sabato 15 settembre 2012
L'onestà intellettuale, un optional raro nella democratura
Dopo aver letto questo articolo del Prof. Bagnai, non ho potuto esimermi dal commentarlo:
"Bagnai non è stronzo, come lui stesso si vanta, ma è ipocrita: paragona gli EURISTI ai FASCISTI come se non sapesse che proprio durante il fascismo vi fu una economia il più possibile sovrana con cospicue emissioni di biglietti di stato a corso legale. Tant'è che nell'ultimo anno, 1945, il bilancio statale chiuse con un attivo di 21 miliardi di lire, nonostante la guerra e l'occupazione americana... Lui dà del "piddino" e luogocomunista a Bersani e company, ma alla fine dimostra di essere vittima della stessa propaganda, peccato.".
E se non ci credete che la propaganda ipocrita sia ben viva e vegeta, più che mai, leggete questo:
UNA “RISPOSTINA” A MASSIMO FINI
Da Il conformista ne Il Gazzettino di venerdì 31 agosto 2012
di Filippo Giannini
Ė proprio vero, l’eredità più grave lasciata dal Fascismo è quella di aver generato l’antifascismo.
Uno dei pochissimi giornalisti che questa repubblichetta aveva generato e che io stimavo, era Massimo Fini. Dopo aver letto il suo articolo, di cui propongo uno scorcio, la mia stima traballa. Nell’articolo citato, dopo aver riconosciuto alcuni meriti del fascismo, ecco come conclude: "Certo, poi ci sono gli orrori" ed ecco l’elenco degli orrori: "il carcere di Gramsci (“Dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per almeno vent’anni”), l’omicidio Matteotti, quello dei Rosselli, il criminale uso dell’iprite in Abissinia, le leggi razziali. E l’errore fatale: che i tedeschi avrebbero vinto la guerra in quattro e quattr’otto (“ci basteranno poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace”) (…)"..
Cominciamo con Gramsci. Per prima cosa stabiliamo: quale Gramsci? Mario o Antonio? Perché pochi sanno che Mario Gramsci, fratello di Antonio più giovane di lui di dodici anni, era un fascista: volontario nella campagna d’Etiopia e combattente in Africa Settentrionale. Fatto prigioniero, fu inviato in Australia. Rientò in Patria nel 1945 malfermo in salute a causa delle angherie subite perché non-cooperatore. Morì subito dopo il rientro, solo e dimenticato, in un ospedale di terz’ordine, ma Massimo Fini intende ricordare l’altro Gramsci, Antonio.
Prima di iniziare, mi si permetta una domanda: "Perché negli “orrori” si citano sempre i soliti nomi e mai quelli di Armando Casalini, di Berto Ricci o quello di Nicola Bonservizi o di Giulio Giordani o di altri centinaia di caduti in Camicia Nera, assassinati a sangue freddo?". Mi si perdoni la sbadataggine: questi erano fascisti! Oh, buon Dio che lapsus, non è forse vero che “uccidere un fascista non è reato”?
Ma andiamo avanti. Il primo martire degli orrori fascisti citato da Massimo Fini è Antonio Gramsci.
Un primo equivoco è di credere – o far credere – che Gramsci fosse un “democratico” o un “pacifista”. Tutt’altro: una costante del pensiero gramsciano era quella di spingere le masse verso una rivoluzione "sulla falsariga di quella russa": il che equivaleva dire di far pagare all’Italia uno scotto di centinaia di migliaia di morti.
Pochi sanno che le prime azioni squadristiche non erano di “marca fascista”- in quanto avvenute nell’inverno 1918-primavera 1919, cioè quando il fascismo non era ancora nato – ma “rosse”; avvenivano principalmente nell’Emilia-Romagna; e obiettivi erano i contadini di quelle terre restii ad iscriversi ai sindacati socialisti. Ebbene, in un dibattito alla Camera Gramsci ebbe l’impudenza di rimproverare Mussolini per l’uso della violenza praticata dai fascisti; al che Mussolini replicò ricordando che fu proprio il suo compagno di partito, Bordiga, a giustificare l’uso della violenza. Nella controreplica Gramsci superò se stesso sostenendo: "Noi siamo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi più essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria, perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire". Una controreplica, quella di Gramsci, che ben si allinea a quanto da lui stesso sostenuto, e cioè che "una menzogna in bocca a un comunista è una verità rivoluzionaria". Infatti, quando mai la maggioranza del popolo italiano era di marca rossa’?
Dopo la svolta del 1925, quando il Fascismo assunse un atteggiamento“autoritario”, Gramsci costituiva un motivo di disturbo. Venne arrestato l’8 novembre 1926; dapprima fu rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, quindi tradotto a Ustica dove giungerà il 7 dicembre. Nel 1928 il Tribunale Speciale lo condannò a venti anni di reclusione. Gramsci si rifiutò sempre di inoltrare domanda di grazia.
Un’altra nota da presentare al signor Massimo Fini viene fornita da Giancarlo Galdi, il quale ha scritto: "Non fu Mussolini a pronunciare la frase “dobbiamo impedire a quel cervello di funzionare per i prossimi vent’anni”. L’autore di questa sciocchezza fu il “togato” Michele Isgrò, pubblico Ministero del Tribunale Speciale (…). Il Duce mostrò nei confronti dell’avversario una silenziosa, fattiva solidarietà per quanto gli era possibile e… consentito". Se Massimo Fini non è d’accordo, si può rivolgere all’autore di questa puntualizzazione.
Durante la detenzione, sia al confino a Ustica, sia nel carcere di Turi (che in pratica era una “clinica con le sbarre” dove il personale sanitario aveva la prevalenza su quello di sorveglianza), sia, come vedremo, nella clinica Cusumano di Formia, Gramsci poté godere di un trattamento di riguardo e dell’assistenza della cognata Tatiana Schucht.
In carcere continuò i suoi studi, disponendo anche di libri “sovversivi” che di volta in volta ordinava.
I suoi “Quaderni dal carcere” potevano uscire senza problemi e giungere a quelle persone cui erano destinati, senza che il Governo li avesse mai sequestrarli.
Fu proprio quanto contenuto nei “Quaderni” ad alienargli le simpatie del Cremlino e, in particolare, del suo “proconsole generale per l’Italia” Palmiro Togliatti. Infatti, per quanto riguarda le lettere inviate da Gramsci alla cognata tra il 1926 e il 1935, lo stesso “Istituto Gramsci” riconosce: "Oggi disponiamo di documenti che testimoniano in modo inequivocabile come Togliatti ritenne che, per motivi politici, interventi manipolatori sugli scritti di Gramsci fossero non solo ammissibili, ma anche necessari". In altre parole, Togliatti manipolava gli scritti del fondatore del Partito Comunista d’Italia secondo i voleri del Cremlino. Giustamente Franco Monaco, nel suo libro “Quando l’Italia era ITALIA”, scrive: "Nemici implacabili di Antonio Gramsci furono gli stessi comunisti, poiché il suo leninismo non combaciava con lo stalinismo vigente in Russia. Nell’Unione Sovietica infieriva il terrore e i comunisti, anche italiani, sparivano nelle prigioni e in Siberia". Così Gramsci fu messo nel “libro nero” dai suoi stessi compagni e ci vuole proprio la loro “faccia di bronzo” per innalzarlo a martire della loro idea. Tanto che – e questo è lo stesso ex segretario di Togliatti, Massimo Caprara, a ricordarlo: "Togliatti-Ercoli ostacolò lo scambio di prigionieri sostenuto dal Vaticano che Mussolini avrebbe accettato e che avrebbe consentito la liberazione di Gramsci".
La malattia che accompagnava sin dalla nascita il grande pensatore comunista progrediva sempre più; ne fa testimonianza lo storico del PCI, Paolo Spriano, che nel suo libro “Gramsci”, denuncia: "L’insonnia lo tormenta (…). Tra il 1931 e il 1934 si palesano lesioni tubercolari polmonari, fatti di depressione cardiaca, attacchi artritici, nefriti, piorrea alveolare".
Il 5 novembre 1932, in occasione del decennale della Marcia su Roma, con Regio decreto gli fu ridotta la pena a dodici anni e quattro mesi e anticipata la decorrenza dal 20 gennaio 1927.
Nel 1933 Gramsci, colpito da una nuova grave crisi, ottenne il trasferimento dal carcere di Turi alla clinica Cusumano di Formia, non prima di essere stato assistito dai migliori clinici del tempo, quali Arcangeli, Liccione, Saporito.
Fu per diretto intervento di Mussolini che venne emesso, il 25 ottobre 1934, un decreto per la libertà condizionata. A Gramsci venne proposto di essere ricoverato nella clinica “Quisisana” specializzata in malattie polmonari.
Così egli scrisse il 3 novembre 1933 a Novelli direttore del Ministero di Grazia e Giustizia: "Ho ricevuto dai miei familiari l’annuncio che S.E. il Capo del Governo ha concesso che io sia ricoverato in una casa di cura privata e nello stesso tempo mi è stato comunicato l’ammontare della spesa giornaliera (…). La spesa è tale da escludere un mio soggiorno, in questa casa, sufficientemente lungo da permettere una cura razionale e organica delle mie sofferenze (…)".
Mussolini venuto a conoscenza della questione “costose spese”, la risolse con un decreto che stabiliva: "un ex detenuto in quanto libero, ma sorvegliato, ha il diritto di essere assistito dallo Stato".
Diamo di nuovo la parola a Spriano: "Terminato il periodo di libertà condizionale, Gramsci riacquista la piena libertà nell’aprile 1937. Il 25 è colpito da emorragia cerebrale. Nel primo pomeriggio del 27 aprile Gramsci muore. E’ assistito sino all’ultimo dalla cognata Tatiana. Le sue ceneri, chiuse in un’urna, vengono inumate nel Cimitero degli Inglesi".
Al momento del trapasso, erano presenti oltre a Tatiana, anche i professori Frugoni e Puccinelli.
La menzogna che Antonio Gramsci morì da detenuto nelle carceri fasciste naufraga miseramente di fronte ai fatti: il pensatore comunista morì da uomo libero in un appartamento al numero 2 di Via delle Alpi a Roma, dove era andato a vivere insieme alla cognata Tatiana.
E se Gramsci fosse stato portato in Urss dopo lo “strappo” antistalinista da lui effettuato, quale sarebbe stata la sua sorte? Risponde Dario Fertilio su il “Corriere della Sera” del 10 marzo 1996: "Certo la malattia l’avrebbe ucciso comunque, ma Dio solo sa che cosa gli avrebbero fatto se avesse cominciato ad esprimere pareri".
Centinaia di comunisti italiani rifugiatisi nel “Paradiso sovietico” trovarono orribile morte - uccisi dai loro compagni di fede - per molto, ma per molto meno di quanto il pensiero di Gramsci aveva deviato dalla linea imposta da Stalin.
Sin qui la storia di Antonio Gramsci, ora passiamo a quella di Matteotti.
Matteo Matteotti era il figlio di Giacomo Matteotti. Matteo rilasciò questa intervista al giornalista Marcello Staglieno, intervista pubblicata su Storia Illustrata del novembre 1985. Di questa ne riporto uno stralcio: "(…). Matteo Matteotti: nel 1924, dopo l’uccisione di mio padre, i giornali – ma non solo quelli – parlarono della denuncia che avrebbe dovuta essere portata da Giacomo Matteotti davanti alla Camera, riferendosi in particolare a un dossier contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che riguardava appunto, assieme alle bische, i petroli.
Staglieno: Suo padre aveva realmente con sé quel dossier?
M. Matteotti: non ho le prove materiali. Però uno storico serio come Renzo De Felice afferma che le insistenti voci di un delitto affaristico “non possono essere lasciate cadere a priori”".
Dopo aver chiamato in causa la Sinclair, la Anglo Persian Oil, la Loggia massonica, The Unicorn and the Lion, fu la volta di Vittorio Emanuele III, interessato ad entrare nei giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico.
Così l’intervista continua:
Staglieno: Benito Mussolini non aveva alcun interesse a far uccidere suo padre…
M. Matteotti: Mussolini voleva – fin dal 1922, subito dopo la marcia su Roma – riavvicinarsi ai socialisti. Il 7 giugno 1924, quando già il delitto era in piena fase di progettazione, pronunciò un discorso che era un appello alla collaborazione rivolto proprio ai socialisti (…). Ci sono in proposito due testimonianze: quella di Giunta e quella di Carlo Silvestri. Anzi a quest’ultimo, come risulta da una sua deposizione al processo Matteotti rifatto nel 1947, fu proprio Mussolini in persona a dichiararlo, aggiungendo che Matteotti era stato vittima di loschi interessi. No, il duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere: si sarebbe alienato per sempre la possibilità di una alleanza con i suoi vecchi compagni, che non finì mai di rimpiangere (…).".
Povero Matteo Matteotti, non l’avesse mai dette certe verità! Il giorno dopo fu costretto a rimangiarsi tutto. Non è questa la repubblica nata dalla resistenza? Il Duce non deve, sottolineo DEVE essere l’artefice di ogni mascalzonata? Quindi DEVE (anche se la logica, la sua personalità, le prove dimostrano il contrario) DEVE, ripeto, essere stato l’autore anche della morte di Giacomo Mateotti.
Illustriamo meglio citando il più fiero accusatore di Mussolini all’epoca dell’assassinio di Giacomo Matteotti: cioè quel Carlo Silvestri, poco sopra menzionato. Carlo Silvestri fu interlocutore e confidente di Mussolini all’epoca della Repubblica Sociale e ne sostenne l’innocenza quando prese parte, come testimone, al processo Matteotti che si tenne a Roma a Febbraio 1947. Silvestri sostenne che Matteotti fu ucciso per sbarrare la strada a qualsiasi pacificazione e il suo cadavere "fu gettato tra il socialismo e Mussolini". Sempre secondo Silvestri, la creazione di una Repubblica sociale dopo l’8 settembre, ebbe il merito di rimettere il socialismo all’ordine del giorno. Ne fu convinto quando nei suoi contatti con Mussolini sul lago di Garda, soprattutto verso la fine del 1944, scoprì che il suo interlocutore stava coltivando, in circostanze molto diverse, un progetto molto simile a quello del 1924: consegnare la Repubblica Sociale, al momento della disfatta, al partrito socialista. L’operazione fallì, fallì per opera soprattutto di Sandro Pertini, perché questi, al contrario del tiranno, voleva il sangue, sangue che ottenne.
Se il signor Massimo Fini non fosse convinto di quanto abbiamo sostenuto, presenti le prove della colpevolezza di Mussolini circa quell’odioso omicidio e diventerà ancora più famoso di quanto oggi non sia.
Passiamo ora all’omicidio Rosselli. Gradiremmo prima citare un pensiero di Antonio Falcone (Storia Verità, n° 20): "Questo tipo di risorsa propagandistica è stato gestito dall’antifascismo con un’abilità e un professionismo che i fascisti erano lontani dal possedere. I nomi di Giacomo Matteotti, di don Giovanni Minz-oni, dei fratelli Rosselli – per citare i più sfruttati – sono stati quasi mitizzati da una agiografia che non ha nulla da imparare dal martirologio cristiano. Nello stesso tempo vengono ignorati come mai esistiti, i nomi di Armando Casalini, di Giulio Giordani, di Aldo Sette, di Giovanni Berta, di Nicola Bonservizi e di tanti altri fascisti, non caduti in conflitti, ma assassinati a sangue freddo".
La storiografia ufficiale attesta: "Carlo Rosselli fece ritorno in Francia (dalla Spagna dove aveva preso parte alla guerra civile, nda), e cadde, insieme al fratello Nello, sotto il pugnale dei “cagoulards” (incappucciati), che agivano dietro ordine del governo fascista". La verità è completamente diversa, come dimostra lo storico Franco Bandini nel documentatissimo volume Il cono d’ombra. I due fratelli Rosselli vengono assassinati tra le 19,30 e le 19,40 il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de l’Orne. Franco Bandini descrive esattamente cosa avvenne quel giorno; poi scrive: "Filliol (uno degli assassini) fruga febbrilmente i cadaveri di ciò che i due fratelli hanno con loro, nulla viene toccato, né denaro, né assegni. In realtà Filliol cerca un’unica cosa: un pacchetto di documenti che si trovava nella giacca di Carlo e come ricordato da Bandini (Filliol) se ne impadronisce con un grugnito di soddisfazione". Il lunedì 14 giugno “Le Figaro” esce con due sensazionali titoli: "Carlo Rosselli, amnistiato dal governo italiano, stava rientrando nel suo paese. I documenti segreti in suo possesso sono alla base del crimine". Per concludere, Franco Bandini, nel citato volume, riporta documenti che dimostrano che il capo dei “cagoulards”, l’ingegnere Eugène Deloncle, lavorava per conto della sovietica NKVD. Della stessa opinione è Paolo Pellitteri, nel suo libro “Il conformista indifferente e il delitto Rosselli”. Ė accertato che i fratelli Rosselli, dopo la scioccante esperienza spagnola, avevano abbandonato il fronte, probabilmente perché disgustati dalla violenza dei rossi che proprio il mese precedente avevano massacrato i compagni di lotta, gli anarchici. Il fatto era avvenuto il 7-8 maggio 1937 a Barcellona. A seguito di ciò, i fratelli Rosselli avrebbero maturato l’idea di rientrare in Italia con documenti importanti. Questo potrebbe essere stato il movente del loro assassinio. Altro che il “governo fascista”!. A proposito di questo, mai si è fatta la storia dei rapporti esistenti tra i fuorusciti e il Governo fascista. I fuorusciti, allo scadere del visto sul passaporto, si presentavano ai rispettivi Regi Consolati per il rinnovo che era regolarmente concesso. Questo non veniva negato nemmeno ai più tenaci avversari del Governo italiano, come risulta dalla ricca documentazione riposta nell’Archivio centrale dello Stato. In mancanza del rinnovo, gli Stati ospitanti si sarebbero visti in diritto di pretendere l’espatrio.
Ora esaminiamo l’accusa del “criminale uso dell’iprite in Abissinia”.
Allora, gli italiani nella guerra etiopica usarono o no i gas asfissianti? Prima di entrare nel merito sarà bene ricordare che quando l’Italia affrontò quell’impresa, Francia e Inghilterra profetizzarono che, qualora il nostro Paese fosse riuscito a vincere quella guerra, questa sarebbe durata non meno di cinque anni e con perdite inimmaginabili. Grande fu lo scorno della “Perfida Albione” allorquando quel conflitto si risolse per noi vittoriosamente in una manciata di mesi. Ecco allora venir fuori la calunnia: “Hanno vinto perché usarono i gas asfissianti”. E’ sempre difficile tentare di confutare certi argomenti, quelli cioé che riguardano “il feroce volto del fascismo”, il minimo che può capitare al malcapitato che si dovesse avventurare nell’impresa sarebbe quella di essere marchiato di “revisionismo”, il che equivale ad una infamia.
Ascoltiamo ora qualche testimonianza di chi quella esperienza la visse.
Montanelli in data 12 gennaio 1996 su “Il Messaggero” ricorda: "Se la guerra a cui ho partecipato corrisponde a questi connotati, vuol dire che io ne ho fatta un’altra. Che non c’ero. Ma quali gas?". Alla domanda: "Lei continua a non credere nei gas?" Montanelli rispose: "Vorrebbe dire che ero cieco, sordo, imbecille. No, guardi di quelle cose non c’era traccia. Una cosa sono le carte, che possono anche essere scritte per la circostanza, un’altra le testimonianze vissute".
Pietro Romano, “Il Giornale” del 18/2/96: "All’epoca ero un semplice gregario del gruppo Diamanti. Poiché il mio reparto, come è risaputo, operò sempre in avanguardia nel Tigrai e altrove, nessuno dei suoi gregari sarebbe sfuggito alle contaminazioni, se fossero stati usati i gas (...). Posso assicurare che i gas non furono mai usati". Il Colonnello Giuseppe Spelorzo in data 18/3/96 mi ha, fra l’altro, scritto: "Ho la buona sensazione che il Sig.... e gli altri cretinissimi italiani ne sappiano molto meno di me. Già, io ho avuto la ventura di percorrere tutto l’Impero A.O.I. (...) mai sentito parlare di gas (...)". Sempre il Colonnello Spelorzo, ma in data 12/6 ha ribadito: "I gas! Nessun militare del nostro esercito conquistatore era dotato di maschere antigas! Ne sono testimone vivente: sbarcato a Mogadiscio il 24 giugno 1935, rimbarcato a Massaua il 28 marzo 1938!". Il sig. Giovanni De Simone su “Il Giornale d’Italia” del 23 marzo 1996: "(...) In A.O.I. non vennero usati i gas. Se così fosse stato io sarei stato il primo a saperlo prestando servizio al Sim ove giungevano decrittati tutti i messaggi della intera rete radio del nemico captati dal “Centro intercettazioni” di Forte Bracci; un vero libro aperto per noi in possesso di “decifratore”. Mai rilevata una parola sui gas"
E ancora “Il Giornale d’Italia” del 29/4/96, il Sig. Giulio Del Rosso testimonia: "Posso tranquillamente affermare che nel settore del fronte etiopico, dal fiume Mareb, confine fra l’Eritrea e l’Etiopia, fino al Lago Tana (oltre 1000 Km. pedibus calcantibus) ove ha operato il VI° Corpo d’Armata, comandato dal generale Babbini e del quale faceva parte il mio reparto, non sono mai stati impiegati gas tossici. Avevo raggiunto, io, Addis Abeba dopo le ostilità ed avevo avuto l’occasione di contatti con commilitoni provenienti da altri fronti e da altre località ove si susseguirono battaglie cruente e sanguinose, non ho mai sentito la parola ‘gas’ (...). Altra perla, me la riferì una graziosa francesina incontrata a Firenze nel ‘37, secondo la quale giornali francesi ed inglesi riportavano che noi Cc.NN. avremmo mangiato a colazione bambini abissini".
Lo stesso Winston Churchill nella sua “La Seconda Guerra Mondiale”, a pag. 210, esclude l’uso dei gas nei seguenti termini: "I gas asfissianti sebbene di sicuro effetto contro gli indigeni non avrebbero certo accresciuto prestigio al nome d’Italia nel mondo".
Vittorio Mussolini che all’epoca era al comando di una squadriglia di bombardieri mi disse: "Mai usati i gas. E noi dell’aeronautica che avremmo dovuto trasportarli e sganciarli, dovevamo pur esserne a conoscenza".
Ė cosa nota (o almeno dovrebbe essererlo) che ai prigionieri caduti in mano abissina venivano riservati trattamenti diabolici: l’evirazione era la norma comune.
Non è male ricordare un fatto che traumatizzò l’opinione pubblica nazionale: il 13 febbraio 1936 a Mai Lahlà operava, ubicato imprudentemente oltre il Mareb, un cantiere Gondrand. Su questo opificio piombò una banda di 2000 guerriglieri abissini al comando del Ras Immirù, che dopo aver ucciso in modo atroce tutti gli operai, torturò, come sapevano fare, l’ingegnere milanese Cesare Rocca fino ad ucciderlo. Violentarono ripetutamente la moglie Lidia Maffioli e, prima di finirla, le misero in bocca i testicoli del marito. Nel caso del genere, contro gli autori di simili misfatti, l’uso dei gas sarebbe stato più che motivato; il diritto di rappresaglia era previsto dalle Convenzioni de l’Aja e quanto avvenuto a Mai Lahlà ne sanciva la legittimità.
Citiamo una nuova testimonianza, questa volta di Alberto Franci (Voce del Sud, 18/5/1996): "Chi scrive, allora giovanissimo, seguiva attentamente le operazioni belliche attraverso la stampa italiana ed estera, e ricorda ancora qualche episodico impiego di gas contro gli Etiopi, ma a puro scopo di rappresaglia, a causa di violazioni di norme internazionali commesse dalle formazioni etiopiche (…). Ricordo ancora con raccapriccio, l’episodio del tenente pilota Minniti, sul fronte dell’Ogaden, che, costretto all’atterraggio, si difese con la rivoltella, finché sopraffatto e catturato venne inesorabilmente torturato e, alla fine, evirato (…). Inoltre dovrebbe risultare che il Governo italiano più volte inoltrò formali proteste alla Società delle Nazioni (in Ginevra) per il sistematico impiego – da parte etiopica – dei micidiali proiettili dum-dum che, all’impatto, si frantumavano producendo ferite gravissime e, quasi sempre inevitabili mutilazioni. Perciò le dum-dum erano bandite dalle Convenzioni (…)". Per quanto mi risulta i casi del cantiere Gondrand, del tenente Minniti e delle pallottole dum-dum non vengono ricordati dai sostenitori delle atrocità fasciste. Perché?. Ed ora giungiamo ai telegrammi di autorizzazione; telegrammi che si trovano nell’Archivio di Stato di Roma. Il 2 gennaio 1936 il capo del fascismo telegrafa a Graziani e per conoscenza a Badoglio: "Approvo pienamente bombardamento rappresaglia e approvo fin da questo momento i successivi, soltanto cercare di evitare le istituzioni internazionali della Croce Rossa".
Evidentemente si era in attesa delle decisioni ginevrine in merito alle attività irregolari degli etiopi e della loro condanna, tre giorni dopo e precisamente il 5 gennaio, Mussolini inviò a Badoglio il seguente telegramma: "Sospenda l’impiego dei gas sino alle riunioni ginevrine a meno che non sia reso necessario da supreme necessità offese aut difesa.". I toni duri si ripetono nel telegramma “Segreto”, sempre a Badoglio, del 29 marzo: "Dati metodi di guerra del nemico le rinnovo autorizzazione impiego gas di qualunque specie e su qualunque scala". Il 10 aprile un nuovo telegramma, questa volta a Graziani, il Duce ordina: "Non faccia – dico: non faccia – impiego di mezzi chimici sino a nuovo ordine". Pochi giorni dopo, il 17 aprile, un nuovo telegramma ordina: "Visto che gli abissini continuano a impiegare le pallottole dum-dum – autorizzo V.E. – se lo ritiene necessario – all’impiego dei gas a titolo di rappresaglia – esclusa l’iprite". Per inciso è da notare che il Duce usava il Lei che, in teoria, il regime aveva abolito.
Gli episodi sopra indicati (che poi non erano tali, ma la norma), non erano “propaganda fascista”, ciò è dimostrato dal fatto che vennero denunciati anche dai Governi pre-fascisti, in occasione delle disastrose spedizioni effettuate in quel periodo e in quelle località. In merito a quegli avvenimenti accaduti alla fine del XIX secolo, il Del Boca. sostenitore dell’uso dei gas, attesta: "E se la prima guerra d’Africa fu condotta in maniera cavalleresca, quella intrapresa dal fascismo fu invece di sterminio (!) e di sopraffazione". Non so se queste dichiarazioni possono essere tacciate di impudenza o di cos’altro; infatti evirare i prigionieri e sotterrarli vivi (notizie di fonte inglese) era una “maniera cavalleresca” di condurre la guerra. Altra testimonianza interessante è quella dello storico scozzese Denis M. Smith, non certo sospettoto di nutrire simpatie per il regime mussoliniano, esprime uguali perplessità; nella sua biografia su “Mussolini” riconosce che: "L’impiego dei gas è forse un fatto meno rilevante dei grandi sforzi prodigati per celarlo (...) contrastava con la missione civilizzatrice (...) e la vittoria con atrocità illegali avrebbe danneggiato il prestigio fascista".
Anni fa prima di compilare un articolo su questo argomento, contattai il generale Angelo Bastiani, presidente del gruppo Medaglie d’Oro, recentemente scomparso. Alla mia domanda, sdegnato mi rispose: "E’ una vigliaccata, rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci avrebbero almeno dato le maschere antigas. Alla battaglia conclusiva di Maiceo, al lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus; perché lui che ne avrebbe avuto tutto l’interesse mai disse che lo combattemmo coi gas?".
Giro le domande al signor Massimo Fini che ne sa più di me: 1) perché nessun milite italiano fu mai fornito di maschere antigas? 2) Perché il Negus, benché fosse di casa alla Società delle Nazioni, mai denunciò l’uso di ‘armi illegali’ da parte degli italiani?
Altro argomento interessante proposto dal signor Massimo Fini: le ignobili leggi razziali.
Per dimostrare quanto fosse malato di xenofobia il fascismo, ricordiamo che nella 179° riunione del Gran Consiglio del Fascismo, tenutasi il 26 ottobre 1936, venne approvata una mozione che stabilisce “che le quattro province della Libia entrano a far parte del territorio nazionale”. Questo provvedimento non fu che l’estensione del R. D. 8 aprile 1937 XV n° 431, nel quale l’articolo 4 riconosce: "una cittadinanza italiana speciale per i nativi mussulmani delle quattro province libiche che fanno parte integrante del Regno d’Italia". Un decreto veramente rivoluzionario: mai nulla di simile era stato realizzato da alcun paese coloniale, dove i nativi venivano sfruttati come schiavi e le loro terre depredate di tutti i beni. L’Italia fascista concesse loro, invece, la parità di diritti come un qualsiasi altro italiano. (I libici furono definiti Italiani della Quarta Sponda).
Passiamo alle Leggi razziali. Winston Churchill (La Seconda Guerra Mondiale, Vol. 2°, pag. 209: "Adesso che la politica inglese aveva forzato Mussolini a schierarsi dall’altra parte, la Germania non era più sola". Renzo De Felice osserva: "Una volta che Musolini fu gettato nelle braccia della Germania di Hitler, era impensabile che anche l’Italia non avesse le sue leggi razziali". Chi scrive queste note è convinto assertore che, se sono esistite le camere a gas, solo l’Italia fascista salvò migliaia di ebrei. In proposito – dato che ho abusato troppo dello spazio – citerò solo una osservazione dello storico ebreo Léon Poliakov (Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, pagg. 219-220): "Mentre, in generale, i governi filofascisti dell’Europa asservita non opponeva che fiacca resistenza all’attuazione di una rete sistematica di deportazioni, i capi del fascismo italiani manifestarono in questo campo un atteggiamento ben diverso. Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico (…)".
"L’errore fatale" ha scritto Massimo Fini "Entrare in guerra impreparati". Allora. Mussolini ha voluto la guerra? Rubo le parole di Totò e dico: "Ma fatemi il piacere!". La guerra l’hanno voluta, preparata e ottenuta i Paesi democratici, così come aveva profetizzato Bernard Shaw nel corso di un’intervista concessa al Manchester Guardian nel 1937. Bernard Shaw disse: "Le cose da Mussolini già fatte lo condurranno prima o poi ad un serio conflitto con il capitalismo".
Dato che non posso pretendere altro spazio, presento solo pochi altri argomenti. Ancora una volta cito un pensiero dello storico Rutilio Sermonti, perché in poche parole esprime quel che realmente si verificò in quegli anni (L’Italia nel XX Secolo): "La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo, quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia".
E i fatti e documenti (solo questi parlano, signor Massimo Fini, non le chiacchiere!). Ecco cosa disse l’ex ambasciatore Pietro Gerbore a Piero Buscaroli nell’aprile 1973 nel corso di un’intervista: "C’è un documento unico. Di rado nella storia della diplomazia, una decisione come quella del 10 giugno 1940 è illuminata da un retroscena altrettanto minuzioso e coerente. Non è sconosciuto, i pochi intenditori lo chiamano dal nome del suo autore: IL RAPPORTO PIETROMARCHI". Ci credo che sia poco conosciuto e trascurato, perché Luca Pietromarchi, Capo dell’Ufficio Guerra Economica, presentò il suo primo Rapporto a Mussolini l’11 maggio 1940 (un secondo fu presentato l’8 giugno seguente). Con questi Rapporti Luca Pietromarchi illustrava come la marina anglo-francese abbia effettuato 1340 casi di abbordaggio e di sequestro di nostri bastimenti e navi di linea violando ogni legge internazionale. Da questi documenti, che provengono dall’Archivio del Ministero degli Esteri, si evince al di là di ogni ragionevole dubbio, quali mezzi di provocazione siano stati messi in atto da chi volle effettivamente un generale conflitto europeo.
Prima di concludere, desidero ricordare che Mussolini, il 31 marzo 1940, preparò un piano strategico che sottopose prima a Vittorio Emanuele III e, quindi, al Capo di Stato Maggiore Pietro Badoglio e ai più alti gradi militari. Nel memoriale (conosciuto col nome di Promemoria 328) il Duce motivava la necessità del nostro intervento militare; fra l’altro ammoniva: "Non possono esserci ulteriori indugi, perché altrimenti noi corriamo dei pericoli maggiori di quelli che sarebbero potuti essere provocati da un intervento prematuro (…)". Sia il Re che i Capi militari (tutti) trovarono il Promemoria 328 di “una logica geometrica”. Quindi analizzava: "Credere che l’Italia possa rimanere estranea fino alla fine è assurdo e impossibile. L’Italia non è accantonata in un angolo dell’Europa come la Spagna, non è semi- asiatica come la Russia, non è lontana dai teatri d’operazione come il Giappone e gli Stati Uniti, l’Italia è in mezzo ai belligeranti tanto in terra quanto in mare. Anche se l’Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra con la Germania. Guerra che l’Italia dovrebbe sostenere da sola (…)". Un’altra osservazione Mussolini ha omesso: i tedeschi non hanno dimenticato lo scherzetto che l’Italia riservò loro nel maggio 1915, quando pur essendo loro alleata, tradì l’alleanza e fece loro guerra.
Ora analizziamo la situazione geografica-militare-politica a metà 1940: la Germania era padrona della quasi totalità dell’Europa, con un esercito potentissimo che si affacciava al Brennero. La Russia alleata di Hitler, Roosevelt garantiva gli americani (truffaldinamente) che “non un americano morirà per le guerre europee”, gli eserciti franco-inglesi erano in rotta, tallonati da quello tedesco. In questa situazione Mussolini si trovò di fronte a tre e solo tre alternative: neutralità (ma Hitler aveva già invaso Belgio, Danmarca, Olanda ecc, Paesi neutrali), guerra alla Germania (una pazzia!), guerra a fianco della Germania; oltretutto, come ebbe a dire Churchill in quel periodo “nessuno avrebbe scommesso un penny sulla possibilità di resistenza della Gran Bretagna. Vorrei avere un parere da Massimo Fini: quale di queste tre soluzioni avrebbe suggerito a Mussolini?
Termino citando un giudizio del più grande giornalista e storico Svizzero Paul Gentizon: “Tutto ciò che ha fatto il Fascismo è consegnato alla Storia. Ma se c’è un nome che, in tutto questo dramma, resterà puro e immacolato, sarà quello di Mussolini (…)” (Les Mois Suisse, maggio 1945).
Sarà la Storia, non i vari Massimo Fini, a dare il giudizio definitivo!
La mafia trilaterale
Commissione Trilaterale, Mario Monti e il genere umano
di Lorenzo Roberto Quaglia - 14/09/2012Fonte: reset-italia
La politica estera degli Stati Uniti d’America dal secondo dopoguerra ha avuto come cardine principale la ricostruzione dell’Europa (inizialmente solo quella Occidentale) e del Giappone attribuendo loro il ruolo di futuri partners commerciali e baluardo contro l’espansione del “comunismo”. Proprio con il fine di ricostruire queste aree gli Stati Uniti hanno visto favorevolmente (hanno permesso) la formazione di organizzazioni regionali come la Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio, l’Associazione Europea di Libero Scambio, il Mercato Comune Europeo per arrivare sino alla nascita dell’Unione Europea.
A metà degli anni sessanta divenne evidente che i settori più dinamici e “lungimiranti” del capitalismo statunitense, europeo occidentale e giapponese erano sempre più intrecciati tra di loro ed avevano sempre più una connotazione internazionale. Il vecchio sogno dei capitalisti di una comunità mondiale del capitale sembrava prossimo a realizzarsi, almeno per una piccola comunità di banche e di imprese transnazionali.
Questa dinamica, questa tendenza, venne infatti subito notata dai banchieri d’affari statunitensi e mondiali, primo tra tutti David Rockefeller. Rockefeller sostenne in quegli anni che gli interessi del genere umano vengono meglio serviti in termini economici laddove le forze del mercato libero hanno la possibilità di trascendere i confini nazionali. Furono i fautori di questa politica economica aperta, internazionale, a condurre il gioco negli Stati Uniti. Per esempio dal 1947 al 1967 sei consecutivi negoziati GATT abbassarono le tariffe sull’import USA in Europa e Giappone. Certo gli Stati Uniti sono sempre stati divisi tra un’anima internazionalista ed una protezionista che guardava più al mercato interno e chiedeva all’Amministrazione di turno l’applicazione di dazi sulle esportazioni dell’Europa e del Giappone verso gli USA. Negli anni 60 il mercato interno USA cresceva e dunque gli internazionalisti avevano la meglio, ma ad un certo punto qualcosa si ruppe. All’inizio degli anni 70 ci fu la prima crisi economica mondiale del dopoguerra. Nell’agosto del 1971 il presidente Nixon varò la Nuova Politica Economica. Il mondo finanziario così com’era stato sino ad allora, non fu più lo stesso. Nixon cancellò con un colpo di spugna gli accordi di Bretton Woods del 1944 proclamando la NON convertibilità in oro del dollaro. Questa misura voleva svalutare la moneta statunitense e favorire di conseguenza le esportazioni USA nei mercati europei e giapponesi che negli anni sessanta erano molto cresciuti. Inoltre vennero applicati dazi unilaterali sulle importazioni negli Stati Uniti, violando quelli che erano gli accordi GATT appena conclusi. Se questa politica era sostenuta dal versante protezionista dei capitalisti americani, era vista come il fumo negli occhi dagli internazionalisti che ritenevano che questa politica danneggiasse in ultima analisi il Paese. In effetti le divisioni tra le nazioni capitalistiche industriali costituivano una minaccia per quei player multinazionali (finanziari, società commerciali, banche) i cui interessi erano strettamente connessi al libero scambio e ai liberi investimenti con meccanismi flessibili di circolazione della moneta.
Fu per “sostenere” queste idee che nel 1973 David Rockefeller, con alcuni “amici”, creò un’organizzazione che doveva servire a salvaguardare gli interessi sovranazionali: la Commissione Trilaterale. Il prossimo anno questo organismo, che esiste tutt’ora, compirà quarant’anni. I membri e i consiglieri più stretti che hanno fatto parte della Commissione a partire dalla sua fondazione (luglio 1973) fino ad oggi comprendono i rappresentati di banche, società multinazionali, società di informazione e organizzazioni internazionali. E’ possibile collegarsi al sito istituzionale della Commissione (http://www.trilateral.org/) per farsi un’idea dell’attività che porta avanti questa organizzazione e delle persone che attualmente ne fanno parte. Ad oggi gli italiani presenti risultano 18, tra cui John Elkann, Presidente di Fiat spa, Maurizio Sella, Presidente del Gruppo Banca Sella, Marco Tronchetti Provera, Franco Venturini, editorialista del Corriere della Sera, Enrico Letta, deputato e Vice Presidente del Partito Democratico , solo per citarne alcuni. Il 16 novembre 2011 Mario Monti si dimise dalla Commissione dopo essere stato scelto dal Presidente Napolitano quale successore di Berlusconi alla guida del Governo italiano.
Nel luglio 2013 la Commissione Trilaterale festeggerà i suoi primi quarant’anni di vita e di azione ai massimi livelli del potere finanziario, economico e politico internazionale. E per come sono andate le cose sino ad ora, sembra proprio che l’azione svolta sia stata efficace. L’interconnessione del mondo contemporaneo, in tutti i settori, è forse andata oltre l’immaginazione dei primi membri della Trilaterale. Ma gli interessi del genere umano, come li definiva Rockefeller, oggi, sono tutelati più e meglio di quarant’anni fa?
Vola l'economia della morte
Vola l'economia della morte
di Manlio Dinucci - 14/09/2012Fonte: Il Manifesto
Oltre 50 milioni di persone, tra cui 17 milioni di bambini, in condizione di «insicurezza alimentare», ossia senza abbastanza cibo «per mancanza di denaro e altre risorse». I dati si riferiscono non a un paese povero dell'Africa subsahariana, ma al paese con la maggiore economia del mondo: gli Stati uniti d'America. Lo documenta il Dipartimento Usa dell'agricoltura nel settembre 2012. Durante l'amministrazione Bush (2001-2008), i cittadini statunitensi senza cibo adeguato, costretti per sopravvivere a ricorrere ai food stamps (buoni cibo) e alle organizzazioni caritatevoli, sono aumentati da 33 a 49 milioni. Durante l'amministrazione Obama sono saliti a oltre 50 milioni, equivalenti al 16,4% della popolazione, rispetto al 12,2% nel 2001. Tra questi, circa 17 milioni sono in condizione di «bassissima sicurezza alimentare», in altre parole alla fame. Hanno però la soddisfazione di vivere in un paese la cui «sicurezza» è garantita da una spesa militare che - documenta il Sipri - è raddoppiata durante l'amministrazione Bush e, durante quella Obama, è salita dai 621 miliardi di dollari del 2008 a oltre 711 nel 2011. Al netto dell'inflazione (al valore costante del dollaro 2010), è cresciuta dell'80% dal 2001 al 2011. La spesa militare Usa, equivalente al 41% di quella mondiale, è in realtà più alta: comprese altre voci di carattere militare (tra cui 125 miliardi annui per i militari a riposo), ammonta a circa la metà di quella mondiale. In tal modo - si sottolinea nel Budget 2012 - il Pentagono può mantenere «forze militari pronte a concentrarsi sia nelle guerre attuali, sia nei potenziali futuri conflitti». E, allo stesso tempo, può «investire in innovazione scientifica e tecnologica a lungo termine per assicurare che la Nazione abbia accesso ai migliori sistemi di difesa disponibili al mondo». A tal fine 100 miliardi di previsti risparmi vengono «reinvestiti in settori ad alta priorità», a partire dai droni: i velivoli senza pilota che, telecomandati a oltre 10mila km di distanza, colpiscono gli obiettivi con i loro missili. Qui la realtà supera la fantascienza hollywoodiana. La Lockheed Martin sta sviluppando un nuovo drone per le forze speciali: per accrescerne l'autonomia, da terra viene usato un raggio laser che lo alimenta mentre è in volo. La Northrop Grumman è impegnata in un progetto ancora più avanzato: quello di droni che, alimentati da energia nucleare, restano in volo ininterrottamente non per giorni ma per mesi. Sempre la Northrop Grumman sta sviluppando un velivolo robotico per portaerei, lo X-47B, in grado, grazie alla memoria programmata, di decollare, effettuare la missione e atterrare autonomamente. Dati gli enormi costi di questi programmi, il Pentagono ha già redatto una lista di affidabili paesi alleati a cui vendere i nuovi droni per la guerra robotizzata. Sicuramente ai primi posti c'è l'Italia, che ha già acquistato dalla statunitense General Atomics l'ultimo modello di drone, il velivolo MQ-9A Predator B. In futuro acquisterà anche il drone nucleare che, decollando sulla testa dei 50 milioni di cittadini Usa in condizione di «insicurezza alimentare», volteggerà su quella dei disoccupati italiani che occupano le fabbriche in via di chiusura.