Lo strumento principe del movimento è rappresentato da tutti quegli organismi che fanno
Fronte Comune: tra pensiero e azione… una risposta
di: Umberto Bianchi, Rinascita, 13 Settembre 2011
Ho letto con interesse l’analisi di Alberto Figliuzzi pubblicata qualche tempo fa su “Rinascita”. Pur trovandola effettuata con nitore di linguaggio e con una elogiabile chiarezza di analisi, oltreché animata da condivisibilissimi intenti, ne ho però rilevato quella che, a mio parere, costituisce una non irrilevante inesattezza.
La pecca insita a tutti i tentativi di macro aggregazione sin qui svolti dai vari gruppi o gruppetti di matrice “antagonista” o eterodossa che dir si voglia, per addivenire ad una unità operativa, sono sinora non andati in porto non per la mancanza di proposte concrete in sé, bensì per la precisa volontà da parte di qualcuno di non farle uscire allo scoperto tramite una concreta azione propositiva. Mi spiego meglio. Nel mio ultimo documento “Fronte comune” (pubblicato su “Rinascita”, ma anche su altri organi d’informazione on line, sic!) ho specificato presupposti e direttrici concrete in grado di offrire un concreto spunto all’avvio di un’incisiva azione politica. In breve. Partendo dall’irrinunciabile presupposto che vede nella Globalizzazione ed in tutte le sue ricadute ideologiche, politiche, economiche, un fenomeno da rifiutare in blocco “senza se e senza ma”, si può arrivare benissimo a tracciare alcune concrete linee d’azione.
Cominciamo con l’economia e con una prima proposta-choc: quella di affiancare la lira accanto all’euro, introducendo quella doppia monetazione in grado di dare una spinta ad un’economia in fase di recessione quale quella italiana. Nazionalizzare Bankitalia accanto ad una proposta per la totale revisione degli accordi Gatt stipulati negli anni ’90, potrebbero costituire gli ulteriori step da cui partire, per iniziare la graduale destrutturazione dell’attuale sistema economico e finanziario, sino ad arrivare a mettere mano sul meccanismo del signoraggio bancario. Arrivare ad una consistente riduzione della spesa pubblica attraverso l’eliminazione di tutte le missioni militari all’estero ed un consistente taglio alle spese per gli armamenti. Iniziare un processo di revisione degli accordi che legano l’Italia e l’Europa alla Nato, che andrebbe invece abolita e sostituita da nuove forme di aggregazione inter-europee, euro-mediterranee ed euro-asiatiche, esenti dalla presenza Usa. Porre fine al fenomeno migratorio, senza se e senza ma, partendo anche da semplici provvedimenti di ordine amministrativo quali una consistente tassazione sulle imprese che assumono immigrati, affiancata da una tassa di soggiorno da applicare su tutti gli immigrati di qualunque sesso, età o condizione economica che dir si voglia. Mettere mano ai provvedimenti della casta attraverso il taglio delle spese e dei privilegi di cui certa gente tuttora fruisce. Una seria riforma costituzionale in grado di rafforzare l’esecutivo controbilanciata da una maggior partecipazione popolare alle decisioni politiche (democrazia diretta).
Potrei andare avanti all’infinito ma, come si vede, qui le proposte concrete non difettano, anzi. Il problema è un altro, a mio avviso. Edotto da quanto in passato accaduto al centro sinistra con i vari Bertinotti, Rossi e Turigliatto, etc., l’attuale Polo berlusconista vede con terrore la formazione di realtà antagoniste che, pescando nel proprio bacino elettorale ne potrebbero definitivamente inficiare l’azione politica. L’uso di personaggi e sigle create ad arte per frenare, contenere ed annullare l’azione politica, creando dissensi, discettando su tutto, è cosa oramai nota e stranota da troppo tempo. L’ambiente neofascista poi, per propria personalissima storia e vocazione si è ahimè sempre prestato ad infiltrazioni d’ogni genere e tipo, finendo col divenire addirittura succube delle logiche di potere berlusconiane. Operare un chiaro e netto distinguo riguardo a certe questioni assume quindi la valenza di un passaggio senza il quale non si può addivenire a quello successivo, rappresentato da un’incisiva azione politica. L’errore cardine è questo rimanere legato con chi, a parole si professa antagonista, ma poi, nei fatti, opera scelte di campo di tutt’altro tipo. Bene ha fatto Rinascita nel qualificarsi di “sinistra”, in modo da non lasciare ambiguità o dubbi su determinate scelte di campo, iniziando a creare in tal modo una netta cesura con certi storici malintesi, ma ahimè, questo non basta.
Riprendendo la vecchia e ben collaudata metodica stalinista, sarebbe il caso di sputtanare pubblicamente chi collabora con il sistema e con le sue appendici, istituendo veri e propri processi mediatici tramite la pubblicazioni di dossier, articoli o quant’altro possa servire a rendere l’aria irrespirabile attorno a chi, nel nome di presunti sentimenti di appartenenza comunitaria e malintesi cameratismi, mesta per soffocare sul nascere qualsiasi azione politica non conforme.
L’azione politica non può per ora avere per oggetto la riunificazione di un’inesistente “area”, quanto la penetrazione nel tessuto della società attraverso l’appropriazione del sentimento di profondo malessere che oggidì ne attraversa tutti gli strati. Lo strumento principe di tale azione è rappresentato da tutti quei movimenti che si richiamano al trasversalismo e fanno della lotta ai privilegi della casta un obiettivo primario, generalmente rappresentati dalla variegata realtà delle liste civiche, dei movimenti ecologisti e di quelli dei consumatori. Realtà che oggi puntano alla realizzazione di una democrazia diretta, più concretamente di tanti altri soggetti, rimasti isolati nei ghetti senza uscita della nostalgia e della conservazione più retrivi.
mercoledì 14 settembre 2011
In disparte dalla bolgia
Andrea Faedda, poeta cagliaritano che tifa Hellas
http://www.corriereinformazione.it
All'interno del suo nuovo libro "In disparte dalla bolgia" (edito da La Riflessione), presentato a Cagliari sabato 10 settembre 2011, lo scrittore sardo dedica alla squadra di calcio gialloblù dell'Hellas Verona due poesie intitolate Pomeriggio di Maggioe Lasciare Verona.
"In disparte dalla bolgia" è il secondo lavoro diAndrea Faedda, 34 anni, poeta cagliaritano (vincitore del Concorso Letterario Europeo "Premio Wilde" 2010) dopo quello pubblicato nel Febbraio 2010, intitolato "Le prime luci dell'alba".
La raccolta (30 poesie), provocatoria e anticonformista manifesta il suo totale disagio nei confronti di un mondo sempre più soffocato da materialismo, egoismo, apparenza e corruzione; generi che vanno a scontrarsi inequivocabilmente con quei principi che invece l'opera tende a valorizzare: l'onestà, il romanticismo, la spiritualità, il rispetto verso il prossimo e verso la natura.
Son trattati argomenti che oggigiorno vengono definiti scomodi da trattare o addirittura sono tabù come la massoneria internazionale, il signoraggio bancario, il nuovo ordine mondiale, le scie chimiche, la gran parte del mass-media asserviti al sistema, le presunte missioni militari di pace, ecc ...
Oltre a questi spunti critici, non mancano di certo le poesie d'amore (su tutte "Sarai amata!" vincitrice del "Premio Wilde" 2010), di affetto (verso gli amici, i parenti e la sua bella terra sarda) e di passioni come quello già citato per la sua squadra del cuore: l'Hellas Verona.
"In disparte dalla bolgia" (128 pagine) ha al suo interno 30 poesie corredate da 30 foto ed è disponibile in tutte le librerie e su internet a partire da sabato 10 settembre 2011 al prezzo di 12 euro.
Unica via d'uscita: bancarotta controllata e addio Euro
Fonte: http://www.libreidee.org/2011/09/unica-via-duscita-bancarotta-controllata-e-addio-euro/
Pagheremo perché dobbiamo pagare, però che questo pagamento non sia un pagamento che finisce nel tasche delle banche internazionali: che sia invece un pagamento che finisce nelle tasche degli italiani, che dà la possibilità all’economia italiana di riprendersi. Perché così, altrimenti, noi nel giro di 6 mesi, 9 mesi, un anno, sicuramente andremo in bancarotta. E da allora sarà ancora più difficile riprenderci. La manovra di Tremonti in realtà serve a ben poco. Prima di tutto perché è troppo piccola, 45 miliardi di euro non bastano sicuramente a rassicurare i mercati nei confronti di un debito complessivo italiano di 1.800 miliardi di euro. Il che vuole dire che il debito pubblico dell’Italia è maggiore della somma del debito di tutti gli altri paesi Pigs, quindi parliamo del Portogallo, Grecia, Irlanda e Spagna.
In più questa è una manovra che avrà un impatto reale, quindi dal punto di vista proprio delle entrate dello Stato, nel 2013 e nel 2014. Sicuramente troppo lontano. Ricordiamoci che l’anno prossimo l’Italia si deve novamente presentare sul mercato dei capitali e deve contrarre una serie di contratti, quindi deve vendere una serie di Bot a un mercato che questa settimana le ha quasi voltato le spalle. E in più, da luglio fino alla fine dell’anno, abbiamo altri 80 miliardi di euro che dobbiamo racimolare su questo stesso mercato. Questa è una manovra che in un certo senso è stata osannata, proprio perché siamo un po’ alla fine della situazione. Penso che noi dobbiamo prenderci le responsabilità di 50 anni, perché qui non si tratta di 10 anni; qui si tratta di 50 anni di politiche sbagliate ed è giunto il momento di prendersi queste responsabilità.
Qui ci vuole una nuova politica. E quale può essere questa politica? Sicuramente non quella che sta seguendo il governo. Capisco che molti italiani sono preoccupatissimi all’idea di un default, però in realtà questa potrebbe essere la soluzione migliore. Se noi avessimo una classe politica di persone veramente esperte di queste cose, quindi di professionisti, ci avrebbe già pensato e vi spiego perché. L’Italia è molto diversa dalla Grecia. La Grecia prende soldi in prestito per poter sostenere la propria economia, noi invece prendiamo soldi in prestito regolarmente e semplicemente per pagare gli interessi sul debito. Il che vuole dire che un default non avrebbe un impatto sulla crescita economica del paese: noi non dipendiamo dai mercati dei capitali per crescere, noi dipendiamo dai mercati dei capitali per pagare gli interessi.
Un default ordinato, ragionato com’è stato fatto per esempio in Islanda, potrebbe garantire tutti quanti i Bot acquistati dagli italiani. Quindi dividiamo il debito in due parti, che è esattamente quello che hanno fatto gli islandesi: la parte internazionale, sottoscritta dalle banche internazionali, viene messa da parte e viene organizzato per questo un pagamento posticipato che può essere una ristrutturazione del debito. Per quanto riguarda invece la parte detenuta dai risparmiatori italiani, proprio per non penalizzare gli italiani che hanno sostenuto lo Stato in tutti questi anni, rimane costante, quindi il governo si impegna a onorare quella parte di debito. Dopodiché si torna alla lira o a qualsiasi moneta vogliamo adottare e si produce una svalutazione della moneta; chiaramente sarà una svalutazione molto, molto grande e questo ridarà automaticamente competitività alla nostra economia.
Dal punto di vista del commercio internazionale non cambierà nulla; anzi, molto probabilmente i nostri importatori, chi importa dall’Italia, sarà ben contento di pagare meno di quanto paga adesso, quindi le esportazioni italiane avranno sicuramente un effetto benefico. Diversa sarà la situazione delle importazioni. Dobbiamo essere disposti a fare dei sacrifici, ma tanto in ogni caso questi sacrifici li dovremo fare lo stesso. L’obiettivo però è fare dei sacrifici per poter riuscire a uscire da questa situazione, non per poter affondare ulteriormente nella situazione debitoria.
Le critiche a questo tipo di politica drastica sono tutte relazionate a un modo di far politica che è ancora tipico dell’Italia: svalutazione selvaggia, attitudini nei confronti dei mercati internazionali anche queste selvagge, etc. Una decisione di questo tipo, quindi un default ragionato, un default preparato, sicuramente porterebbe a un cambiamento della classe politica, perché questa classe politica una politica di questo tipo non la fa. In Islanda è successo esattamente questo: il governo è stato fatto fuori completamente dalla popolazione e una nuova classe politica, gente che non aveva mai fatto politica fino ad allora, è salita al potere e ha organizzato questo tipo di default.
I sacrifici: sicuramente, le conseguenze di brevissimo periodo di una politica di questo tipo saranno tremende. Noi avremo una contrazione del Pil, ci sarà un aumento della povertà, sarà sempre più difficile riuscire ad arrivare una fine del mese. Però questo sarà un periodo limitato, come abbiamo visto addirittura in Argentina dove non c’è stato un default ragionato ma un default improvviso. Nel caso dell’Argentina c’è stata una contrazione del Pil del 20% nel 2002, quindi l’anno dopo del default; dal 2003 in poi l’economia ha ripreso a crescere dal 7,5% e continua a crescere al 7,5%.
(Loretta Napoleoni, “Per un default programmato e l’uscita dall’Euro”, intervento apparso sul blog “Cado in piedi”, ripreso da “Viva Mafarka” e ribadito da “L’Unità” il 12 settembre 2011. Loretta Napoleoni vive a Londra da molti anni, è tra i massimi esperti di economia internazionale e collabora con Cnn, Bbc, Le Monde, El País, The Guardian, Internazionale e L’Unità).
Pagheremo perché dobbiamo pagare, però che questo pagamento non sia un pagamento che finisce nel tasche delle banche internazionali: che sia invece un pagamento che finisce nelle tasche degli italiani, che dà la possibilità all’economia italiana di riprendersi. Perché così, altrimenti, noi nel giro di 6 mesi, 9 mesi, un anno, sicuramente andremo in bancarotta. E da allora sarà ancora più difficile riprenderci. La manovra di Tremonti in realtà serve a ben poco. Prima di tutto perché è troppo piccola, 45 miliardi di euro non bastano sicuramente a rassicurare i mercati nei confronti di un debito complessivo italiano di 1.800 miliardi di euro. Il che vuole dire che il debito pubblico dell’Italia è maggiore della somma del debito di tutti gli altri paesi Pigs, quindi parliamo del Portogallo, Grecia, Irlanda e Spagna.
In più questa è una manovra che avrà un impatto reale, quindi dal punto di vista proprio delle entrate dello Stato, nel 2013 e nel 2014. Sicuramente troppo lontano. Ricordiamoci che l’anno prossimo l’Italia si deve novamente presentare sul mercato dei capitali e deve contrarre una serie di contratti, quindi deve vendere una serie di Bot a un mercato che questa settimana le ha quasi voltato le spalle. E in più, da luglio fino alla fine dell’anno, abbiamo altri 80 miliardi di euro che dobbiamo racimolare su questo stesso mercato. Questa è una manovra che in un certo senso è stata osannata, proprio perché siamo un po’ alla fine della situazione. Penso che noi dobbiamo prenderci le responsabilità di 50 anni, perché qui non si tratta di 10 anni; qui si tratta di 50 anni di politiche sbagliate ed è giunto il momento di prendersi queste responsabilità.
Qui ci vuole una nuova politica. E quale può essere questa politica? Sicuramente non quella che sta seguendo il governo. Capisco che molti italiani sono preoccupatissimi all’idea di un default, però in realtà questa potrebbe essere la soluzione migliore. Se noi avessimo una classe politica di persone veramente esperte di queste cose, quindi di professionisti, ci avrebbe già pensato e vi spiego perché. L’Italia è molto diversa dalla Grecia. La Grecia prende soldi in prestito per poter sostenere la propria economia, noi invece prendiamo soldi in prestito regolarmente e semplicemente per pagare gli interessi sul debito. Il che vuole dire che un default non avrebbe un impatto sulla crescita economica del paese: noi non dipendiamo dai mercati dei capitali per crescere, noi dipendiamo dai mercati dei capitali per pagare gli interessi.
Un default ordinato, ragionato com’è stato fatto per esempio in Islanda, potrebbe garantire tutti quanti i Bot acquistati dagli italiani. Quindi dividiamo il debito in due parti, che è esattamente quello che hanno fatto gli islandesi: la parte internazionale, sottoscritta dalle banche internazionali, viene messa da parte e viene organizzato per questo un pagamento posticipato che può essere una ristrutturazione del debito. Per quanto riguarda invece la parte detenuta dai risparmiatori italiani, proprio per non penalizzare gli italiani che hanno sostenuto lo Stato in tutti questi anni, rimane costante, quindi il governo si impegna a onorare quella parte di debito. Dopodiché si torna alla lira o a qualsiasi moneta vogliamo adottare e si produce una svalutazione della moneta; chiaramente sarà una svalutazione molto, molto grande e questo ridarà automaticamente competitività alla nostra economia.
Dal punto di vista del commercio internazionale non cambierà nulla; anzi, molto probabilmente i nostri importatori, chi importa dall’Italia, sarà ben contento di pagare meno di quanto paga adesso, quindi le esportazioni italiane avranno sicuramente un effetto benefico. Diversa sarà la situazione delle importazioni. Dobbiamo essere disposti a fare dei sacrifici, ma tanto in ogni caso questi sacrifici li dovremo fare lo stesso. L’obiettivo però è fare dei sacrifici per poter riuscire a uscire da questa situazione, non per poter affondare ulteriormente nella situazione debitoria.
Le critiche a questo tipo di politica drastica sono tutte relazionate a un modo di far politica che è ancora tipico dell’Italia: svalutazione selvaggia, attitudini nei confronti dei mercati internazionali anche queste selvagge, etc. Una decisione di questo tipo, quindi un default ragionato, un default preparato, sicuramente porterebbe a un cambiamento della classe politica, perché questa classe politica una politica di questo tipo non la fa. In Islanda è successo esattamente questo: il governo è stato fatto fuori completamente dalla popolazione e una nuova classe politica, gente che non aveva mai fatto politica fino ad allora, è salita al potere e ha organizzato questo tipo di default.
I sacrifici: sicuramente, le conseguenze di brevissimo periodo di una politica di questo tipo saranno tremende. Noi avremo una contrazione del Pil, ci sarà un aumento della povertà, sarà sempre più difficile riuscire ad arrivare una fine del mese. Però questo sarà un periodo limitato, come abbiamo visto addirittura in Argentina dove non c’è stato un default ragionato ma un default improvviso. Nel caso dell’Argentina c’è stata una contrazione del Pil del 20% nel 2002, quindi l’anno dopo del default; dal 2003 in poi l’economia ha ripreso a crescere dal 7,5% e continua a crescere al 7,5%.
(Loretta Napoleoni, “Per un default programmato e l’uscita dall’Euro”, intervento apparso sul blog “Cado in piedi”, ripreso da “Viva Mafarka” e ribadito da “L’Unità” il 12 settembre 2011. Loretta Napoleoni vive a Londra da molti anni, è tra i massimi esperti di economia internazionale e collabora con Cnn, Bbc, Le Monde, El País, The Guardian, Internazionale e L’Unità).
Salvare l'economia globalista da Gheddafi
Fonte: http://rt.com/news/economy-oil-gold-libya/ - Autore: Global Research
5 maggio 2011 - Traduzione N. Forcheri
C’è chi crede che sia per tutelare i civili, chi per il petrolio, ma c’è chi è anche convinto che l’intervento in Libia abbia a che vedere con il progetto di Gheddafi d’introdurre il dinaro d’oro, una moneta unica Africana aurea, un vero strumento di distribuzione della ricchezza.
¬“E’ una di quelle cose che bisogna pianificare segretamente perché appena dici che vuoi sostituire il petrodollaro con qualcos’altro, diventi automaticamente un bersaglio” afferma il fondatore del Ministero della Pace James Thring. “Ci sono state due conferenze al riguardo, nel 1986 e nel 2000, organizzate da Gheddafi. Tutti erano interessati, la maggior parte dei paesi africani erano entusiasti.”
Gheddafi non si è arreso. Nei mesi che hanno portato all’intervento militare, ha esortato le nazioni africane e musulmane a unirsi per creare la nuova moneta che avrebbe rivaleggiato con il dollaro e l’euro. Avrebbero venduto il petrolio e le altre risorse al mondo solo in dinari d’oro.
Un’idea che avrebbe spostato l’ago della bilancia economica del mondo.
La ricchezza di un paese sarebbe dipesa sulle sue riserve auree e non sulle quantità di dollari scambiati. E la Libia possiede 144 tonnellate d’oro. La Gran Bretagna, ad esempio, ne ha due volte tanto ma un numero di abitanti di dieci volte superiore.
“Se Gheddafi avesse l’intenzione di tentare di riformulare il prezzo del suo petrolio, o di qualsiasi altra risorsa che il paese vende al mercato globale, accettando un’altra valuta o forse lanciando un dinaro d’oro, ebbene una mossa di questo tipo non sarebbe certamente accettata dall’elite al potere oggigiorno, coloro che sono responsabili del controllo delle banche centrali del mondo” dice Anthony Wile, fondatore e redattore in capo del Daily Bell.
“Quindi certamente provocherebbe le sue dimissioni immediate e la necessità di andare a pescare altri pretesti da avanzare per rimuoverlo dal potere.”
Come successo precedentemente.
Nel 2000, Saddam Hussein ha annunciate che il petrolio iracheno sarebbe stato venduto in euro e non più in dollari. Alcuni dicono che le sanzioni e l’invasione che ne è seguita furono causate dalla disperazione degli americani di impedire che l’OPEC trascrivesse le operazioni commerciali del petrolio di tutti i suoi stati membri in euro.
Un dinaro d’oro avrebbe avuto gravi conseguenze sul sistema finanziario mondiale ma avrebbe anche dato il potere ai popoli d’Africa, cosa che alcuni militanti neri dicono che gli Stati Uniti vogliono evitare a tutti i costi.
“Gli Stati Uniti hanno rinnegato l’autodeterminazione agli africani negli USA, non siamo perciò affatto sorpresi da qualsiasi cosa che gli USA possano fare per ostacolare l’autodeterminazione degli africani nel loro continente” afferma Cynthia Ann McKinney, ex deputata al Congresso americano.
L’oro del Regno Unito è custodito in un qualche caveaux sicuro in qualche meandro della Bank of England. Come nella maggior parte dei paesi sviluppati, non ce n’è abbastanza per andare avanti.
Ma non è il caso di paesi come la Libia e molti dei paesi del Golfo.
Un dinaro d’oro avrebbe offerto ai paesi africani e mediorientali ricchi in petrolio la possibilità di rivolgersi ai loro clienti affamati d’energia dicendo: “Spiacenti il prezzo è salito e vogliamo oro.”
Alcuni dicono che gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO non avrebbero assolutamente potuto permetterselo.
5 maggio 2011 - Traduzione N. Forcheri
C’è chi crede che sia per tutelare i civili, chi per il petrolio, ma c’è chi è anche convinto che l’intervento in Libia abbia a che vedere con il progetto di Gheddafi d’introdurre il dinaro d’oro, una moneta unica Africana aurea, un vero strumento di distribuzione della ricchezza.
¬“E’ una di quelle cose che bisogna pianificare segretamente perché appena dici che vuoi sostituire il petrodollaro con qualcos’altro, diventi automaticamente un bersaglio” afferma il fondatore del Ministero della Pace James Thring. “Ci sono state due conferenze al riguardo, nel 1986 e nel 2000, organizzate da Gheddafi. Tutti erano interessati, la maggior parte dei paesi africani erano entusiasti.”
Gheddafi non si è arreso. Nei mesi che hanno portato all’intervento militare, ha esortato le nazioni africane e musulmane a unirsi per creare la nuova moneta che avrebbe rivaleggiato con il dollaro e l’euro. Avrebbero venduto il petrolio e le altre risorse al mondo solo in dinari d’oro.
Un’idea che avrebbe spostato l’ago della bilancia economica del mondo.
La ricchezza di un paese sarebbe dipesa sulle sue riserve auree e non sulle quantità di dollari scambiati. E la Libia possiede 144 tonnellate d’oro. La Gran Bretagna, ad esempio, ne ha due volte tanto ma un numero di abitanti di dieci volte superiore.
“Se Gheddafi avesse l’intenzione di tentare di riformulare il prezzo del suo petrolio, o di qualsiasi altra risorsa che il paese vende al mercato globale, accettando un’altra valuta o forse lanciando un dinaro d’oro, ebbene una mossa di questo tipo non sarebbe certamente accettata dall’elite al potere oggigiorno, coloro che sono responsabili del controllo delle banche centrali del mondo” dice Anthony Wile, fondatore e redattore in capo del Daily Bell.
“Quindi certamente provocherebbe le sue dimissioni immediate e la necessità di andare a pescare altri pretesti da avanzare per rimuoverlo dal potere.”
Come successo precedentemente.
Nel 2000, Saddam Hussein ha annunciate che il petrolio iracheno sarebbe stato venduto in euro e non più in dollari. Alcuni dicono che le sanzioni e l’invasione che ne è seguita furono causate dalla disperazione degli americani di impedire che l’OPEC trascrivesse le operazioni commerciali del petrolio di tutti i suoi stati membri in euro.
Un dinaro d’oro avrebbe avuto gravi conseguenze sul sistema finanziario mondiale ma avrebbe anche dato il potere ai popoli d’Africa, cosa che alcuni militanti neri dicono che gli Stati Uniti vogliono evitare a tutti i costi.
“Gli Stati Uniti hanno rinnegato l’autodeterminazione agli africani negli USA, non siamo perciò affatto sorpresi da qualsiasi cosa che gli USA possano fare per ostacolare l’autodeterminazione degli africani nel loro continente” afferma Cynthia Ann McKinney, ex deputata al Congresso americano.
L’oro del Regno Unito è custodito in un qualche caveaux sicuro in qualche meandro della Bank of England. Come nella maggior parte dei paesi sviluppati, non ce n’è abbastanza per andare avanti.
Ma non è il caso di paesi come la Libia e molti dei paesi del Golfo.
Un dinaro d’oro avrebbe offerto ai paesi africani e mediorientali ricchi in petrolio la possibilità di rivolgersi ai loro clienti affamati d’energia dicendo: “Spiacenti il prezzo è salito e vogliamo oro.”
Alcuni dicono che gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO non avrebbero assolutamente potuto permetterselo.
Uscire dall’euro è sempre più facile
Germania o Grecia, uscire dall’euro è sempre più facile
Fabrizio Goria, L'Inkiesta
Avanza l’ipotesi dell’uscita di uno Stato dalla zona euro. Una ricerca di Ubs evidenzia i costi economici, politici e sociali. Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non lo fa riferendosi solamente alla Grecia, bensì anche alla Germania. Solo che gli analisti della banca svizzera ammoniscono: quasi nessuna unione monetaria si è disgregata «senza una qualche forma di governo autoritario o militare, o di guerra civile». E la Merkel apre: «I cambiamenti nei trattati Ue non dovrebbero essere un tabù». 7 settembre 2011 - 16:15 «L’euro non dovrebbe esistere (almeno in questa forma)». Si aprono le danze sull’uscita dall’eurozona di uno Stato europeo. A lanciare ufficialmente l’allarme è la banca svizzera Ubs. In un report di Paul Donovan, Stephane Deo e Larry Hatheway vengono evidenziate tutte le attuali criticità della zona euro, compresi i costi economici della secessione di un Paese membro dall’area della moneta unica. Sebbene Ubs ricordi che «è improbabile» che si arrivi all’Euro break-up, il collasso dell’euro, sono singolari le dichiarazioni di oggi del cancelliere tedesco Angela Merkel. «I cambiamenti nei trattati Ue non dovrebbero essere un tabù», ha detto riferendosi ai problemi dell’Unione monetaria europea. Nel frattempo Deo, capo economista Ue del gruppo bancario svizzero, avverte i mercati finanziari mondiali: «La Grecia è insolvente». E Jean-Claude Juncker, numero uno dell’Eurogruppo, spiega che «la prossima tranche di aiuti ad Atene non è scontata». L’inizio dell’analisi di Ubs non lascia spazio all’ottimismo. «Sotto l’attuale struttura e con i membri attuali, l’euro non funziona. L’attuale struttura dovrà cambiare, o saranno i membri attuali a dover cambiare», scrive la banca elvetica. E lo sottolinea citando una frase del dicembre 2001 di Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea. «Sono sicuro che l’Euro ci obbligherà a organizzare una nuova serie di strumenti di politica economica, anche se è politicamente impossibile proporli adesso. Ma verrà il giorno in cui ci sarà una crisi, e saranno creati nuovi strumenti», diceva l'ex primo ministro italiano alla vigilia dell’introduzione dell’euro. La ricerca di Ubs prende in esame i costi di un’uscita dall’eurozona. Linkiesta già a febbraio aveva parlato di questa possibilità, che ora sta prendendo sempre più piede. Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non lo fa riferendosi solamente alla Grecia, bensì anche alla Germania. Quattro sono i fattori di costo per la secessione, dato che l’espulsione dalla Ue non è attualmente contemplata dai trattati europei: la svalutazione della nuova valuta, il collasso bancario, la depressione del commercio con gli altri Paesi limitrofi e i possibili disordini sociali. A essi si aggiungono i costi politici dovuti all’indebolimento dell’Unione europea, che vedrebbe sgretolarsi il terreno sotto i piedi. La questione è solo una. Nel peggiore scenario possibile, a chi conviene maggiormente lasciare l’eurozona? Nelle sale trading delle banche europee circola voce che sono due le opzioni possibili. O escono i Paesi forti o escono quelli deboli. Nel primo caso sarebbero Germania, Olanda e Finlandia i primi ad avallare la secessione, con cui si costituirebbe quella che Ubs definisce Nnc (new national currency, la nuova valuta nazionale). Una volta uscito, il Paese avrebbe di fronte a sé due vie per la gestione del debito pubblico. Da un lato potrebbe mantenerlo denominato in euro, seppur con un problema di tassazione che porterebbe quel Paese a utilizzare il commercio estero come driver per detenere riserve in euro. Dall’altro lo Stato in uscita potrebbe ridenominare il proprio debito nella nuova valuta, elemento che porterebbe a un deprezzamento dell’intero stock, capace di essere percepito come un default dagli investitori. Una nazione come la Germania, secondo i calcoli di Ubs, potrebbe perdere fra i 6.000 e gli 8.000 euro procapite per il primo anno e fra i 3.500 e i 4.500 euro per quelli successivi. In altre parole, nel primo anno il Prodotto interno lordo tedesco si contrarrebbe di una cifra compresa fra il 20% e il 25% del valore ante uscita dall’euro. Se può sembrare tantissimo, vale la pena ricordare che il costo dei tre salvataggi (Grecia, Irlanda, Portogallo) finora è stato di circa 1.000 euro solo per i tedeschi. L’altra possibilità contemplata dagli scenari di Ubs sarebbe quella di un'espulsione dall’Unione monetaria europea. In questo quadro a uscire sarebbero i Paesi incapaci di garantire un piano di consolidamento fiscale credibile e sostenibile. Prendendo questi due semplici parametri la prima a essere espulsa sarebbe inevitabilmente la Grecia. Per Atene il costo leviterebbe fino a una cifra compresa tra 9.500 e 11.500 euro procapite per il primo anno, più fra i 3.000 e i 4.000 euro procapite all’anno per quelli successivi. La Grecia quindi perderebbe circa fra il 40% e il 50% del proprio Pil solo nei primi 12 mesi di secessione. Tuttavia, attualmente non esistono soluzioni per fare ciò. Il Trattato di Lisbona, all’articolo 50, disciplina il recesso dall’Unione europea, non dall’Unione monetaria. Uscire dall’eurozona, con le correnti fattispecie normative, violerebbe il Trattato di Maastricht, quello di Lisbona e quello di Roma. Tuttavia, si sta lavorando a una modifica dell’assetto legale dell’Ue. In deroga al Trattato di Lisbona, che ha il requisito della volontarietà nella secessione dall’Unione europea (non è ammessa l’espulsione), ma non dalla divisa unica, si potrebbe applicare un meccanismo normativo capace di garantire una via d’uscita dall’eurozona. Se da un lato l’appartenenza all’Unione europea non può essere messa in discussione se non su base volontaria, è altrettanto vero che lo stesso paradigma si dovrebbe applicare all’Unione monetaria europea. O almeno questo è il pensiero che sta prendendo piede in Germania e Olanda. Oggi il cancelliere Merkel ha espressamente parlato di secessione dalla zona euro. «I problemi di un singolo Paese non possono mettere in pericolo un’intera valuta, i cambiamenti nei trattati Ue non dovrebbero essere un tabù», ha detto la Merkel. Il tutto pochi istanti dopo la decisione della Corte costituzionale tedesca in merito alla costituzionalità degli aiuti di Berlino nel primo piano di salvataggio della Grecia. Gli ha fatto eco il ministro olandese delle Finanze, Jan Kees de Jager. «Abbiamo proposto all’Ue una serie di sanzioni per gli Stati dell’eurozona che non raggiungono gli obiettivi di budget minimi», ha detto. Fra queste, il titolare del Tesoro olandese ha specificato che c’è «una clausola che permetta ai Paesi di lasciare la zona euro». Nei corridoi della Bce l’argomento non è più tabù, come confermato a Linkiesta da fonti interne all’Eurotower. «Solo come caso di studio», garantiscono da Francoforte. A gettare un’ombra sul futuro dell’attuale eurozona ci pensa ancora Ubs. Gli analisti della banca svizzera fanno notare che «quasi nessuna delle moderne unioni monetarie fiat (con valuta a corso legale, ndr) si sono disgregate senza una qualche forma di governo autoritario o militare, o di guerra civile». E questo non è esattamente il miglior scenario possibile per l’Europa.
Fabrizio Goria, L'Inkiesta
Avanza l’ipotesi dell’uscita di uno Stato dalla zona euro. Una ricerca di Ubs evidenzia i costi economici, politici e sociali. Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non lo fa riferendosi solamente alla Grecia, bensì anche alla Germania. Solo che gli analisti della banca svizzera ammoniscono: quasi nessuna unione monetaria si è disgregata «senza una qualche forma di governo autoritario o militare, o di guerra civile». E la Merkel apre: «I cambiamenti nei trattati Ue non dovrebbero essere un tabù». 7 settembre 2011 - 16:15 «L’euro non dovrebbe esistere (almeno in questa forma)». Si aprono le danze sull’uscita dall’eurozona di uno Stato europeo. A lanciare ufficialmente l’allarme è la banca svizzera Ubs. In un report di Paul Donovan, Stephane Deo e Larry Hatheway vengono evidenziate tutte le attuali criticità della zona euro, compresi i costi economici della secessione di un Paese membro dall’area della moneta unica. Sebbene Ubs ricordi che «è improbabile» che si arrivi all’Euro break-up, il collasso dell’euro, sono singolari le dichiarazioni di oggi del cancelliere tedesco Angela Merkel. «I cambiamenti nei trattati Ue non dovrebbero essere un tabù», ha detto riferendosi ai problemi dell’Unione monetaria europea. Nel frattempo Deo, capo economista Ue del gruppo bancario svizzero, avverte i mercati finanziari mondiali: «La Grecia è insolvente». E Jean-Claude Juncker, numero uno dell’Eurogruppo, spiega che «la prossima tranche di aiuti ad Atene non è scontata». L’inizio dell’analisi di Ubs non lascia spazio all’ottimismo. «Sotto l’attuale struttura e con i membri attuali, l’euro non funziona. L’attuale struttura dovrà cambiare, o saranno i membri attuali a dover cambiare», scrive la banca elvetica. E lo sottolinea citando una frase del dicembre 2001 di Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea. «Sono sicuro che l’Euro ci obbligherà a organizzare una nuova serie di strumenti di politica economica, anche se è politicamente impossibile proporli adesso. Ma verrà il giorno in cui ci sarà una crisi, e saranno creati nuovi strumenti», diceva l'ex primo ministro italiano alla vigilia dell’introduzione dell’euro. La ricerca di Ubs prende in esame i costi di un’uscita dall’eurozona. Linkiesta già a febbraio aveva parlato di questa possibilità, che ora sta prendendo sempre più piede. Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non lo fa riferendosi solamente alla Grecia, bensì anche alla Germania. Quattro sono i fattori di costo per la secessione, dato che l’espulsione dalla Ue non è attualmente contemplata dai trattati europei: la svalutazione della nuova valuta, il collasso bancario, la depressione del commercio con gli altri Paesi limitrofi e i possibili disordini sociali. A essi si aggiungono i costi politici dovuti all’indebolimento dell’Unione europea, che vedrebbe sgretolarsi il terreno sotto i piedi. La questione è solo una. Nel peggiore scenario possibile, a chi conviene maggiormente lasciare l’eurozona? Nelle sale trading delle banche europee circola voce che sono due le opzioni possibili. O escono i Paesi forti o escono quelli deboli. Nel primo caso sarebbero Germania, Olanda e Finlandia i primi ad avallare la secessione, con cui si costituirebbe quella che Ubs definisce Nnc (new national currency, la nuova valuta nazionale). Una volta uscito, il Paese avrebbe di fronte a sé due vie per la gestione del debito pubblico. Da un lato potrebbe mantenerlo denominato in euro, seppur con un problema di tassazione che porterebbe quel Paese a utilizzare il commercio estero come driver per detenere riserve in euro. Dall’altro lo Stato in uscita potrebbe ridenominare il proprio debito nella nuova valuta, elemento che porterebbe a un deprezzamento dell’intero stock, capace di essere percepito come un default dagli investitori. Una nazione come la Germania, secondo i calcoli di Ubs, potrebbe perdere fra i 6.000 e gli 8.000 euro procapite per il primo anno e fra i 3.500 e i 4.500 euro per quelli successivi. In altre parole, nel primo anno il Prodotto interno lordo tedesco si contrarrebbe di una cifra compresa fra il 20% e il 25% del valore ante uscita dall’euro. Se può sembrare tantissimo, vale la pena ricordare che il costo dei tre salvataggi (Grecia, Irlanda, Portogallo) finora è stato di circa 1.000 euro solo per i tedeschi. L’altra possibilità contemplata dagli scenari di Ubs sarebbe quella di un'espulsione dall’Unione monetaria europea. In questo quadro a uscire sarebbero i Paesi incapaci di garantire un piano di consolidamento fiscale credibile e sostenibile. Prendendo questi due semplici parametri la prima a essere espulsa sarebbe inevitabilmente la Grecia. Per Atene il costo leviterebbe fino a una cifra compresa tra 9.500 e 11.500 euro procapite per il primo anno, più fra i 3.000 e i 4.000 euro procapite all’anno per quelli successivi. La Grecia quindi perderebbe circa fra il 40% e il 50% del proprio Pil solo nei primi 12 mesi di secessione. Tuttavia, attualmente non esistono soluzioni per fare ciò. Il Trattato di Lisbona, all’articolo 50, disciplina il recesso dall’Unione europea, non dall’Unione monetaria. Uscire dall’eurozona, con le correnti fattispecie normative, violerebbe il Trattato di Maastricht, quello di Lisbona e quello di Roma. Tuttavia, si sta lavorando a una modifica dell’assetto legale dell’Ue. In deroga al Trattato di Lisbona, che ha il requisito della volontarietà nella secessione dall’Unione europea (non è ammessa l’espulsione), ma non dalla divisa unica, si potrebbe applicare un meccanismo normativo capace di garantire una via d’uscita dall’eurozona. Se da un lato l’appartenenza all’Unione europea non può essere messa in discussione se non su base volontaria, è altrettanto vero che lo stesso paradigma si dovrebbe applicare all’Unione monetaria europea. O almeno questo è il pensiero che sta prendendo piede in Germania e Olanda. Oggi il cancelliere Merkel ha espressamente parlato di secessione dalla zona euro. «I problemi di un singolo Paese non possono mettere in pericolo un’intera valuta, i cambiamenti nei trattati Ue non dovrebbero essere un tabù», ha detto la Merkel. Il tutto pochi istanti dopo la decisione della Corte costituzionale tedesca in merito alla costituzionalità degli aiuti di Berlino nel primo piano di salvataggio della Grecia. Gli ha fatto eco il ministro olandese delle Finanze, Jan Kees de Jager. «Abbiamo proposto all’Ue una serie di sanzioni per gli Stati dell’eurozona che non raggiungono gli obiettivi di budget minimi», ha detto. Fra queste, il titolare del Tesoro olandese ha specificato che c’è «una clausola che permetta ai Paesi di lasciare la zona euro». Nei corridoi della Bce l’argomento non è più tabù, come confermato a Linkiesta da fonti interne all’Eurotower. «Solo come caso di studio», garantiscono da Francoforte. A gettare un’ombra sul futuro dell’attuale eurozona ci pensa ancora Ubs. Gli analisti della banca svizzera fanno notare che «quasi nessuna delle moderne unioni monetarie fiat (con valuta a corso legale, ndr) si sono disgregate senza una qualche forma di governo autoritario o militare, o di guerra civile». E questo non è esattamente il miglior scenario possibile per l’Europa.