sabato 31 agosto 2013

Un modello sociale elitario e neoschiavista

Ho letto con grande attenzione il saggio Figli di Troika scritto dall’economista Bruno Amoroso (clicca per leggere). Un racconto breve ma intenso che, intelligentemente, offre ai lettori una chiave una di lettura diversa rispetto ai soliti ritornelli dominanti. Siamo sicuri di poter affermare che le politiche del rigore hanno fallito? E se avessero invece trionfato consentendo in maniera dissimulata il ritorno in Occidente di un modello sociale elitario e fondamentalmente neoschiavista? In esclusiva per Il Moralista l’analisi del prof. Amoroso
Prof. Amoroso, in molti cominciano a criticare la politiche improntate ad una cieca austerity sul presupposto che alle prova dei fatti tali scelte si sarebbero rivelate sbagliate. E’ d’accordo?
E’ fuorviante parlare di sbagli tecnici o politici alla base della crisi in atto che continua a flagellare l’Europa, specie quella del sud. L’adozione di una serie provvedimenti legislativi, tutti chiaramente destinati ad alimentare una spirale recessiva, denota al contrario una coerenza di visione perseguita da alcuni gruppi di potere che finiscono con l’avvantaggiarsene. Nessun errore. Al contrario, le politiche “della responsabilità” stanno ottenendo proprio i risultati che intendevano realizzare.
E quali dissimulate intenzioni nascondono in realtà alcune linee di indirizzo politico imposte su scala continentale?
Fino agli anni ’60 vigeva incontrastato un modello paradigmatico sintetizzabile nell’assunto “produzione di massa per consumo di massa”. All’interno di quello schema, la legittima ricerca del profitto non cozzava con l’aspirazione di costruire una società inclusiva e per quanto possibile equa. Questo modello di sviluppo trovava compimento all’interno di una cornice che era rappresentata dai singoli stati nazionali. La globalizzazione ha cancellato quel vecchio mondo. Oggi le istituzioni sovranazionali sovrastano gli Stati nazionali, e i consumi sono diventati esclusivo appannaggio delle classi medio alte. Gli altri, se ci riescono, si arrangino. E’ questa la nuova filosofia dominante.
Quindi il neoliberismo non ha fallito
Proprio per nulla. Il neoliberismo sta realizzando quello che tutti si aspettavano che realizzasse. Non c’è nulla di casuale in quello che accade. La globalizzazione è in buona sostanza una forma di apartheid sociale.
Da cosa desume con certezza la circostanza che la povertà dilagante non sia il risultato di politiche inefficaci prese in buona fede quanto il risultato di un lucido disegno stabilito ex ante?
Senta, le faccio un ragionamento semplice semplice. A detta di tutti la famosa crisi tuttora in atto parte nel 2008 con il fallimento di alcuni colossi americani. Una crisi figlia di una architettura giuridica e istituzionale che sta producendo a cascata danni su scala planetaria. Se i governanti fossero stati in buona fede, cosa avrebbero dovuto fare per impedire il ripetersi di una simile sciagura? Avrebbero dovuto approvare regole nuove e diverse. Siamo d’accordo? E invece cosa hanno fatto? Nulla. Zero. Il financial board, che doveva riformare la finanza mondiale, non serve a niente mentre  a nessuno è venuto in mente di tornare allo spirito dello Steagall Act di rooseveltiana memoria. Non solo nessuno ha fatto nulla ma, ne sono certo, c’è perfino chi manovra nell’ombra al fine di preparare  le condizioni per permettere il rapido esplodere di un nuovo collasso bancario da “tamponare” mettendo le mani sui risparmi dei cittadini. In Italia solo il Movimento 5 Stelle ha avanzato una proposta di buon senso presentando un progetto di legge tendente a separare le banche speculative da quelle dedite alla gestione del risparmio. Per il resto buio assoluto.
Lei nel suo libro accenna ad una non meglio precisata “finanza incappucciata”. Sono loro, i fratelli, quelli che manovrano la giostra?
Magari erano incappucciati una volta. Ora non lo sono più. Agiscono in maniera sfacciata. Un tempo se ne stavano prevalentemente all’interno dei cosiddetti organismi di controllo, Istat, Banca d’Italia e via discorrendo. Oggi fanno direttamente i ministri. Ma cosa controllerà mai Banca d’Italia che esprime Saccomanni ministro dell’Economia? Lo stesso discorso potrebbe farsi per l’Istat. Tutte queste figure operano alla luce del sole e il sole che oggi in Europa fa più luce di tutti si chiama Mario Draghi. Queste cose non le vede solo chi non vuole vedere o, più spesso, chi non ne ha interesse. La fine dei partiti storici ha accelerato questa deriva. I due veri poteri forti rimasti oggi in circolazione si chiamano finanza e industria della guerra. Giulio Sapelli, a tal proposito, ha scritto pagine illuminanti.
In tutto questo continua ad aleggiare un mistero. Perché la sinistra, storicamente nata con il compito di tutelare i più deboli, continua a prestare il fianco ad una operazione geopolitica sostanzialmente iniqua ed elitaria?
Perché è cambiato il rapporto tra politica e potere. Un tempo le forze progressiste difendevano per costituzione la classi povere cercando uno sponda tattica fra i ceti medi e medio bassi. Stavano insomma dalla parte degli “sfruttati della terra”. La sinistra di oggi invece che fa? Galleggia pensando di rappresentare gli interessi di alcune specifiche categorie sempre sotto l’ombrello protettivo dei soliti potentati finanziari. Anzi, oramai esprimono una classe dirigente che proviene direttamente da quei mondi: penso a Profumo, a Passera e allo stesso Barca. Credono di poter conservare ancora a lungo una posizione di rendita rappresentando una parte di ceto medio destinato nel tempo a scomparire. Si illudono.
Ma come è stato possibile pervenire ad una realtà tanto sottile quanto antidemocratica?
Dal dopoguerra in avanti  le cose andarono bene. Esistevano anche allora cicliche crisi dalle quali però il sistema usciva nel suo insieme sempre più solido e rafforzato. Tutto cambiò nel 1971, quando vennero poste le basi per il successivo scioglimento di tutte le grandi imprese. Lo studio del club di Roma del 1969 costituisce il primo serio tentativo di cambiare un paradigma culturale inclusivo fino ad allora universalmente riconosciuto. Il progressivo affermarsi della retorica sulla “competitività” ha determinato il progressivo svuotamento del welfare. Cominciarono a circolare domande del tipo: “Ma perché anche chi non lavora deve avere diritto ad un trattamento decoroso?” Rispolverare ora la vecchia contrapposizione tra capitale e lavoro non ha più alcun senso. Oggi abbiamo da una parte un capitalismo finanziario spesso parassitario che si limita a monetizzare una supremazia nel campo dei saperi attraverso ad esempio lo sfruttamento dei brevetti; dall’altra una massa di nazioni da tenere in condizioni di sottosviluppo per impedire che imparino a fare concorrenza al più ricco Occidente. Lo stesso schema si ripete poi su scala interna. La produzione è funzionale al consumo delle sole classi alte, mentre i salariati e  i piccoli imprenditori, già ridotti all’osso, vengono indotti a riscoprire nuove forme di sussistenza sulla scia di un disperato bisogno.  Sono i risparmi, non più il solo salario, che rappresentano il prossimo boccone prelibato da spolpare. Il caso Cipro equivale al classico esperimento propedeutico ad una azione su larga scala. Non per niente la direttiva Barnier introduce in tutta Europa il principio secondo il quale le eventuali future crisi bancarie verranno pagate direttamente attingendo al denaro depositato dai correntisti. Questo tipo di rapina verrà presto legittimato dalle norme. Naturalmente al riparo del più assordante silenzio dei principali organi di informazione.
L’europeismo non va più molto di moda…
L’Europa nacque come antidoto per impedire guerre ricorrenti. Oggi è un caso politico prima che economico. L’euro fu voluto dalla Francia convintasi così facendo di poter controllare i tedeschi. Il sistema economico europeo funzionava molto meglio prima dell’introduzione della moneta unica. Tutti gli economisti più seri, già allora, dissero che l’euro non poteva funzionare. Infatti ha fatto danni e altri ne farà. Bisogna tornare allo status quo ante, cioè al serpente monetario europeo che prevedeva dei tassi di cambio negoziati con opportune fasce di oscillazione. Si può tornare indietro senza minacciare strappi unilaterali ma, più ragionevolmente, proponendo a tutti i Paesi dell’area euro una exit strategy armoniosa e coordinata. E’ una strada percorribile che non determinerebbe nessuno scenario apocalittico, con buona pace dei soliti profeti di sventura che negli ultimi anni non hanno azzeccato mai una previsione. I paesi dell’Europa del sud, Italia compresa, sono letteralmente al collasso, devono necessariamente fare massa critica per uscire dalle sabbie mobili nelle quali sono finite. Ma se il nord Europa dovesse continuare a fare orecchie da mercante, a quel punto bisognerebbe minacciare la fine del mercato unico europeo. La Germania, che esporta nel sud d’Europa il 75% delle sue merci, subirebbe un contraccolpo non indifferente.
Ma lei avverte uno spirito solidaristico tra i governanti delle diverse nazioni che compongono l’area euro?
Niente affatto. Ricordo con raccapriccio quando, peggiorando la crisi greca, alcuni politicanti italiani facevano a gara nel precisare che “l’Italia non è la Grecia”. Una vergogna assoluta. I problemi dei Paesi dell’area mediterranea sono i nostri problemi. Ma  molti pusillanimi preferiscono non vedere.
E se invece di tornare indietro andassimo avanti, puntando cioè alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa?
Non credo si tratti di una strada percorribile. L’Unione Europea è composta da 28 paesi ma solo in 17 condividono la stessa moneta. La nascita dell’ Europa politica dovrebbe con ogni probabilità riguardare solo gli Stati della zona euro. E gli altri Stati, come ad esempio l’Inghilterra o la Danimarca, cosa farebbero di fronte ad una accelerazione in tal senso? E’ plausibile ritenere che tenderebbero ad allontanarsi ulteriormente approfondendo così la divisione già introdotta con l’euro. Non vorrei poi che le pulsioni belliche manifestate dalla Francia e dalla Gran Bretagna diventassero “patrimonio comune” di una futuribile Europa politica. Si tratta di un rischio concreto e inquietante.
In conclusione, cosa propone di fare per uscire dal pantano?
Innanzitutto chiarire i rapporti tra nord e sud Europa. Dieci paesi europei dimostrano che si può stare in Europa anche senza moneta unica. I diciassette paesi che compongono l’area euro devono rinegoziare i loro equilibri interni. In Europa circolano già oggi undici valute. Non morirà nessuno nel caso in cui diventassero dodici. L’euro così come è oggi rappresenta obiettivamente un grande problema.
E l’Italia?
Il dibattito politico italiano è assolutamente insufficiente. Il Movimento 5 Stelle, pur con qualche ingenuità, è permeabile al dibattito esterno. Per il Pdl e il Pd alcuni argomenti sono tabù. Nel Pdl o nel Pd mai nessuno potrebbe avere l’ardire di presentare un disegno di legge come quello presentato dal senatore pentastellato Vacciano che intende tornare allo spirito dello Steagall Act. Le classi dirigenti dei partiti tradizionali fiancheggiano il sistema di potere finanziario globale perché così facendo difendono se stesse. Molti di loro provengono da quel mondo e lì ritorneranno una volta finito il lavoro all’interno dei partiti. Sono parte del problema. Cosa vuole che risolvano?
Francesco Maria Toscano
29/08/2013

Primo passo: ritorno alle monete nazionali

Lordon: la moneta salva-Europa che la sinistra non vuole




La sinistra europea è direttamente responsabile del crimine contro la democrazia chiamato Eurozona, organizzato per conto delle élite che avevano un unico obiettivo: far sparire la sovranità popolare dal vecchio continente, precipitandolo in una crisi inaudita, in cui il lavoro scarseggia e i diritti diventano un lontano ricordo. E’ la conclusione cui perviene l’economista francese Frédéric Lordon, che indica una via d’uscita possibile: al posto dell’attuale “moneta unica”, per superare la crisi servirebbe una “moneta comune” europea, governata in modo sovrano dalle banche centrali nazionali e non convertibile all’esterno se non attraverso «una nuova Bce», che non avrebbe più potere in materia di politicamonetaria, ma fungerebbe solo da “ufficio cambi” per le transazioni internazionali tra le nuove “euro-monete” e le altre valute mondiali, come il dollaro.
«Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l’euro verrà modificato, che passeremo dall’attuale euro austeritario a un euro Frédéric Lordonfinalmente rinnovato, progressista e sociale: questo non succederà», avverte Lordon in un intervento pubblicato dal “Manifesto” e da “Libération” e ripreso da “Megachip”. «Basta pensare all’assenza di qualsiasi leva politica nell’attuale immobilismo dell’unione monetaria europea per farsene una prima ragione. Ma questa impossibilità – continua Lordon – poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo». Premessa maggiore: «L’attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee». Premessa minore: «Qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell’euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell’elaborazione delle politiche pubbliche». E’ ingenuo, quindi, aspettarsi che i “padroni dell’universo” lascerebbero fare.
«I mercati – chiarisce l’economista – non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare». E appena un progetto di smantellamento dell’euro cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, «si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa». Il solo esito possibile, a caldo, «sarebbe il ritorno alle monete nazionali», cioè lo scenario più avversario da «quella sinistra “che ancora ci crede”», come il partito socialista francese, «che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale». Idem per «la massa indifferenziata degli europeisti che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi». Nessuna soluzione sul tappeto, perché «un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d’occhio». In altre parole: dall’attuale sinistra europea è inutile Hollandeaspettarsi qualcosa di utile.
In verità, aggiunge Lordon, «le scarne idee a cui l’europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di Stato europei (o Eurobond), “governo economico”, o ancora meglio il “balzo in avanti democratico” di François Hollande», formule di carta che possono al massimo suscitare l’ilarità di Angela Merkel. La sinistra annaspa tra «soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente». Ma attenzione, non è detto che Hollande e compagni siano solo tonti, e quindi innocenti: è possibile che siano, più che altro, complici diretti dell’ingegneria del disastro. «Può darsi che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere: ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazionepolitica». Cosa c’era da sottrarre, esattamente? «Né più né meno che la sovranità popolare». Sicché, «la sinistra di destra, diventata come per caso europeista forsennata, si riconosce, tra l’altro, per come le si drizzano i capelli in testa quando sente la parola sovranità, immediatamente ridotta a “ismo”: sovranismo».
La cosa strana, aggiunge Lordon, è che a questa “sinistra di destra” «non viene in mente neanche per un attimo che “sovranità”, intesa innanzitutto come sovranità del popolo, è semplicemente un altro termine per indicare lademocrazia stessa». E’ come una sorta di “confessione involontaria”: «Il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa», anche se la retorica di partito fabbrica spauracchi come l’espressione “ripiegamento nazionale”, temendo il 25% del Front National, senza peraltro domandarsi da dove venga il successo di Marine Le Pen. Una percentuale che «ha molto a che fare con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino». Finiamola con l’ipocrisia, insiste Lordon: la sinistra, massima sostenitrice dei trattati-capestro europei, da Maastricht in poi, ha finto di ignorare «lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia», cioè la possibilità di rivedere sempre gli accordi presi. In Europa, invece, «si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in trattati inamovibili». Politicamonetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento Marine Le Penpubblico, forme di finanziamento del deficit: «Tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo».
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest’ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato (“pareggio di bilancio”) ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? E ancora: come decidere se ripudiare un debito, quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali? «Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande – anzi, con l’approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale – le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema», col granitico appoggio della “sinistra di destra” inaugurata da Mitterrand e incarnata oggi da Hollande. «Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l’idea di “governo economico” dell’Eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c’è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in quei trattati».
Anche immaginando – in via del tutto ipotetica – un’Europa finalmente libera, civile e democratica, ovvero «unademocrazia federale in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale e dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale» e non certo “nominato” com’è oggi la Commissione Europea, la domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano di “cambiare l’Europa per superare la crisi” sarebbe la seguente: «Riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?». Ridicolo il solo pensarlo. Sarebbe come aspettarsi l’applauso dei francesi se «la maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della sicurezza sociale». A proposito: «Chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all’Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l’ordine monetario, e se, come quest’ultima, ne avesse fatto unaMitterrandcondizione imprescindibile».
Bisognerà dunque che gli architetti di questo disastroso europeismo si accorgano che «non c’èdemocrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza». Se la democrazia è “la legge della maggioranza”, aggiunge Lordon, «questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari – o gli economisti – sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l’essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale – continua l’economista – ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il “balzo in avanti democratico” si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale».
Primo passo, dunque: il ritorno alle monete nazionali, per ripristinare sovranità democratica, potere di spesa e quindi strumenti finanziari anti-crisi. Soluzione «tecnicamente praticabile», secondo Lordon: «Basta che sia accompagnata da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali) e saremo in grado di non abbandonare completamente l’idea di fare qualcosa in Europa». Non una “moneta unica”, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Fattibile, invece, una “moneta comune”, ossia «un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc». Immaginiamo questo nuovo contesto, in cui le denominazioni nazionali dell’euro non siano direttamente convertibili verso l’esterno (in dollari, yuan) né tra loro. «Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca Centrale Europea, che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politicamonetaria. Quest’ultimo è Draghirestituito alle banche centrali nazionali, e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno».
La convertibilità esterna, riservata all’euro, si effettuerebbe sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la Bce, cioè il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. «Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico: ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all’epoca del Sistema Monetario Europeo, e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei per l’intermediario del nuovo euro». Proprio questa doppia caratteristica, secondo Lordon, sarebbe «la forza della moneta comune», restituita ai governi in modo da consentire loro di far fronte al disastro della recessione provocata proprio dalla rigida deflazione imposta dall’attuale euro-rigore.

giovedì 29 agosto 2013

Il Bilderberg 2012 decide le sorti della Siria

Il Bilderberg 2012 decide le sorti della Siria e del mondo (articolo del Guardian)

Decisamente MOLTO INTERESSANTE che Bassma Kodmani, co-fondatrice e dirigente del Syrian National Council sia andata al Bilderberg 2012 dopo essere stata presente anche al Bilderberg 2008.
Il Guardian intervista lo storico Webster G. Tarpley e questo è il suo commento: “è un’agente della NATO, una destabilizzatrice, una pasionaria delle rivoluzioni colorate. Il fatto che Kodmani fosse lì è molto allarmante per la Siria“.
Bassma Kodmani, capo degli affari esteri del Consiglio Transitorio Nazionale della Siria, uno dei gruppi avversi al governo di Damasco, è presente alla riunione del Gruppo Bilderberg che termina lunedì 4 giugno, nello Stato americano della Virginia.
La Kodmani è una strenua sostenitrice dell’intervento militare Nato nel suo Paese per destituire Assad; al fine di perseguire in fretta questo scopo, lo scorso gennaio dichiarò l’esigenza di “una maggiore militarizzazione della resistenza locale o l’intervento straniero”.
La sua presenza alla riunione del gruppo, espressione dei potentati finanziari che influenzano le politiche internazionali, suggerisce l’intenzione occidentale di prendere seriamente in considerazione l’intervento militare in SiriaLo scorso anno, alla riunione del Gruppo Bilderberg tenutasi in Svizzera, si discusse della possibilità di far guerra alla Libia di Gheddafi. Dopo quattro mesi, il Raìs venne ucciso e il Paese nordafricano passò tra le mani della Nato, dei ribelli e del Consiglio Nazionale di Transizione della Libia.
Da registrare anche la presenza, intorno al tavolo del Gruppo Bilderberg quest’anno, del leader dell’opposizione russa Garry Kasparov.
http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8751:siria-leader-dellopposizione-presente-a-riunione-gruppo-bilderberg&catid=15:estere&Itemid=40

mercoledì 28 agosto 2013

Grillo: Non c’è più tempo. Elezioni subito

Grillo: «Non c’è più tempo. Elezioni subito, pronti a vincere»

M5s
Beppe Grillo, leader del M5S
Nel momento in cui il governo Letta sembra sbandare sotto i colpi dei falchi del Pdl, arriva anche l’ultimatum del leader del Movimento Cinque Stelle, Beppe Grillo. Secondo il comico il tempo di questo governo è scaduto e bisogna tornare immediatamente alle urne. Stavolta però secondo il suo leader, il M5S si presenterebbe alla tornata elettorale non più come outsider ma come favorito ad ottenere la maggioranza e il governo del paese. Per Grillo è l’ultimo possibilità che ha l’Italia, oltre c’è solo il baratro.
«Adesso non c’è più tempo. O vanno a casa loro, o va a casa il Paese. In mezzo non c’è nulla». Così recita l’ultimo post del suo blog intitolato “E’ finito il tempo delle mele”. Secondo il leader cinque stelle è finito il tempo della pacificazione tra i due principali partiti di governo e l’esecutivo a breve cesserà la sua breve corsa. Ad attendere questa disfatta c’è il Movimento e Grillo esorta i suoi: «Prepariamoci alle elezioni per vincerle. Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare». E’ una vera e propria chiamata alle armi quella che il genovese ha postato sul suo blog.
«Gli italiani trattati come servi. Questi vanno cacciati a calci nel culo. Ogni voto, un calcio in culo». Non c’è più margine per Grillo che non crede assolutamente che questo governo sia in grado di fare la riforma elettorale ed altre riforme costituzionali. «E’ necessario tornare immediatamente alle elezioni e poi, se governerà il M5S, cambiare in senso democratico la legge elettorale, farla approvare da un referendum e incardinarla in Costituzione. C’è forse qualche anima bella che crede di poterla cambiare con chi non ha mosso un dito in otto anni e che vorrebbe una Repubblica presidenziale con il Parlamento ridotto a uno stuoino?» accusa Grillo che si prepara ad un’altra campagna elettorale.

martedì 27 agosto 2013

GOLDMAN SACHS: IL CASO FABRICE TOURRE

LA FARSA DEL CASO FABRICE TOURRE


Trovo ridicolo, oltre che ipocrita il fatto che la stampa internazionale si stia accanendo contro il Fabrice Tourre, l’ex dipendente di Goldman Sachs, ritenuto uno degli artefici delle pratiche scorrette e ad alto rischio legate alleCollateral debt obligations (CDO), ossia complessi titoli obbligazionari garantiti spesso dai mutui subprime.
Si vuole a tutti i costi cercare un capro espiatorio di questa finanza internazionale perversa e criminale, finanza che di certo non è gestita da un trader sconosciuto e senza tante responsabilità.
Tutti i vertici delle principali banche d'affari internazionali andrebbero messi sotto processo ed arrestati per crimini contro l'umanità, dovuti alle crisi economiche che hanno generato, ma di fatto non ci sono colpevoli di alto rango.
E' inaccettabile che l'economia reale crolli a causa di strumenti finanziari deregolamentati e nessuno ne paghi le conseguenze, facendo si che finanza continui ad essere un crimine senza colpevoli.
Non troverete mai i manager di certe banche d'affari, quali Barclays, Citigroup, JP Morgan, Nomura, UBS finire in galera per reati di frode per il semplice fatto che si giungerà sempre ad un patteggiamento.
Proprio per fatti connessi al caso Tourre la Goldman Sachs, accusata difrode per aver creato e venduto prodotti collegati a mutui subprime (rilasciando informazioni inesatte e omettendo fatti chiave), stipulò nel 2010 un accordo non da poco, ossia pagare una multa da 550 milioni di dollari per chiudere il contenzioso, la cifra più elevata mai sborsata da una banca americana per chiudere un accordo extragiudiziale.
Tourre resta quindi il solo accusato del processo che si è aperto la scorsa settimana al tribunale di Manhattan, rischiando non di certo di finire in galera, ma semplicemente di dover pagare ingenti risarcimenti e di essere interdetto dal mondo della finanza.
Se quindi queste banche internazionali, che stampano denaro ex nihilo, possono patteggiare qualsiasi reato scoperto dalla S.E.C. (la Consob americana che dovrebbe vigilare sulla sull'operato degli istituti di credito) credo sia utopistico pensare di poter vedere colpevoli di alto rango finire in manette.

Salvatore Tamburro

Svizzera: trovato morto manager del gruppo Zurich

Svizzera: trovato morto Pierre Wauthier, manager del gruppo Zurich

Svizzera: trovato morto Pierre Wauthier, manager del gruppo Zurich
(ASCA) - Roma, 27 ago - Il direttore finanziario di Zurich Insurance Group, Pierre Wauthier, e' stato trovato morto stamattina nella sua abitazione di Zurigo, come ha comunicato il gruppo assiucurativo in una nota. Gli accertamenti della polizia svizzera sono in corso e per ora non sono state rese note le cause del decesso. L'amministratore delegato della compagnia assicurativa svizzera, Martin Senn, ha espresso, la propria ''tristezza'' per la scomparsa del manager. Wauthier, 53 anni, lavorava per Zurich Insurance dal 1996. Nel 2011 era stato promosso alla guida del ramo finanze di Zurich. Dopo la laurea in economia alla Sorbona aveva iniziato la sua carriera di manager nella compagnia assicurativa Kpmg. La Zurich ha comunicato contestualmente che la direzione ad interim del ramo finanze sara' affidata a Vibu Sharma, un manager del gruppo. Alla fine di luglio un altro manager, il capo di Swisscom Carsten Schloter, era stato trovato morto nella sua abitazione. red/lus

sabato 24 agosto 2013

Raghuram Rajan, ex del FMI, distrugge l'India


È GIÀ FINITO IL MIRACOLO INDIANO? LA RUPIA CROLLA (-17%), I CAPITALI FUGGONO E I TASSI DEI TITOLI DI STATO SONO A LIVELLI GRECI

Neanche l’arrivo alla banca centrale dell’ex enfant prodige dell’Fmi Raghuram Rajan ha rassicurato i mercati - Da fine maggio gli investitori stranieri hanno venduto titoli del debito pubblico indiano pari a 10 miliardi di dollari - Il governo di Manmohan SIngh non ha inciso e poi c’è l’enorme disavanzo commerciale (87,8 mld $)…

Giuliana Ferraino per il "Corriere della Sera"
Manmohan singhMANMOHAN SINGH
Adesso tocca all'India. La Borsa di Mumbai, dopo aver guadagnato circa il 25% in un anno, è tornata ai livelli dello scorso settembre, e continua a perdere terreno (l'indice Sensex ha chiuso l'ultima seduta di nuovo con il segno meno, in calo dell'1,7%).
La sua moneta, la rupia, nel frattempo si è svalutata di circa il 17% nei confronti del dollaro, e ieri ha toccato il minimo storico: un anno fa bastavano 51 rupie per comprare un dollaro, ieri ne servivano oltre 64. Il rendimento dei titoli decennali del Tesoro indiano è esploso al 9,48%, un livello che non si vedeva da prima del crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008, quasi quanto i bond decennali greci, che pagano un interesse del 9,92%.
JOHN KERRY MANMOHAN SINGHJOHN KERRY MANMOHAN SINGH
Nemmeno la nomina di Raghuram Rajan, ex capo economista del Fondo monetario internazionale e docente di finanza alla Business School dell'Università Chicago, per guidare la Reserve Bank of India, la banca centrale indiana, a partire dal 5 settembre, basta a tranquillizzare gli investitori.
li keqiang manmohan singhLI KEQIANG MANMOHAN SINGH
L'annuncio dei controlli di capitale introdotti il 14 agosto, per frenare la fuga già in atto, ha provocato l'effetto contrario, e adesso prevale il timore che l'India possa arrivare a congelare i fondi degli investitori stranieri. E hanno rassicurato poco le parole del ministro delle Finanze Palaniappan Chidambaram che non accadrà nulla di tutto questo. Da fine maggio gli investitori stranieri hanno venduto titoli del debito pubblico indiano pari a 10 miliardi di dollari e ora detengono soltanto il 43% dei 30 miliardi disponibili, secondo il tetto stabilito dal governo indiano.
Li Keqiang Manmohan SinghLI KEQIANG MANMOHAN SINGH
L'incertezza in attesa delle mosse della Banca centrale americana, che già da settembre potrebbe cominciare a ridurre il suo sostegno all'economia Usa, in questa fine estate senza troppi scossoni finanziari, guida un generale smobilizzo degli investitori dai Paesi emergenti. L'ondata di vendite colpisce tutti i mercati, in particolare quelli asiatici, ma è l'India che oggi paga il prezzo più alto perché, oltre al malessere globale, sconta problemi tutti suoi.
Crescita lenta (4,8% nel primo trimestre dell'anno) per gli standard delle economie emergenti, inflazione alta (9,9% a giugno) e un forte deficit delle partite correnti, che si verifica quando le importazioni di beni e servizi superano le esportazioni e include merci e capitali, ingessano il Paese da troppo tempo, ma in tempi di incertezza e forte nervosismo diventano una miscela esplosiva, che spaventa il capitali straniero, già diffidente nei confronti di un sistema dominato dalla corruzione, diffusa sia a livello politico che amministrativo.
In attesa delle elezioni, in calendario a maggio 2014, governo e Parlamento sono fermi. La debole coalizione di governo del primo ministro Manmohan Singh non riesce a realizzare quelle riforme essenziali per attrarre più capitali a lungo termine e a ridurre l'enorme disavanzo commerciale, che ha raggiunto il record di 87,8 miliardi di dollari nel primo trimestre di quest'anno, pari al 4,5% del suo prodotto interno lordo.
I PREMIER CINESE E INDIANO LI KEQIANG E MANMOHAN SINGHI PREMIER CINESE E INDIANO LI KEQIANG E MANMOHAN SINGH
Durante il secondo mandato del governo Singh, dal 2009 a oggi, il Parlamento è stato il meno produttivo in quasi trent'anni, secondo uno studio di Prs Legislative Research. E i pochi interventi non hanno sortito gli effetti sperati. A poco sono serviti, ad esempio, i tre rialzi consecutivi, nel corso del 2013, dei dazi (al 10%) sull'import dell'oro, per limitarne gli acquisti, visto che da solo il metallo giallo vale oltre 2 punti del deficit indiano nelle partite correnti.
I problemi dell'India sono lontani dall'essere risolti, perché New Delhi non ha fatto nulla. Non c'è volontà per migliorare la produttività, le infrastrutture o riportare nel Paese gli investimenti stranieri (Fdi), valuta l'analista di Nomura Pradeep Mohinani.
La caduta della rupia così è solo la spia di un malessere più generale di un Paese intero. Grandi aziende comprese. Jp Morgan ha declassato le azioni indiane, che includono giganti del calibro di Tata e Infosys, da «overweight» a «neutro», segnalando che questo non è il momento di aumentare le posizioni.
Secondo uno studio del Credit Suisse, pubblicato la settimana scorsa, le 10 maggiori aziende indiane più indebitate hanno raggiunto un debito lordo complessivo pari a 100 miliardi di dollari, a causa della crisi che coinvolge un po' tutti i settori, dalle costruzioni alle infrastrutture. E questo mette ulteriormente sotto pressione il sistema bancario.
Li Keqiang Manmohan SinghLI KEQIANG MANMOHAN SINGH
Tutto questo rende l'India, terza economia dell'Asia, vulnerabile. Anche se nessuno oggi vuole rievocare la grande crisi del 1991, quando l'India, disponendo di riserve appena sufficienti per coprire tre settimane di importazioni, fu costretta a impegnare il suo oro per pagare i conti con l'estero e dovette ricorrere ai prestiti del Fmi, che impose drastiche riforme per liberalizzare la sua economia.
Moody's nei giorni scorsi ha confermato l'outlook stabile al rating sovrano a «Baa3».
Raghuram RajanRAGHURAM RAJAN
E il capo economista della Banca mondiale, l'indiano Kaushik Basu, è intervenuto per dire che la situazione non è così brutta come sembra. «L'India non è nella stessa situazione della crisi del 1991. Il peggio è passato. Nel 1991 avevamo riserve estere sufficienti solo per 13 giorni, ora bastano per almeno sette mesi. Non c'è paragone, siamo molto più forti che nel 1991», ha affermato Basu, che è stato il principale consigliere del ministro delle Finanze indiano fino allo scorso settembre.
Ma se il crollo della rupia rischiasse di innescare nel Sudest asiatico una nuova crisi, che già pare toccare Indonesia e Thailandia? L'inflazione è salita all'8,6% il mese scorso, ha annunciato il governo di Jakarta, e la domanda di carbone, olio di palma e altri prodotti indonesiani continua a contrarsi, peggiorando il suo disavanzo commerciale, che è arrivato a quota 9,8 miliardi di dollari, pari al 4,4% del Pil. Cattive notizie arrivano anche da Bangkok: il Pil è diminuito dello 0,3% nel secondo trimestre rispetto a un anno fa, si tratta della seconda caduta consecutiva che fa entrare il Paese ufficialmente in recessione.

venerdì 23 agosto 2013

La resistenza all'euro

21 agosto 2013

http://goofynomics.blogspot.it/2013/08/la-resistenza-alleuro.html
(visto che dalle fogne del web stanno risbucando fuori quelli che "'a rata der mutuo"i terroristi da quattro soldi al mazzo incapaci non dico di produrre, ma evidentemente nemmeno di accostarsi a leggere un'analisi seria e documentata come quelle di Bootle o di Nordvig - per citare due al cui campo certa gente dice di appartenere, e per non entrare nella sterminata lista degli economisti che avevano ampiamente previsto la catastrofe - sarà il caso di ricordare che la resistenza all'euro non è un problema di braccino corto...)

da Bagnai, A. (2012) "Il tramonto dell'euro", Reggio Emilia: Imprimatur, p. 260

La resistenza all’euro

Permettetemi una considerazione personale.

Sono stanco di discutere i vantaggi o gli svantaggi economici della moneta unica. Ho mostrato come altri, da decenni, l’abbiano fatto con maggiore autorevolezza di me, giungendo a conclusioni univoche. Il punto però non è questo. Io vorrei chiedervi: i nostri padri, i nostri nonni, che a un certo punto hanno deciso di andare sulle montagne per fare la Resistenza, e anche quelli che invece sono rimasti a casa, secondo voi, prima di partire o di restare, si sono chiesti se l’anno dopo la benzina sarebbe costata due euro al litro? Si sono chiesti se l’inflazione sarebbe aumentata di uno, due, o dieci punti? Si sono chiesti cosa sarebbe successo alla rata del mutuo?

Non credo. Avranno avuto altre motivazioni, e sono certo che non tutte saranno state nobili, perché l’uomo è fatto così. Ma il conto della serva non penso che lo abbiano fatto in molti: né quelli che sono partiti, né quelli che sono restati.

Preciso il concetto, qualora non fosse chiaro.

Se anche fuori dall’euro ci fosse un baratro economico (ma le cose, come vedremo, stanno in modo diametralmente opposto), se anche l’uscita ci consegnasse, come pretendono certi strampalati disinformatori, alle sette piaghe d’Egitto, sarebbe comunque dovere morale e civile di ogni italiano opporsi al simbolo di un regime che ha fatto della crisi economica un metodo di governo, che ha eletto a propria bandiera la deliberata ed esplicita e rivendicata soppressione del dibattito democratico.

Opporsi all’euro è l’unico segnale che oggi rimanga a un cittadino europeo per dichiarare il proprio dissenso verso il metodo paternalistico con il quale l’élite mette il popolo di fronte al fatto compiuto, affinché il popolo vada dove l’élite vuole condurlo. Così come l’autore del divorzio ammette di essere stato perfettamente consapevole del fatto che questo avrebbe condotto a un’esplosione del debito, gli autori dell’euro ammettono di essere stati perfettamente consapevoli che iniziare l’integrazione europea dalla moneta avrebbe condotto a una crisi. Sfido io! C’erano trent’anni di letteratura accademica a dimostrarlo. Ma, teorizzano questi politici, la crisi era necessaria: bisognava che il debito pubblico esplodesse perché lo Stato imparasse a spendere di meno; bisognava che l’Europa arrivasse all’orlo del conflitto perché gli Stati si decidessero a muovere verso la non meglio specificata “unione politica”.

Solo che in questi argomenti c’è sempre qualcosa che non torna. Dopo il divorzio lo Stato non ha speso di meno, ma di più, e per di più orientando la propria spesa verso i più ricchi.L’unione politica proposta si configura sempre di più come progetto imperialistico: si parla apertamente di creare Zone economiche speciali in Grecia, di mettere sotto tutela tutti i governi periferici…

Se accettiamo questo metodo, non ci sono limiti a quello che ci potrà essere imposto. E l’unico modo per opporci è rifiutare l’euro, il segno più tangibile di questa politica e dei suoi fallimenti.




(ricordiamolo: la democrazia non è un posto per "trader" - de sarsicce - col braccino corto...)

Precario minaccia di darsi fuoco a palazzo Chigi

POCO DOPO IL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Precaria della scuola da 15 anni minaccia
di darsi fuoco davanti a palazzo Chigi 

Virginia Taranto, 55 anni, di Napoli: «Chiedo solo il lavoro che mi spetta». Poco prima c'era stato l'incontro con il ministro

ROMA - Non ce l'ha fatta più. Dopo 15 anni da amministrativa precaria nelle scuole, con il matrimonio finito, una figlia da aiutare e una madre anziana, è stata sopraffatta dalla disperazione. E ha minacciato di darsi fuoco in piazza Montecitorio, davanti a palazzo Chigi, dove venerdì mattina c'è stato il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa di Ferragosto.
ALCOL NELLA BOTTIGLIA - Anche per l'anno scolastico 2013-2014 Virgina Taranto, 55 anni, di Napoli, avrebbe avuto tutt'al più un contratto a tempo determinato. Il suo nome infatti non c'è nella lista degli 11.268 insegnanti e amministrativi che hanno conquistato l'assunzione definitiva: proprio stamattina il governo ha autorizzato il ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, alla loro stabilizzazione insieme a quella di 672 dirigenti scolastici. Per questo i sindacati avevano organizzato un sit-in davanti a palazzo Chigi: ed è stato nel corso della manifestazione che Virginia ha tirato fuori dalla borsa una bottiglia di alcol etilico che avrebbe voluto usare per farla finita.
Il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza (Ansa)Il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza (Ansa)
«CHIEDO IL LAVORO CHE MI SPETTA» - Per la polizia in quella bottiglia c'era solo acqua, ma in ogni caso Virginia è stata bloccata dai colleghi in piazza. « Sono la 29esima in graduatoria - spiega con rabbia all'Adnkronos -. Dovevo essere di ruolo già da tre anni, invece rischio di perdere il lavoro». E racconta: «Lotto da anni, ho avuto due ictus, ma non chiedo l'invalidità, chiedo il lavoro che mi spetta. Ho una figlia universitaria a cui provvedere, sola, e una madre di 87 anni. Sono precaria da 15 anni, in terapia da due, ci sono momenti in cui davvero non ne posso più. Per questo volevo farla finita». L'impiegata sostiene di essersi vista «passare davanti prima i collaboratori, per un gioco sporco dei sindacati. Ora i docenti inidonei, che a loro volta subirebbero una grande ingiustizia, di fatto dimensionati dal livello 7 al livello 4. Oltretutto - rimarca - si tratta di insegnanti con problemi di salute, dunque non potrebbero garantire continuità di servizio. Risultato? Saremmo chiamati a fare le sostituzioni, la beffa delle beffe. Questo è mobbing sociale».
«GOVERNO SORDO» - «È stato un attimo - racconta ancora all'Adnkronos Anna Grazia Stammati, dell'esecutivo nazionale Cobas -. Nessuno di noi era a conoscenza del suo intento suicida. È disperata». Provvidenziale l'intervento dei colleghi per fermarla. «Subito dopo - spiega la sindacalista - ha avuto un malore ed è arrivata l'ambulanza per assisterla. La verità è che viviamo una situazione drammatica e il governo si mostra sordo alle nostre richieste».
L'INCONTRO CON IL MINISTRO - Poco prima i precari avevano avuto un incontro con il ministro Carrozza. «La giornata era iniziata bene ma ha rischiato di finire nel peggiore dei modi - spiega Stammati - Poi è arrivata la notizia che il Consiglio dei ministri ha rinviato alcune decisioni a lunedì, ma nessuno è venuto a informarci delle scelte assunte e così in piazza è prevalsa la disperazione».
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