sabato 22 ottobre 2011

Reddito minimo di cittadinanza


Reddito minimo di cittadinanza per salvare l'Italia

http://www.nuovasocieta.it

di Luchino Galli

(NDR: Una delle misure da adottare subito appena recuperata la sovranità monetaria e creditzia)
Il tasso di occupazione in Italia per le persone in età lavorativa fra i 15 e i 64 anni - primario indicatore economico di riferimento - è stato nel 2010 del 56,90%, in base ai dati Eurostat.
Questo dato colloca il nostro Paese al terzultimo posto, 25esimo tra i 27 Stati membri dell'Unione Europea. Peggio di noi solo Malta (56%) e Ungheria (55,40%)!!
Da evidenziare come Italia e Ungheria, insieme alla Grecia - che si posiziona invece al 20° posto con un 59,60% - siano le uniche nazioni facenti parte dell'Unione Europea a non aver ancora istituito un reddito minimo di cittadinanza, nonostante nell'ottobre 2010 il Parlamento Europeo abbia approvato una risoluzione che ne chiede l'istituzione in tutti i paesi dell'Unione, per un importo pari almeno al 60% dello stipendio medio di ogni paese.
Reddito minimo di cittadinanza del quale avrebbero potuto beneficiare gli oltre 2.100.000 disoccupati censiti dall'Istat nel 2010 (media su base annua) che rimangono invece tra i meno aiutati d'Europa e dei quali non più del 30% ha potuto usufruire di sussidi di varia natura comunque destinati ad esaurirsi in un breve lasso di tempo, quando le difficoltà economiche connesse a una prolungata disoccupazione si acuiscono. In particolare, da specifici sussidi drammaticamente e paradossalmente sono esclusi proprio i disoccupati che hanno lavorato di meno... (si vedano a riguardo i requisiti necessari per accedere all'indennità di disoccupazione ordinaria e a quella con requisiti ridotti).
Reddito minimo di cittadinanza del quale avrebbero potuto beneficiare inoltre circa 2.100.000 persone inattive (dato 2010) che hanno rinunciato a cercare attivamente occupazione pur essendo immediatamente disponibili a lavorare. Si tratta di persone scoraggiate, in larga parte over 35, arrese all'evidenza di un mercato del lavoro che nega loro qualsiasi possibilità di ricollocazione professionale.
Reddito minimo di cittadinanza del quale potrebbero beneficiare anche gli adulti (over 60, 55, 50, 45, 40, 35...ormai una deriva inarrestabile!) che costituiscono quasi il 45% dei disoccupati censiti ufficialmente dall'Istat e la stragrande maggioranza degli inattivi! Adulti che sono i primi ad essere licenziati e gli ultimi ad essere riassunti, discriminati per motivi anagrafici, pervicacemente esclusi tout court dal mercato del lavoro e destinati - se non supportati da una robusta rete di solidarietà familiare o amicale - a finire letteralmente per strada, precipitando in una dimensione di emarginazione, esclusione sociale e povertà assoluta dalle quali è difficilissimo risollevarsi! Nel nostro Paese le persone che vivono per strada sono in continuo aumento. I senzatetto sono in maggioranza uomini, soprattutto 40enni, che hanno perso il lavoro.
Reddito minimo di cittadinanza del quale potrebbe beneficiare, a integrazione, anche quella parte di lavoratori precari che non raggiunge una determinata soglia di reddito.
In Italia, tra l'inizio del 2008 e il giugno 2010 sono stati attivati 27,4 milioni di contratti di lavoro, di cui ben il 73,4% precari!
Si tratta di una variegata moltitudine di lavoratori, quali: lavoratori subordinati a termine, in somministrazione, intermittenti, accessori, lavoratori parasubordinati, quali collaboratori a progetto e associati in partecipazione, titolari di partita iva monocommittente (precari con partita iva).
Lavoratori precari che la crisi economica trasforma spesso in disoccupati: nel 2009, ben il 63% di chi ha perso il lavoro era infatti precario.

Scontri di piazza: certe paure inconfessabili


Scontri di piazza: certe paure inconfessabili


Alessandro Magno catturò un pirata che infestava i mari. E civilmente, come usava in quei tempi barbari che non conoscevano ancora la "cultura superiore" né gli odierni "eroi della libertà" che si fan liberare dalle armi straniere e poi si dedicano al linciaggio sotto gli occhi compiaciuti del mondo intero o alla caccia sistematica al nero, gli concesse l'ultima parola prima di impiccarlo. Il pirata disse: "Vedi Alessandro, noi due facciamo le stesse cose. Solo che io le faccio con trecento uomini e tu con trecentomila. Per questo io sono un pirata e tu un grande Re".

I cinquecento che l'altra domenica hanno messo "a ferro e fuoco" Roma sono oggi, oggettivamente, dei teppisti, ma se diventassero cinque milioni sarebbero dei rivoluzionari, come è accaduto in Tunisia dove una rivolta violenta ma non armata ha cacciato in due giorni il dittatore Ben Alì. E il coro unanime di indignazione, da destra a sinistra, dai fascisti mascherati del PDL, ai fascisti propriamente detti come Ignazio La Russa (che nel 1974 organizzò a Milano una manifestazione dove due giovanissimi militanti dell'MSI, Murelli e Loi, uccisero un poliziotto buttandogli una bomba sul petto) all'estrema sinistra, ai sindacati, ai Pierluigi Battista che in sintonia col premier ha lanciato il diktat "chi non si dissocia anarcoinsurrezionalista è", al Presidente Napolitano, dimentico che era già un alto dirigente del PCI quando il suo sodale Secchia preparava la rivolta armata, significa proprio questo: il timore di questa classe dirigente, che ha la coscienza sporca e nera come la pece, che quei cinquecento decerebrati, smaniosi di distruggere tanto per distruggere, possano diventare cinque milioni che decerebrati non sarebbero. Nei giorni sucessivi ai fatti ero a Roma, "la capitale ferita", e parlando con amici, conoscenti, taxisti, personale d'albergo, gente incontrata al bar non ho notato una dissociazione così netta dai teppisti, ma un'oscura, sottaciuta, vergognosa soddisfazione.
Come se quell'esplosione di violenza li avesse vendicati, anche se per interposta persona, dalle umiliazioni, dalle frustrazioni, dal senso di impotenza che il cittadino subisce ogni giorno. Il fatto è che è diventato sempre più difficile tenere le mani a posto, facendo un tremendo sforzo su se stessi, assistendo quotidianamente allo spettacolo di una classe dirigente, politica, economica, intellettuale, autocostituitasi in una nuova oligarchia nobiliare, con noi cittadini normali retrocessi a sudditi, senza dignità e senza onore, pecore da tosare, asini al basto ad uso di "lorsignori", che mentre "la città brucia" (non Roma, l'Italia), continua nelle solite manfrine, nei soliti giochetti, nelle solite sordide lotte di potere senza tenere in minimo conto quel "bene comune" con cui si sciacqua quotidianamente la bocca. Certo che ci vorrebbero, noi del ceto medio, buoni, civili, educati, rispettosi delle buone maniere, come siamo sempre stati, per poter ruminare in tranquillità i propri privilegi. Ma, come tutte le cose, anche la pazienza ha un limite. E, come dice la Bibbia: "terribile è l'ira del mansueto" o, per dirla più modernamente con Peckinpah del “Cane di paglia". Ed è proprio questo che i politici, gli economisti, gli intellettuali ben sistemati nel regime, temono. Ma questo vulcano che potrebbe esplodere da un momento all'altro è un fatto. Un fatto che si misura attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo.


Massimo Fini - 22 ottobre 2011 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf

ORIGINI, ASCESA E DECLINO DEGLI OLIGARCHI RUSSI


Corriere della Sera, 10 ottobre 2011

RISPONDE SERGIO ROMANO

ORIGINI, ASCESA E DECLINO DEGLI OLIGARCHI RUSSI

Sono stato presente a una discussione sui miliardari russi. Da dove escono questi ricchissimi signori, vissuti in un Paese dove - così ricordiamo - sembrava assai diffusa la povertà e bassissimo il tenore di vita delle popolazioni? La approssimativa conoscenza che ho del problema mi ha sconsigliato di intervenire nella discussione. Siccome sono in molti che ancora si chiedono chi erano, chi sono e come hanno costruito la loro fortuna, lei può spiegarcelo? Giorgio Tommaseo giorgiotommaseo@ gmail.com 

Caro Tommaseo, Ho già parlato dell' argomento in altre occasioni e dovrò quindi ripetere cose già dette. Ma cercherò di farlo con qualche aggiornamento. Gli oligarchi (come vengono chiamati dai russi) sono gli avventurosi uomini d' affari che si sono impadroniti delle maggiori risorse del Paese durante le caotiche privatizzazioni degli anni Novanta. Questi yuppie postsovietici si sono valsi dei loro legami con la vecchia nomenklatura per saccheggiare i depositi delle Casse di risparmio e fare incetta di voucher (i cuponi distribuiti a ogni cittadino russo per privatizzare le imprese di Stato). Divenuti proprietari, hanno accumulato rapidamente colossali fortune e protetto la loro nuova ricchezza creando o comperando due utili strumenti: le banche, indispensabili per manovrare il denaro, e i mezzi d' informazione, necessari per condizionare il potere politico e tenere a bada gli avversari. Quando Putin divenne Primo ministro, nel 1999, uno di essi, Boris Berezovskij, aveva una carica pubblica (segretario esecutivo del Consiglio della Comunità degli Stati indipendenti), negoziava con i ceceni, era di casa al Cremlino ed era divenuto membro adottivo della famiglia Eltsin a cui elargiva generosi favori finanziari. Gli altri - fra cui Roman Abramovic, Vladimir Gusinskij, Michail Chodorkovskij, Platon Lebedev, Leonid Nevzlin, Michail Gutseriyev - si erano spartiti le ricchezze della nazione e dominavano la vita pubblica con i loro mezzi d' informazione. Oggi alcuni di essi sono all' estero (Berezovskij a Londra, Gusinskij in Spagna, Nevzlin a Tel Aviv) altri in carcere (Khordokovskij e Lebedev), altri in fuga (Gutseriyev). L' operazione sarebbe stata encomiabile se Putin non avesse colpito i suoi nemici (in particolare Chodorkovskij), ma lasciato licenza di lavorare e prosperare a tutti coloro che accettavano di venire a patti con il Cremlino. Oggi Chodorkovskij e Lebedev sono ancora in Siberia, ma altri godono impunemente di fortune costruite grazie al saccheggio del sistema industriale sovietico e delle risorse naturali del Paese. La maggioranza dei russi, tuttavia, riconosce a Putin il merito di avere messo fine alla guerra di bande che scoppiò nelle città russe, verso la metà degli anni Novanta, fra le milizie e le guardie del corpo con cui parecchi uomini d' affari proteggevano se stessi o eliminavano i loro avversari. Putin d' altro canto è convinto che la modernizzazione dell' economia russa debba essere, come ogni altra grande trasformazione del Paese, una rivoluzione dall' alto, e che sarà possibile soltanto se il potere centrale controllerà, direttamente o indirettamente, le maggiori risorse naturali russe. Il governo non sarebbe riuscito a raddoppiare il reddito delle fasce più povere della società se non avesse strappato agli oligarchi e alle aziende straniere, negli scorsi anni, il controllo pressoché totale del petrolio e del gas. E non sarebbe riuscito a creare un Fondo di stabilizzazione che custodiva, prima della crisi, 107 miliardi di euro. Credo che questo spieghi perché il ritorno di Putin al potere sia stato fortemente criticato dai gruppi sociali liberali e democratici di Mosca e Pietroburgo, ma appaia accettabile per gran parte della popolazione.