classe”. Coniando — già dal titolo di un libro intervista — la fortunata formula di “lotta di classe dall’alto”.
In una lunga serie di volumi militanti,in cui non mancava certo il rigore inflessibile dello scienziato sociale, questa violentissima asimmetria del potere dei ricchi contro un lavoro sempre più debole e vulnerabile è stata squadernata con una perizia costante. Nel tempo Gallino ha affilato lo stile di intervento politico giungendo a rendere il suo ultimo libro Il denaro, il debito e la doppia crisi una mordace operazione di combattimento dialettico contro l’oligarchia al potere. Spietato il suo giudizio contro i “quattro governi del disastro” che hanno gestito i primi anni della crisi italiana: Berlusconi, Monti, Letta e Renzi. Sono l’espressione di un “colpo di stato delle banche e dei governi”:
“Si può parlare di colpo di stato quando una parte dello stato stesso si attribuisce poteri che non gli spettano per svuotare il processo democratico — mi disse Gallino in un’altra intervista del 2013 — Oggi decisioni di fondamentale importanza vengono prese da gruppi ristretti: il direttorio composto dalla Commissione Ue, la Bce, l’Fmi. I parlamenti sono svuotati e hanno delegato le decisioni ai governi. I governi li hanno passati al direttorio. Se questa non è la fine della democrazia, è certamente una ferita grave. Pensiamo al patto fiscale, un enorme impegno economico e sociale con una valenza politica rilevantissima di cui nessuno praticamente ha discusso. I parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno votato alla cieca perché ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto. Questa espressione è un corollario del colpo di stato in atto”.

L’orologio a cucù
«La concezione dell’essere umano perseguita con drammatica efficacia dal pensiero neoliberale — ha scritto Gallino — ha lo spessore morale e intellettuale di un orologio a cucù». Ne emerge il ritratto della stupidità delle nuove classi dominanti. La stupidità è il risultato morale e intellettuale di chi ha assunto acriticamente l’idea della funzione governamentale della finanza e delle banche; del verbo divino di teorie economiche smentite dalla violenza della crisi nel 2008; della morale della «casalinga sveva» Angela Merkel che «spende soltanto quel che incassa e non fa debiti».
Inflessibile è stato il suo schierarsi a fianco dei subalterni, facendo appello alle forze per la trasformazione politica in un continente disperato come l’Europa. Mai Gallino ha mancato di riflettere sul nesso con la produzione: una trasformazione è politica quando cambia il modo di produzione.
“Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica. In questa fase mancano le premesse politiche per realizzarla. I discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, sono di un’ottusità incomparabile. Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro. La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero”.

Costruire le fabbriche del dissenso
La trilogia composta dal denaro, il debito e la doppia crisiFinanzcapitalismoIl colpo di Stato di banche e governi, da leggere insieme a libri come Attacco allo stato socialeVite rinviate, lo scandalo del lavoro precario, ha trovato un compimento nell’ultimo libro con la definizione dei lineamenti del «pensiero critico», oscurato e rimosso dalle riforme della scuola e dell’università Moratti-Gelmini e imbastite da quel concentrato di idiozie mercantilistiche della legge «di sinistra» Berlinguer.
Bisogna costruire, per tutta la prossima generazione, le «fabbriche del dissenso» ha scritto Gallino. Le idee ci sono, ispirate a un «socialismo ecologico» o a un «socialismo democratico», lo definisce Gallino: riforma della finanza, rottura con il centrismo neoliberale che unisce destra e sinistra, riuso intelligente del neokeynesismo per il popolo, e non per la finanza. «Non sarà un superamento totale del capitalismo, come forse sarebbe necessario – conclude Gallino – ma un modo realistico per tentare una volta ancora di sottoporlo a un grado ragionevole di controllo democratico». Resta da capire se la ragionevolezza basterà per resistere alla sfida mortale di questo capitalismo.
“Oggi siamo ad un bivio — mi disse in un’altra intervista del 2013 sul ruolo del sindacato, a cui non risparmiò critiche — da un lato c’è la demo­cra­zia, dall’altro il capi­ta­li­smo. È pos­si­bile avere l’una senza l’altro? È pos­si­bile un qual­che tipo di accet­ta­bile con­ci­lia­zione tra i due come nel tren­ten­nio dopo la seconda guerra mon­diale? Lo sarà solo se alcuni milioni di per­sone si sve­glie­ranno, insieme ai par­titi poli­tici. Oggi, pro­ba­bil­mente, una qual­che solu­zione è pos­si­bile. Altri­menti andremo verso un capi­ta­li­smo senza demo­cra­zia o con forme dav­vero povere di democrazia”.
“Considerate questo piccolo libro un modesto tentativo volto a aiutarvi a coltivare una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa - ha scritto Gallino - Da noi la cultura di sinistra, quale cultura diffusa di ampie formazioni politiche, è morta, insieme con i partiti che la divulgavano. Appartiene alle sconfitte da cui sono partito. Ma nessuno è veramente sconfitto se riesce a tenere viva in se stesso l’idea che tutto ciò che è può essere diversamente, e si adopera per essere fedele a tale ideale”.