di DANIELE BERTOLINI (*)
Come mai proprio in questa fase di acuta e clamorosa crisi politica, economica e finanziaria, a fronte del riproporsi di vecchie e inadeguate adunate consociative, i Radicali stentano a innervare una lotta politica ispirata ad una reale alterità di concezione, di metodi e di contenuti? Penso che le ragioni siano in gran parte da ricercare all'interno della vicenda radicale, in una soggettiva inadeguatezza del movimento, delle sue forme, del suo funzionamento.
La crisi finanziaria che si abbatte sul nostro Paese, come punto acuto della crisi di debito sovrano dell'Eurozona, impone oggi alla classe politica lo sforzo di elaborare risposte al fine di arginare la crisi e guadagnare lo spazio necessario ad un vasto programma di riforme economiche e sociali. Il riflesso automatico del regime dei partiti è quello di riproporre vecchi schemi consociativi che da sempre sono la via maestra adottata dal sistema dei partiti per scongiurare la approvazione di quelle riforme capacidi produrre importanti, diffusi e duraturi effetti benefici sull'economia italiana.
I Radicali, al contrario, sono da sempre portatori di una visione liberale del "conflitto",quale fermento sano della politica, attivatore di progetti politici alternativi e, sopratutto, come necessario antidoto alle tradizionali prassi trasformistiche che svuotano di contentuto riformatore le politiche economiche e sociali. Oggi, come ieri, di fronte alla radicalità oggettiva delle sfide che il sistema dei partiti e, diremmo,la democrazia si trova a dover governare, la risposta su cui pare convergere la politica italiana è quella della "solidarieta' nazionale", del "compromesso storico" delle formule del tipo "centro-sinistra".
Diversamente, nell'Italia della c.d. Prima Repubblica i radicali - da sempre storici avversari della tendenza politica verso un modello di società organicisitico - hanno saputo realizzare, tramite nuovi metodi di lotta politica e sulla base di una forte cultura maggioritaria, momenti alti di politica alternativa attraverso la pratica del conflitto nonviolento, referendario e su precise proposte di riforma legislativa.
A partire dagli anni ottanta la situazione italiana è caratterizzata dal peculiare connubio diuna profonda crisi dei canali di mediazione politica (e conseguente paralisi decisionale del sistema politico) e di un basso tasso di effettiva applicazione delle regole del diritto. In questo contesto, l'acellerarsi del declino economico è originato e alimentato da tre fattori dinamici: inefficienza della spesa pubblica, scarsa concorrenza nel settore dei servizi, insostenibilità dell'abnormestockdi debito pubblico.
Può sembrare una affermazione ardita, ma lo spazio politico dei radicali in questa situazione è oggettivamente assai ampio. Spesso è stato giocato con spregiudicata tenacia e inventiva capace di rompere regolarmente la chiusura oligarchica del regime di informazione. Su molti terreni siamo stati e continuiamo a essere di fatto i monopolisti dell'inizitiva politica liberale. Oggi di fronte ad una situazione per certi versi simile a quella vissuta nel 1992 i radicali possono e debbono interpretare un ruolo importate.
Dalla nostra parte milita la tradizione politica e di pensiero vincente, quella ernestorossiana, spinelliana, einaudiana e, ancor prima, della scuola pre-giolittiana di scienza delle finanze, che il regime dei partiti hamesso sistematicamente in minoranza negli assetti decisionali, di informazione e di potere, ma a cui la storia ha dato ragione a fronte delmanifesto collassopolitico ed economico dell'Italia post-partitocratica. Debito pubblico, Stati Uniti d'Europa, lotta ai monopoli e alle corporazioni sono iscritti con urgenza nell'agenda politica del Paese non più rinviabile.
Eppure il movimento pare non sempre capace di proporre al Paese una idendita' politica detonatrice di quell'alternativa liberale sul terreno economico e sociale che sola pare in grado di salvare il Paese dal baratro. Penso che la ragione vada ricercata in alcuni tratti salienti dei più recenti profili di iniziativa politiva. Penso che per dare continuità a quel filone politico riformatore, innervando puntuali e rigorose battaglie di diritto e libertà,occorre essere disponibili a considerare alcuni passaggi fondamentali.
È necessario passare da una concezione troppo spesso "statica" della legalita', appuntata sul riscontro e la denuncia delle infinite e gravi ipotesi di violazioni di legge ad opera dei pubblici poteri, ad una concezione "dinamica" della legalita', quale leva strategica per la riscossa politica ed economica della societa' italiana. In un contesto di concorrenza tra ordinamenti giuridici è vitale che la politica imprima un superamentodel divorzio tra le ragioni del diritto e quelle dell'economiaa livello legislativo, giurisprudenziale e costituzionale.
È infatti noto come i margini di operatività a livello nazionale di molti strumenti tradizionali di politica economica (cambio, spesa pubblica, tassi di interesse, moneta) si sono fortemente ristretti. In questo contesto la cornice normativa diviene sempre più uno strumento di politica economica. La concorrenza opera non piu' solo a livello di mercato dei fattori e dei prodotti, ma anche e in modo sempre più decisivo sul terreno delle regole che disciplinano l'interazione tra i soggetti ecconomici. Regole efficienti determinano vantaggi in termini di minori costi di transazione e di massima valorizzazione delle ragioni dello scambio.
I radicali ad oggi rappresentano l'unico soggetto capace di essere interprete e stimolatore politicodi questa nuova concezione del diritto. Sia chiaro rimane intatto e piu' che mai essenziale il ruolo del diritto quale strumento di garanzia delle libertà individuali, della vita delle persone e delle istituzioni,ma ad esso si affianca oggi una nuova dimensione, quella della regola quale fattore propulsivo di crescita economica.
La battaglia su carceri e amnistia condotta oggi da Marco Pannella insiemi a molti dirigenti radicali e' la solida rappresentazione di quanto la negazione del diritto non è mai mera violazione formale, ma e' destinata a incidere sulla carne viva delle vite individuali. Tuttavia, questo schema di nobile lotta politica rimane confinato nell'ambito della promozione di riforme prive di quella radicalità di cui il nostro sitema giudiziario ha necessita' per svegliarsi dal coma permanenente in cui versa.
L'amnistia è una soluzione emergenziale, di quelle con le quali non puo' risolversi ne' il problema carcere, ne' il problema giustizia. Del tutto fuori raggio rimane uno dei principali ostacoli alla internazionalizzaione della nostra economia: lo sfascio della giusitzia civile. È infine legittimo dubitare che l'amnistia costitutisca nei fatti il detonatore o la precondizione politica di una riforma strutturale della giusitiza penale e del sistema di esecuzione penale. Tendo a vedere l'opposto: prima le riforme poi l'amnistia e l'indulto come necessario disboscamento al fine di consentire l'avvio della applicazione di nuove regole.
Mentre il Paese sprofonda nel vortice di una pressione speculativa internazionale e di una crisi impressionante di produttività dei fattori e di competivita' delle imprese, il linguaggio degli economisti si arrichisce del concetto di "vulnerabilita" economica, inteso come la probabilita' di sperimentare episodi di poverta'. Secondo recenti proiezioni economiche, il 60% dei non-poveri del nostro paese, ha elevate probabilita' di sperimentare periodi piu' o meno prolungati di attraversamento della "zona" della povertà.
In questo contesto è compito dei radicali quello di imprimere un nuovo passo alle battaglia di libertà concentrandosi sull'unico obiettivo adeguato alla drammaticità della congiuntura storica: abolire la miseria, riformare radicalmente le strutture del capitalismo italiano. Su questo la voce e la forza politica dei radicali ernestorossiani è una risorsa di cui il Paese non può fare a meno, in questi giorni, in queste ore.
Il secondo passaggio di cui vedo l'urgenza, strettamente collegato a quanto precede, e' quello del superamento della retorica della "rivolta" che trova complemento necessario nella oramai assorbente pratica della "denuncia". La funzione storica dei radicali non è mai stata quella di agitare focolai di "rivolta, che finiscono per collocarci e confinarcisul trespolo dei "denunciatori" delle innumerevoli ipotesi di violazioni di legalità, come nobili e instancabili cercatori "a valle" dei detriti di un regime in via di sgretolamento.
Il carattere alternativo della politica radicale risiede nell'articolazione di un progetto di riforma che affronti i punti di massima crisi del problema istituzionale del nostro paese indicando come via di uscita un percorso riformatore nuovo e radicalmente alternativo rispetto alla sostanza oligarchica che avvelena la vita economica e civile italiana.
Il mutamento del quadro istituzionale è la premessa e lo strumento per il superamento dell'assetto oligarchico del sistema economico e si coniuga con una forte consapevolezza che ogni intervento di spesa approvato dal parlamento può, se non adeguatamente monitorato dalle istituzioni rappresentative, generare le premesse per la creazione di quell'area grigia tra politica ed economia che oggi garantisce inefficienti monopoli e privilegi che ostacolano la crescita economica delle nostre imprese.
Il nesso economia-istituzioni e' da sempre la cifra della proposta politica radicale. Già i radicali-liberisti di fine ottocento individuavano come condizione essenziale per il risanamento della vita pubblica una radicale riforma degli ordinamenti istituzionali.De Viti de Marco immaginava una riforma che cambiasse radicalmente la natura e ledinamiche del rapporto tra governo e governati, attraverso una trasformazione profonda del sistema di finanza pubblica e dei principi ispiratori del bilancio dello stato.
Maffeo Pantaleoni affermava che ogni intervento di spesapubblica, lasciando immutata la quantita'complessiva di mezzi disponibili, pone il problema di valutare non solo l'utilità intrinseca di quella spesa, ma la sua utilità comparata alla utilità' di altre egualmente possibili. In altre parole, il fine dell'intervento pubblico non è quello di avvantaggiare alcuni particolari gruppi sociali, ma di realizzare il ben del "maggior numero".
Il concetto benthamita di di maggior numero appare oggi ingenuo ma spiega la forte tensione morale che animava la tensione liberista contro il trasformismo politico della sinistra storica allora al governo. L'idea costitutiva del programma politco della scuola libersita di fine ottocento non era dunque un atteggiamento aprioristicamennte contrario all'intervento pubblico in economia.
Al contrario, il criterio politico di riferimento era quello della lotta contro il privilegio e della corretta definzione dellabase stessa di ogni politica di intervento pubblico. Ripristinare il funzionamento delle istituzioni rappresentative era la premessa perilsuperamento di una politica fiscale che opprimeva le classi piu' povere. In particolare, al centro delle polemiche radicali v'era un sitema di prelievo fiscale incentrato sull'imposizione indiretta che gravava per lo piu' sui consumi popolari e una ptotezionismo economico che imponeva l'odioso dazio sul grano.
Il terzo passaggio non più rinviabile riguarda la formazione della classe dirigente. Come regola generale, penso che i partiti dovrebbero far di tutto per potenziare la competizioneal loro interno. La concorrenza interna ai partiti è il presupposto su cui fondare l'apertura dei soggetti politici e, soprattutto, l'efficacia degli attori nel formulare un'offerta politica adeguata ad intercettare le numerose e continuamente mutevoli domande di governo delle nuove complessità.
È quindi illusorio pensare che soggetti politici che funzionano al loro interno secondo modelli di tipo oligarchico, o che adottano schemi di selezione e legittimazione della classe dirigente modellati sul tipo della cooptazione, possano contribuire a porre le basi di una società libera, aperta, competitiva e democratica. In breve: solo la concorrenza neipartiti può generare un'effettiva concorrenza tra i partiti, favorendo così lo sviluppo di consistenti quote di libertà, ricchezza e benessere meglio distribuite nella società.
Il movimento radicale è oggi organizzato su uno schema che solo le comprensibili esigenze della comunicazione politica legittimano a connotare come "galassia". Non v'e' un "centro di attrazione", ne' luoghi praticabili di dialettica politica, di concezione e confronto di progetti politici alternativi. Paradossamnete, quanto più le sfide oggettive che la globalizzazione ci impone sono "radicali", quanto piu' la dirigenza si trova nella impossibilita' di trovare un punto di sintesi su cui mobilitare il movimento, su cui praticare un linguaggio che aspiri a divenire linguaggio della militanza sul territorio e nelle istituzioni.
Questo è l'effetto involontario e assai dannoso di una condizione oramai strutturale di balcanizzazione del movimento e delle sue strutture, che produce frammentazione dell'offerta politica e confusione delle sue premesse analitiche e ideali. Il punto di massima crisi dell'iniziativa politica cade sul fronte che oggi e' al centro delle urgenze oggettive del Paese: l'economia. Il Paese ha bisogno urgente di riforme radicali istituzionali ed economiche, ma i radicali non riescono piu' a dire chiari si e chiari no su questo terreno.
Molti lavori di pregio sono stati compiuti su questo fronte: welfare to work, pensioni, debito pubblico, relazioni sindacali, universita' e scuola, capitalismo italiano, banche e signoraggio, etc. Ma nessuno di questi temi è divenuto tema centrale e condiviso di iniziativa politica. Occorre ridefinire i modi e le forme dello stare insieme e delineare un percorso di confronto e dibattito reale sui grandi temi che oggi sembriamo incapaci di affrontare e declinare in modo politcamente credibile.
(* membro della Direzione Nazionale Radicali Italiani)