Un organo dello Stato – la Corte dei Conti – che accusa quattro ex ed attuali rappresentati dello Stato e una banca d’affari di aver causato un danno erariale da 4 miliardi di euro. E un ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio ed ex presidente Antitrust che indossa le vesti di difensore della banca. A fare da contorno, sostenendo le tesi dell’accusa, un gruppo di associazioni che rappresentano consumatori e utenti dei servizi bancari. A Roma è andata in scena la prima udienza del processo che vede sul banco degli imputati Morgan Stanley, gli ex ministri all’Economia Domenico Siniscalco (dal 2006 nel board di Morgan Stanley international) e Vittorio Grilli, il direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via e Maria Cannata, che per oltre 17 anni – fino allo scorso febbraio – ha gestito il debito pubblico italiano.
Massimiliano Minerva, sostituto procuratore presso la Procura regionale del Lazio della Corte dei Conti, ha sostenuto che il ministero dell’Economia ha “ignorato e sottovalutato” i rischi dei contratti derivati sul debito pubblico sottoscritti con Morgan Stanley. E ha “gestito denaro pubblico come se fosse privato”. Così tra fine 2011 e inizio 2012 la banca d’affari ha chiesto e ottenuto, senza che il Tesoro si opponesse, l’attivazione di una clausola di estinzione anticipata di uno di questi contratti. Una scelta costata miliardi di euro alle casse dello Stato. “Contratti nulli perché aleatori? Allora deve essere nullo anche il Superenalotto e tutti i derivati sottoscritti con tutte le banche”, è stata la sua linea di difesa”, ha ribattuto il legale della banca Antonio Catricalà, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Monti nonché ex viceministro allo Sviluppo con Letta. Antonio Palmieri, difensore di Cannata, dal canto suo ha replicato che “ciò che la Procura afferma avrebbe provocato la devastazione del mercato finanziario, l’immediata e istantanea perdita di fiducia degli operatori finanziari nella Repubblica italiana, l’esodo degli operatori del debito pubblico e il crollo dell’economia, con effetti irreversibili e devastanti“. Minerva ha rigettato l’idea che nel 2011 si stesse scatenando “la tempesta perfetta sull’Italia” e che il Tesoro dovesse quindi considerare nel rapporto con la banca la difficile situazione congiunturale. “Non avevamo i soldi per pagare i dipendenti pubblici – ha detto – ma per Morgan Stanley abbiamo trovato 3 miliardi dall’oggi al domani”.

La clausola di estinzione anticipata e il danno erariale – I magistrati contabili contestano un danno erariale di 4 miliardi complessivi e chiedono a Morgan Stanley di risarcirne 2,8 mentre ne pretendono altri 1,2 da Grilli, Siniscalco, La Via e Cannata. Quest’ultima dovrebbe rimborsare oltre 1 miliardo. L’oggetto del contendere è la clausola di uscita anticipata dai derivati (Ate, additional termination event) prevista dal decreto ministeriale del gennaio 1997 firmato dall’allora ministro Carlo Azeglio Ciampi, coadiuvato al ministero dall’allora direttore generale Mario Draghi, e ribadita dallo stesso Draghi in una circolare del 2001 inviata al ministro Vincenzo Visco. Nel 2004 Cannata consigliò a Domenico Siniscalco, all’epoca direttore generale del Tesoro, di adottare le stesse forme di derivati con l’opzione di uscita anticipata secondo le procedure indicate da Draghi tre anni prima. Quella inserita nel contratto Isda Master Agreement sottoscritto nel 1994 con il Tesoro prevedeva, in particolare, che se si fosse trovata esposta oltre un certo livello al debito italiano la banca avrebbe potuto chiedere la chiusura del portafoglio facendosi restituire l’intero valore di mercato della posizione. Che in quella fase era particolarmente alto vista la debolezza finanziaria dell’Italia, i cui titoli di Stato in quei mesi arrivarono a rendere oltre 500 punti più degli omologhi tedeschi a causa del rischio percepito dagli investitori.

“Ministero inerte, non ha valutato i rischi” – Per Minerva il contratto chiuso da Morgan Stanley all’apice della crisi del debito era “fortemente aleatorio, con fortissimi profili di rischio e non di sola copertura”, come dovrebbe essere un normale contratto derivato. Lo Stato, ha detto il procuratore, “dovrebbe sempre avere sotto controllo il proprio denaro e la propria esposizione”. Invece il ministero è rimasto “inerte quando ha scoperto la clausola Ate (additional termination event)”, oggetto del processo: “Si è affidato a Morgan Stanley, senza negoziare e senza opporsi. Ma lo Stato poteva, aveva gli argomenti e quindi doveva opporsi all’esercizio di quella clausola”. “C’è stata una gestione del denaro pubblico come se fosse privato“, ha chiosato Minerva, secondo cui dalle carte depositate emerge come il Tesoro si rimettesse “alle indicazioni che provenivano da Morgan Stanley”. Qui, aggiunge, “non si sta parlando di inadempimento contrattuale di Morgan Stanley ma di una violazione di un obbligo di servizio di natura fiduciaria nel rapporto complessivo instaurato con il Mef nella gestione del debito pubblico”. Il Tesoro ha sempre sostenuto di aver utilizzato i derivati come assicurazione contro il rischio di un aumento dei tassi, soprattutto durante gli anni peggiori della crisi finanziaria. Ma, come spiegato dalla procura della Corte dei Conti a febbraio 2017, alcuni dei contratti “evidenziavano profili speculativi che li rendevano inidonei alla finalità di ristrutturazione del debito pubblico – l’unica consentita dalla normativa per operazioni in derivati – non essendo ammissibile per lo Stato, investitore pubblico, assumersi rischi rilevantissimi”.

Contestata la giurisdizione della Corte. La difesa: “Contratti aleatori? Allora sono tutti nulli” – Il giudice relatore Marco Fratini ha fatto sapere che Morgan Stanley e gli altri imputati hanno eccepito il difetto di giurisdizione del giudice contabile. “Morgan Stanley lo ha sollevato sotto un duplice profilo: per mancanza di un rapporto di servizio con lo Stato italiano e per insindacabilità delle scelte di merito”. Antonio Catricalà, difensore di Morgan Stanley, ha sostenuto che “i derivati sono uno strumento ordinario di gestione del debito” e la swaption, l’opzione per la protezione dagli sbalzi sui tassi prevista nel contratto tra il Tesoro e Morgan Stanley, “è stata inserita da Mario Draghi e ha tutte le caratteristiche di legittimità. Si tratta di uno strumento indispensabile per la gestione del rischio” e “l’utilizzo nella gestione del debito di simili strumenti rientra nell’esercizio pieno dell’autonomia dello Stato”. “Morgan Stanley”, ha aggiunto, “non è stato mai un consulente del Tesoro ma una controparte contrattuale”. Quanto al fatto che i contratti derivati sia nulli perché aleatori, “allora deve essere nullo anche il Superenalotto. È evidente che se venissero ritenuti nulli perché illegittimi tutti i contratti derivati, Morgan Stanley e le altre banche dovrebbero fare causa allo Stato italiano”.

I procedimenti già chiusi – Il gip di Roma, nell’autunno del 2015, ha archiviato la posizione della Cannata che era stata indagata anche per manipolazione del mercato, truffa aggravata e abuso d’ufficio. Il tribunale dei ministri che il 22 gennaio 2016 ha poi stabilito che l’allora presidente del Consiglio Mario Monti e l’attuale ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non commisero alcun reato.

Dai derivati impatto negativo di 24 miliardi in tre anni – Tra 2013 e 2016, ricorda Reuters, i derivati hanno avuto un impatto negativo sul bilancio pubblico di 24 miliardi: 13,7 sono esborsi netti mentre 10,3 sono riclassificazioni statistiche. Lo scorso anno i derivati hanno avuto sul bilancio pubblico italiano un impatto negativo di oltre 8 miliardi, secondo le statistiche di Eurostat. Gli esborsi ammontano a 4,25 miliardi ma, considerando anche gli aggiustamenti contabili che incidono sul debito pubblico, il totale sale a 8,324 miliardi. Dal Rapporto sul debito pubblico pubblicato sul sito del ministero dell’Economia emerge che al 31 dicembre 2016 il valore di mercato di tutti gli strumenti derivati sul debito era negativo per 37,9 miliardi, a fronte di un valore nozionale di 143,5 miliardi.