La Casta Estrattiva che coltiva i popoli - intervista a Mitoa Edjang Campos
ABILITATE I SOTTOTITOLI. Esiste una casta, una "èlite estrattiva", che sfrutta il serbatoio sociale della povera gente, appropriandosi dell'80% delle loro risorse, per mantenere i propri privilegi e continuare a vivere bene, a discapito dei sacrifici sempre maggiori richiesti al popolo. Ne parla Miguel Angel Jiménez, portavoce di "ASOCIACIÓN DEMOCRACIA REAL YA", costituitasi come scissione di "Democracia Real YA", il Movimento degli Indignados spagnoli.
domenica 19 maggio 2013
PAPA: CI SI PREOCCUPA SOLO DELLE BANCHE
"LA GENTE MUORE DI FAME, MA CI SI PREOCCUPA DELLE BANCHE"
di Redazione Cadoinpiedi.it - 19 maggio 2013Il monito di Papa Francesco: "La mancanza di etica nella vita pubblica fa male all'umanità"
Monito del Papa sulla necessità dell'etica nella vita pubblica, oggi a Piazza San Pietro, nel corso dell'incontro con i movimenti e le associazioni. ''La mancanza di etica nella vita pubblica fa male all'umanità intera'', ha detto Francesco parlando alle circa 200mila persone presenti.
La vera crisi "è la gente che muore di fame, ma di questo non passa niente ma se calano gli investimenti delle banche se ne fa una tragedia" ha sottolineato Papa Francesco. Dice Bergoglio che "è contro questa mentalità che deve andare la Chiesa, attraverso la testimonianza". Francesco ha fatto riferimento alla ''crisi profonda'' che ''distrugge l'uomo. Nella vita pubblica, se non c'è l'etica tutto si può fare''.
''Quando la chiesa diventa chiusa, si ammala. Pensate ad una stanza chiusa per un anno, una chiesa chiusa è ammalata, la chiesa deve uscire verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano. Gesu' ci dice andate, predicate, date testimonianza del Vangelo''. ''Quello che e' in crisi - ha aggiunto il Papa - e' l'uomo come immagine di Dio, una crisi profonda. In questo momento di crisi non possiamo preoccuparci solo di noi'', ha aggiunto il Papa sottolineando l'esigenza di ''non chiudersi di fronte ai problemi''.
"Non possiamo diventare cristiani inamidati, dobbiamo diventare
In mattinata il Pontefice ha puntato il dito contro le ''chiacchiere distruttive'' nella Chiesa, parlando alla Messa nella Domus Santa Marta. ''Disinformazione, diffamazione e calunnia sono peccato!''. Il Pontefice, celebrando la Messa insieme a don Daniel Grech del Vicariato di Roma, critica chi fa ''la disinformazione: dire soltanto la metà che ci conviene e non l'altra metà; l'altra metà non la diciamo perché non è conveniente per noi. Alcuni sorridono...ma quello è vero o no? Hai visto che cosa? E passa. Secondo è la diffamazione: quando una persona davvero ha un difetto, ne ha fatta una grossa, raccontarla, 'fare il giornalista'...e la fama di questa persona è rovinata''.
''E la terza è la calunnia: dire cose che non sono vere. Quello è proprio ammazzare il fratello. Tutti e tre -ha aggiunto Francesco- disinformazione, diffamazione e calunnia, sono peccato. Questo è dare uno schiaffo a Gesù nella persona dei suoi figli, dei suoi fratelli''. Per Francesco mattinata di udienze. In particolare, verso le 11 il Pontefice ha incontrato la Cancelliera tedesca Angela Merkel. E' la seconda volta che i due si incontrano. La prima volta è accaduto il 19 marzo, subito dopo la messa di insediamento del Pontefice. (ADNKRONOS)
Debito pubblico: come si può non pagarlo
Debito pubblico. Perché e come si può non pagarlo
Contropiano intervista Luciano Vasapollo
Il non pagamento del debito pubblico e la fuoriuscita dall’Eurozona non sono più proposte velleitarie, ma possono diventare soluzioni da percorrere. In un libro di prossimo uscita – “Il Risveglio dei maiali”, edizioni Jaca Book – tre economisti marxisti, Arriola, Martufi, Vasapollo, analizzano la crisi in corso, le micidiali conseguenze sui paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) dell’Unione Europea e le possibile proposte per non essere annientati dalla macelleria sociale imposta dalla Banca Centrale Europea e dal governo unico delle banche che sta determinando le sorti dei lavoratori, giovani, disoccupati, pensionati nel nostro e negli altri paesi europei.
Abbiamo rivolto alcune domande a Luciano Vasapollo, uno degli autori del libro.
Tra i movimenti sociali e i sindacati di base del nostro paese, sta emergendo la parola d’ordine del “non pagamento del debito”. A tuo avviso è una campagna un po’ velleitaria o una soluzione che può diventare realista? Chi verrebbe danneggiato e chi avvantaggiato da un congelamento o una moratoria del pagamento del debito pubblico italiano?
Non chiediamo certo il non pagamento del debito pubblico in mano alle famiglie, che ad esempio rappresenta in Italia solo il 14% del totale. La moratoria richiesta è nel pagamento del debito pubblico interno ed estero in mano alle banche, finanziarie, assicurazioni, grandi fondi pensione ed investimento. Cerchiamo di capire perché e come.
Il passaggio dall’Europa finanziaria ed economica alla costruzione politica dello Stato sovranazionale europeo, crea un terrorismo massmediatico attraverso un vero e proprio attacco politico e speculativo dei mercati finanziari internazionali per screditare il ruolo degli Stati-Nazione. E’ così che il debito pubblico si trasforma in debito sovrano.
Quindi, oggi, creare nell’opinione pubblica l’idea che gli Stati siano sull’orlo del fallimento, significa occultare la crisi economica generale di accumulazione del sistema capitalistico, il disastro dei mercati creditizi e finanziari, creando al contempo la necessità della socializzazione delle perdite del sistema bancario attraverso il denaro delle imposte e tasse dei lavoratori e il taglio dello Stato sociale e del costo del lavoro.
Le rendite finanziarie, a cui vanno aggiunte quelle immobiliari e di posizione, sottraggano le risorse alla produttività reale, incanalandosi soltanto in processi di accelerazione speculativa che necessariamente trovano poi il momento di esaurimento del ciclo nel rappresentarsi dello scoppio delle bolle speculative stesse. Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo massmediatico, sul debito pubblico e il debito sovrano ha semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di indirizzare contro lo Stato,contro l’economia pubblica, la critica feroce della gente comune ,e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e così via, via liberalizzando, privatizzando, tagliando salari e Welfare, e infliggendo un altro duro colpo al potere di acquisto di lavoratori e pensionati.
E se qualche paese ,come l’Italia al momento si è in parte salvata dal pieno disastro alla greca, non è grazie all’operato delle tanto osannate politiche economico-finanziarie del Governo attuale e precedenti, ma semplicemente perché strutturalmente l’operatore famiglia italiano aveva una forte propensione al risparmio che in piccola parte ancora incide; inoltre risulta evidente che i titoli del debito pubblico italiano non si trasformano in debito estero nella stessa percentuale degli altri paesi europei, ma rimangono in Italia, realizzando quei grandi flussi di riciclaggio di denaro sporco in mano alle organizzazioni mafiose e criminali.
E’così che in Italia continua l’effetto domino del perverso intreccio politica-malaffare-criminalità, che sostiene l’altra forma attuale del keynesismo, cioè quello a carattere criminale; la messa a produzione dell’economia criminale, che, insieme a tutta l’altra fetta dei economia nera e sommersa, realizza in termini percentuali una quantità pari a circa il 50% del PIL italiano. Si tenga inoltre conto che nell’Eurozona complessivamente a fronte di un totale di debito estero del 183 % del PIL solo il 44% è il debito sovrano dei governi mentre l’83% è quello delle banche e il 51% quello delle imprese ( compreso quello intrafirm). E non è assolutamente vero che la situazione peggiori nel computo dell’Europa a 27, poiché su un totale debito estero del 152% del Pil ,solo il 37% è il debito sovrano governativo, mentre il 101% è quello bancario, il 40% quello privato di impresa e il 20% quello intrafirm.
E’ evidente la diversificazione delle forme di debito e come nella struttura del debito estero non sia certo la percentuale del debito governativo o sovrano quella maggiormente preoccupante. Ciò che è in atto è semplicemente lo spostamento dei debiti dai bilanci da alcuni grandi mostri bancari, assicurativi, industriali e finanziari a quelli pubblici. Si insiste sulla necessità di tagliare la spesa sociale evocando il falso problema che l’Europa in generale è un sistema in deficit mentre invece risulta chiaro l’opposto cioè l’assenza di un debito estero europeo, anche se ciò è il risultato di partite compensatorie in cui il creditore per eccellenza, cioè la Germania insieme a qualche paese del Nord Europa, è il detentore dei titoli del debito dei PIIGS e di altri paesi fortemente indebitati.
Si consideri, inoltre, che continuerà la politica di spostare risorse dei bilanci pubblici per sostenere imprese, banche e finanza, in un contesto in cui la stessa crisi peggiorando le condizioni sociali dovrebbe aumentare la quota di risorse destinate al welfare.
In realtà, le banche stanno approfittando dell’aumento dell’offerta del debito pubblico per ristrutturare i loro fondi di investimento verso altri con rischi assai minori, con l’obiettivo di dare garanzie ai propri clienti, che non stanno assolutamente continuando a scommettere sulla roulette russa rischio/redditività alta, dopo la rovinosa caduta. Le banche hanno bisogno anche di modificare la composizione del proprio attivo, caricato di titoli e valori immobiliari in corso di svalutazione accelerata; i titoli di debito pubblico diventano un valore copertura perfetto.
Sono le banche che realizzano la maggior parte delle transazioni nei mercati dei prodotti finanziari derivati, sono le banche e i fondi pensione e di investimento i maggiori speculatori, e la crisi finanziaria non ha affatto rallentato le transazioni su questi mercati ma le ha moltiplicate in maniera frenetica.
Con il non pagamento del debito pubblico è quindi il sistema bancario-finanziario che bisogna aggredire e danneggiare, in tal modo si possono di conseguenza favorire gli investimenti in beni comuni, in servizi sociali, in nazionalizzazioni delle imprese dei settori strategici, aumentando di conseguenza i salari diretti, indiretti e differiti.
Nel libro si evocano esperienze come quelle di alcuni paesi latinoamericani – mi vengono in mente Argentina o Ecuador – che hanno visto la ripresa dello sviluppo economico interno e il cambiamento politico prendere slancio proprio dalla decisione di non pagare il debito. Sono episodi particolari e irripetibili o possono indicare una possibile controtendenza generale in grado di estendersi ad altre realtà?
Per capire ciò, bisogna ritornare alle modalità di costruzione del polo imperialista europeo che si è realizzato intorno all’asse franco-tedesco ma in funzione specifica degli interessi della Germania ; non è un caso che i criteri di stabilità facciano riferimento al deficit fiscale, al debito pubblico, all’inflazione e ai tassi di interesse; cioè tutte variabili che devono essere tenute sotto controllo per favorire le esportazioni.
Da ciò si capisce chiaramente perché la Germania controlli tali variabili, in quanto la sua crescita è incentrata sull’export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell’area mediterranea, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda , Italia, Grecia , Spagna), compresa anche la Francia; infatti l’acquisto da parte della Germania dei titoli del debito pubblico di questi paesi rappresentano una forma di investimento dell’eccedente tedesco accumulato. Insomma, il surplus della bilancia commerciale tedesca è reso redditizio dall’investimento del debito dei paesi europei con bilancia commerciale in deficit. Ed è proprio il sistema bancario tedesco che gestisce tale eccedente compreso quello di altri paesi del Nord Europa.
In pratica salvare l’Unione Europea e quindi salvare il modello di export tedesco significa semplicemente distruggere le possibilità autonome di sviluppo dei paesi europei dell’area mediterranea.
E’in questo senso che va interpretata l’azione dell’Unione Europea, che non dotata ancora di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che l’FMI ha applicato in tutti gli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio” sui paesi dell’America Latina e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del Fondo Monetario Internazionale.
E’ in questo senso e secondo le stesse regole neoliberiste che si scatena la speculazione dei mercati finanziari internazionali sui titoli dei paesi volgarmente chiamati PIIGS.
Per ribaltare tale logica economico-finanziaria imperialista è assolutamente necessario un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad esempio nei paesi dell’area dell’ALBA. (Alleanza Bolivariana per i popoli di Nuestra America), e in particolare in Bolivia dove i movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa.
Ma da subito è possibile inceppare i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando l’alternativa bolivariana dell’ALBA.
E per le organizzazioni sindacali conflittuali e i movimenti sociali anticapitalisti che agiscono in Europa si tratta di acutizzare le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati dell’Europolo.Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo per l’insieme della popolazione della nuova area monetaria ALIAS, di cui parleremo di seguito .
Ma è possibile rimettere in discussione il debito senza pensare in qualche modo a nazionalizzare le banche o settori rilevanti del credito?
Il mercato non può disciplinare se stesso, necessita della mediazione politica, di un intervento da parte dello Stato che realizzi la trasparenza, l’efficienza, salvaguardando però l’interesse sociale generale, garantendo condizioni di parità ai partecipanti e indirizzando le risorse finanziarie a chi è in grado di coniugare redditività e giustizia sociale e distributiva, creando ricchezza redistribuita socialmente e lavoro vero a pieno salario e pieni diritti.
La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell’economia globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale finanziario significa nazionalizzare le decisioni d’investimento per favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo termine.
Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per dinamicizzare l’attività produttiva, e per orientare il credito in funzione di ottenere il massimo sviluppo dell’occupazione e dell’utilità sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo profitto a breve termine.
La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Tutto ciò è quindi possibile solo con un serio governo di indirizzo dello sviluppo che non può prescindere dal fondamentale ed efficiente ruolo pubblico nei servizi essenziali e nei settori strategici dell’economia.
Una parte del debito pubblico è il risultato dell’attuazione dei governi per appoggiare capitali locali fortemente indebitati, in primo luogo le banche però anche le imprese (a inizio del 2011 dei 4,7 mila miliardi di euro di debito esterno di Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, circa il 32% era debito sovrano governativo, 4% delle autorità monetarie, 38% delle banche, 17% di altri settori imprenditoriali e 8% debiti generati all’interno dei gruppi multinazionali). Questo intento fallito di stabilizzazione portato avanti dai governi con le risorse di tutti i cittadini deve ottenere una compensazione. La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto, ma allo stesso tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile.
Perché criticate in maniera così forte e decisa la proposta di Prodi e Quadrio Curzio che rappresenta una variante che sembrerebbe più a “connotato social-riformista” nell’ambito delle diverse ipotesi sulle emissioni degli Eurobond?
Anche recentemente in questi ultimi mesi si sono susseguite anche e soprattutto da sinistra ipotesi e proposte per risolvere la crisi per rilanciare la crescita e rafforzare l’Europolo, insomma per un capitalismo riformato e dal “volto umano”, nel cuore di un polo imperialista. Ma nel capitalismo attuale non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme. La crisi strutturale e sistemica del capitalismo di oggi è definitiva.
L’errore di tali keynesiani di sinistra che si prestano al servizio degli interessi del capitale europeo, sta non solo nell’identificare questa crisi come da sottoconsumo, senza intenderne il carattere sistemico e negando qualsiasi impostazione teorica di origine marxista, ma la loro ipotesi dell’”euro buono” si scontra con la loro stessa impostazione di crescita nella compatibilità capitalista. Infatti ecco che si moltiplica in questo senso l’idea di alzare il denominatore del rapporto debito pubblico-PIL per ridurre l’impatto di tale indice attraverso stravaganti idee dei keynesiani di sinistra per stimoli alla crescita: green economy e progetti ambientali, e progetti infrastrutturali tanto fantascientifici quanto inutili; e per tutto ciò le soluzioni di finanziamento potrebbero derivare da l’emissione di nuovi strumenti finanziari, come gli eurobond per attrarre liquidità dal resto del mondo e sostenere tale modalità di investimenti in una nuova crescita che porterebbe come conseguenza anche alla messa a privatizzazione della stessa spesa sociale (ospedali privati , università private, fondi pensione, ecc.). Tra tali proposte quella dell’emissione degli eurobond per finanziare i debiti dei singoli Stati e di cui si farebbe garante l’intera Eurozona; proposta che ovviamente trova in pieno disaccordo la Germania che non si vuol far carico delle crisi e debiti altrui.
A fine di agosto 2011 l’ex presidente della Commissione Europea ed ex Presidente del Consiglio in Italia, Romano Prodi, e l’economista Quadrio Curzio sono tornati ad insistere per creare un sistema di eurobond emessi attraverso un nuovo Fondo Finanziario Europeo (FFE), denominati Euro Union Bond (EUB). Questo Fondo potrebbe garantire con un suo capitale di mille miliardi, l’emissione di almeno 3000 miliardi di EUB decennali al 3%, in modo da acquistare quote dei debiti di quegli Stati che eccedono il limite del 60% del PIL previsto dal Trattato di Maastricht .
L’emissione dell’EUB a queste condizioni riguarderebbe proprio tale 60% del debito pubblico rispetto al PIL , mentre la restante quota resterebbe sotto la responsabilità degli Stati; il capitale del FFE verrebbe conferito dagli Stati dell’Unione Economica Monetaria in proporzione alle quote da essi detenuti alla Banca Centrale Europea. Per riportare l’attuale livello medio dell’indebitamento dell’Unione Economica Monetaria che è dell’85% al 60% previsto si dovrebbero impiegare 2.300 miliardi di euro; in tal modo per esempio per l’Italia la riduzione del rapporto debito pubblico-PIL passerebbe dall’attuale 120% al 95%. I restanti 700 miliardi di EUB che rimarrebbero rispetto ai 3.000 miliardi di euro previsti andrebbero ad investimenti europei per far crescere le imprese europee dei settori di energia, telecomunicazioni e trasporti.
La proposta di Prodi e Quadrio Curzio suppone che gli EUB a dieci anni abbiano un tasso di rendimento a dir poco eccezionale, cioè del 3%; l’eccezionalità sta nel fatto sorprendente che oggi solo la Germania riesce ad emettere titoli a lungo termine ad un rendimento del 2,75% poiché la media europea del giugno 2011 era del 4,7%, e nessuno ha spiegato per quale miracolosa ragione l’emissione di EUB possa essere inferiore di quasi due punti dalla media ponderata delle emissioni statali attuali, né perché la Germania dovrebbe essere disposta a finanziarsi ad uno 0,25% in più di quello che offre il mercato; e si dà per scontato inoltre che gli Stati che attualmente finanziano il proprio debito a lungo termine ad un tasso di interesse poco maggiore del 3% annuo, come Francia, Lussemburgo, Olanda, Austria, Finlandia sarebbero disposti a intaccare le proprie riserve auree in cambio di finanziare una parte del proprio debito ad un prezzo uguale o poco inferiore di pochi decimi di centesimo di quello che oggi gli propone il mercato.
Inoltre il problema non è se i mercati finanziari fissano un tasso di interesse al 4,7% medio o al 3%, poiché entrambe le percentuali sono sicuramente molto superiori al tasso di crescita previsto del Prodotto Interno Lordo dei prossimi anni, e ciò significa trasferimenti sempre più crescenti di valore verso i settori della rendita attraverso il servizio del debito. Il problema vero è che il costo sociale di finanziare la spesa pubblica attraverso il capitale privato è molto superiore di quello che per esempio si potrebbe realizzare monetizzando il debito.
Chiudere definitivamente con il dominio del capitale è l’unica soluzione reale che Prodi, i keynesiani e tutta la compagnia degli economisti di centro-sinistra e sinistra, vicini e graditi ai poteri forti europei si negano di considerare poiché sono invece consapevoli che volendo sarebbe una possibilità reale
Parliamo di Alias. Nel vostro libro sostenete che uscire dall’Unione Economica e Monetaria – cioè il blocco dei paesi dell’Unione Europea che hanno adottato l’Euro come moneta – può essere una soluzione da perseguire. Su questa ipotesi viene fatto molto terrorismo psicologico sia da parte dell’establishment italiano (vedi Napolitano) sia da parte di settori oltranzisti tedeschi ed europei che vorrebbero espellere dall’Eurozona i paesi Piigs che non riescono a rispettare il pareggio di bilancio. La vostra proposta di un’area economica euro-mediterranea (l’Alias appunto) a quali esigenze corrisponde?
La Germania continua a mantenere prezzi e salari moderati in termini relativi per favorire il proprio modello di sviluppo basato sull’export tentando di aggredire i partner con un rilancio delle esportazioni extraeuropee. Ma Cina e USA non stanno certo lì ad aspettare in un ruolo passivo di osservatori; la guerra continua!
In questo quadro di accentuata competizione globale sembrano prevalere tre strategie europee di uscita dalla crisi.
La prima è la ricetta tedesca, verso quella che considerano la periferia europea, che punta alla destrutturazione del mercato del lavoro a maggiore austerità e maggiore liberalizzazione riducendo le forme anche di protezione sociale. In questo senso le politiche di aggiustamento strutturale in chiave europea hanno come unico obiettivo quello di salvare banche, imprese private e mercato, attraverso un indebitamento pubblico sempre crescente che vede poi come sua cura la privatizzazione dei servizi pubblici di base per creare un nuovo spazio di accumulazione attraverso la nuova catena del valore che si realizza proprio sulle privatizzazioni dei servizi sociali profitti e rendite finanziarie e di posizione.
Quindi un’idea di stabilità dentro i rigidi parametri europei imposti dalla Germania favorendo i processi recessivi con un forte condizionamento negativo sul mondo del lavoro, in termini di costi di specializzazione e di diritti.
Una seconda ipotesi è quella più a guida britannica e di settori di una parte dei potentati della cosiddetta sinistra euroscettica che auspicano la creazione di un “secondo euro”, puntando a svalutare e a ristrutturare il debito pubblico complessivo, cercando di attuare anche politiche di nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali di miglioramento della produttività.
La ultima ipotesi è quella della sinistra europea, anche di quella cosiddetta radicale e di alternativa, che partendo da una ipotesi di analisi della crisi come sottoconsumistica, ripropone una nuova stagione per le illusioni dei keynesiani di sinistra di superamento della crisi attraverso il sostenimento della domanda e un impossibile rafforzamento delle spese di carattere sociale e di investimento in infrastrutture pubbliche, tecnologie, educazione, ecc.
Tale ipotesi necessariamente indebolirebbe fortemente l’euro sui mercati internazionali innescando una competizione internazionale che potrebbe risultare mortale per l’Unione Monetaria Europea e per il futuro dell’area valutaria dell’euro.
Se i Paesi della periferia europea desiderano ritornare al controllo sull’attività produttiva questo lo possono realizzare soltanto in maniera congiunta e mediante un processo di rottura con il modello della finanza privata e dello spazio monetario asimmetrico vigente.
L’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.
Nella nostra analisi e proposta quattro sono i momenti :
a) La determinazione di una nuova moneta comune per l’ Europa mediterranea (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta “LIBERA”), cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro); b) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa,realizzando al contempo la nazionalizzazione delle imprese dei settori strategici.
Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la sottocapitalizzazione dell’intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti.
L’uscita dall’euro, quindi dall’Eurozona o Europolo, è un’opzione e un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche che non sono semplicemente squilibri finanziari ma sono innanzitutto di carattere produttivo: una struttura di base industriale in declino, un uso eccessivo e inefficiente enorme della forza lavoro, una concentrazione scandalosa di ricchezza e di patrimonio.
Però non esiste un procedimento fissato per uscire dalla UE, e questo può facilitare la realizzazione della nostra proposta per una nuova moneta per una gestione alternativa dell’economia e della politica, innescata inizialmente all’interno della UE, per aprire uno spazio che faccia avanzare un’ipotesi realmente caratterizzata da riforme strutturali , contraria al neoliberismo e all’attuale struttura di dominio imperante. Bisogna tener conto che la popolazione dei paesi periferici interni vede in maggioranza in forma positiva il contributo effettivo della Unione Europea allo sviluppo istituzionale delle infrastrutture nelle regioni di minore sviluppo relativo ( vedi l’utilizzo dei Fondi Strutturali o la Politica Agraria Comune –PAC), reputandole capaci di raggiungere buoni risultati poiché basate precisamente su criteri non proprio compatibili con quelli del mercato, nonostante negli ultimi anni la PAC sia stata sottomessa ad un processo di liberalizzazione.
Considerato che paesi con sistema politico-sociali differenti come Gran Bretagna, Danimarca o Svezia possono rimanere all’interno della UE però fuori dall’Unione Economica Monetaria, quindi fuori dall’euro, di conseguenza risulterà molto difficile poter impedire ad un blocco di paesi che vogliono realizzare una politica di socializzazione delle risorse produttive di base e degli investimenti.
Determinare quindi un processo di uscita dall’Europolo, cioè dall’Unione Economica Monetaria, senza uscire dall’Unione Europea, per ragioni tattiche, ci sembra politicamente molto conveniente in modo da tener separata e centrale la decisione di realizzare da subito un’altra area monetaria, appunto ALIAS per una politica a favore dei lavoratori, dalla decisione successiva e più a carattere strategico di abbandonare la UE; e in tutti i casi la fuoriuscita rappresenterebbe un’opzione di attacco al sistema del capitale europeo, confermando comunque l’intenzione politica di mettere in discussione da subito le istituzioni comunitarie con un progetto completamente alternativo che è inevitabile si debba mantenere e anzi rafforzare nel tempo inglobano i paesi dell’Africa Mediterranea e dell’Est Europeo nella iniziale area alternativa che vede insieme i paesi della periferia mediterranea. dell’Europa.
Ma l’Alias avrebbe bisogno di una propria moneta che voi chiamate “Libera”. E’ solo un buon auspicio o ha delle basi materiali e scientifiche per diventare un progetto?
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori.
Una nuova moneta come LIBERA per la periferia europea confliggerebbe inevitabilmente con la strutturazione vigente in materia di integrazione europea.
In tutti i casi una nuova moneta per una gestione alternativa dell’economia e della politica imposta all’interno della UE, potrebbe essere un procedimento utile per offrire ai lavoratori una possibilità di uscita dal disastro che presuppone la stessa costruzione dell’Europa neoliberista (cambiare le politiche porta con sé come esigenza quella di cambiare le regole della stessa Unione Europea), e può servire anche per limitare l’impatto della probabile reazione del capitale e dei suoi rappresentanti politici, reazione che potrebbe essere giustificata in caso di un’uscita volontaria e di un isolamento economico e politico dei Paesi della periferia dell’Europolo.
Cambiare la moneta nei Paesi con un forte squilibrio fiscale porta implicitamente ad una svalutazione quasi immediata. Per questo, il cambio della moneta richiede che allo stesso tempo, su questo non ci devono essere dilazioni, si rinomini il debito esterno ed interno con la nuova moneta LIBERA, al tasso di cambio che i governi considerano più appropriato. Ovviamente questo rappresenta un’altra fonte di tensione politica con i creditori in particolare con quelli interni alla stessa UE, dato che gli agenti finanziari europei sono i proprietari della maggior parte del debito della periferia mediterranea.
La nuova valutazione del debito con il rifiuto del pagamento di gran parte di esso e la rinegoziazione del resto, è un altro elemento necessario per ridurre il peso del debito passato sul finanziamento di un piano di espansione futuro. Questo processo di deve applicare con rapidità, poiché ridurre il carico del debito è una condizione necessaria per poter iniziare un processo di forte creazione di posti di lavoro a caratterizzazione sociale.
E’ altresì importante che il cambiamento del sistema monetario e finanziario sia una risposta congiunta, poiché il peso della periferia europea mediterranea è molto superiore a quello dei singoli paesi presi separatamente. Il debito esterno pubblico e privato di quattro paesi portanti di ALIAS (Portogallo, Italia, Spagna e Grecia) è il 23% dell’intero debito dell’UM16: 2,1% il Portogallo; 2,2% Grecia; 9,1% Spagna e 9,7% Italia (dati del debito esterno al primo semestre 2011).
La capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utilità attraverso usi sociali così come l’ampliamento intenso dell’accesso ai sistemi di comunicazione ed energia in particolare per quelle fasce più povere della popolazione locale e per i Paesi alleati della nuova area ALIAS in una pratica di una nuova strategia di sviluppo globale solidale.
Con questa proposta dettagliatamente articolata nel libro vogliamo quindi aprire una ipotesi di dibattito e un percorso di pratica di lotte con un obiettivo diretto e raggiungibile, ma nello stesso tempo realizzare una possibilità concreta per i Sud del mondo che possano trovare nei PIIGS , e in generale nei paesi dell’area mediterranea, l’esempio di un percorso capace di sparigliare le carte dell’”azienda mondo”; un’occasione per appassionarsi a creare una opportunità di un altro mondo possibile “qui ed ora “ che dimostri che si può realizzare concretamente un diverso vivere solidale e autodeterminato attraverso percorsi di lotta di un movimento di classe realmente indipendente che si pone strategicamente, ma da subito, il fine del superamento del modo di produzione capitalista.
Un debito gigante per garantire la rendita finanziaria
Note sul debito pubblico italiano
di Dario Di Nepi
In questi mesi il dibattito sui debiti sovrani è stato orientato prevalentemente alle discussioni in merito al rischio di default della Grecia, ai problemi relativi agli aiuti da dare al Portogallo e alla situazione irlandese. In Europa si parla dei Pigs e del loro ruolo destabilizzatore, dei rischi per l’economia europea e per il futuro dell’Euro.L’Italia, pur non essendo inserita all’interno dei Pigs, e pur non avendo subito l’attacco speculativo a cui è stata sottoposta la Grecia, non può essere considerata esente da problemi riguardanti sia il debito pubblico, sia il deficit di bilancio. Come sappiamo questi due elementi sono strettamente legati e connessi tra di loro, anche se non bisognerebbe fare l’errore tipico degli analisti liberisti di vedere una relazione diretta causa-effetto tra spesa sociale – deficit di bilancio – debito pubblico.
Sin dagli albori dello Stato moderno il debito pubblico infatti era legato principalmente al finanziamento di attività militari o coloniali, determinanti per l’espansione commerciale, necessaria alla nascente economia mercantilista. Da questo punto di vista gli esempi possono essere molteplici, basti pensare che sino alla Rivoluzione Industriale la Banca d’Inghilterra compie la maggior parte delle operazioni di credito con il governo reale.[1] Gli Stati (e dunque, in forma indiretta, l’intera collettività tramite imposte o tagli alla spesa sociale) sono stati quindi tra i principali finanziatori dello sviluppo di tutto il mercato finanziario internazionale, attraverso i loro debiti infatti hanno garantito delle rendite pressoché costanti ai propri debitori (inizialmente le banche nazionali, in seguito le banche private, le compagnie di assicurazioni, i fondi di investimento, etc).
Questo piccolo excursus storico ci permette di comprendere come anche la logica che ha causato lo sviluppo e la crescita smisurata del debito pubblico italiano è legata principalmente agli interessi messi in campo dal capitale finanziario, più che da una “eccessiva” crescita della spesa sociale.
Da questo punto di vista risulta utile analizzare brevemente la storia e le origini del debito pubblico italiano, per comprendere al meglio sia la situazione attuale, sia le relazioni e le affinità con la natura intrinseca di questo problema.
Come si può vedere dal grafico 1 il debito pubblico italiano ha avuto una evoluzione abbastanza costante fino al 1979, in seguito ha subito una crescita notevole, aumentando considerevolmente la sua percentuale rispetto al PIL. Questo trend si inserisce in un contesto internazionale che vede una situazione abbastanza simile in quasi tutti i Paesi a capitalismo avanzato, basti pensare che ad oggi il rapporto debito pubblico/PIL degli USA è quasi raddoppiato rispetto al 34% del 1980.
Grafico 1
Gli anni 80 dunque sono visti da molti analisti come il momento decisivo per la crescita del debito pubblico italiano, effettivamente se si guardano i dati che ci fornisce la banca d’Italia questa tendenza è di fatto confermata: il rapporto debito pubblico/PIL è infatti del 60% nel 1980, mentre raggiungerà il 121,5% nel 1994. In questo stesso periodo il deficit italiano raggiungerà una media del 10,7% ( consideriamo che la media europea era del 4%), mentre la spesa pubblica passò dal 36% del Pil nel 1970 al 50% del Pil nel 1985.
Questi dati dunque sembrerebbero confermare la tesi secondo cui a causare l’incremento del debito pubblico, sia stata proprio la crescita della spesa pubblica e in particolare della spesa sociale. Un’impostazione di questo tipo è ormai accolta dalla maggior parte degli schieramenti politici che giustificano qualsiasi taglio alla spesa sociale in nome dell’enorme debito pubblico italiano.
Questo tipo di analisi però risulta alquanto ideologica, infatti se si analizza più in profondità la struttura della spesa pubblica italiana di quel periodo possiamo vedere come la spesa primaria (ovvero la spesa effettuata al netto degli interessi sul debito pubblico), è stata quasi sempre inferiore alla media dei Paesi europei tra il 1980 e il 1993. A dircelo è la stessa Banca d’Italia come dimostra il grafico 2. Dal grafico infatti appare chiaro che, più che un aumento sconsiderato della spesa pubblica italiana, c’è stato un progressivo allineamento verso gli standard europei, basti pensare infatti che in Italia la previdenza sociale è stata istituita solo nel 1970 e il sistema sanitario nazionale nel 1978.
La spesa sociale dunque non fu affatto “gonfiata”, né può essere definita eccessiva, ciò che ha causato direttamente l’aumento del disavanzo degli anni 80 è stata la mancanza di entrate adeguate ad una spesa sociale dignitosa.
Grafico 2: Confronto tra spesa al netto degli interessi in Italia e spesa al netto degli interessi in Europa.
Il principale fattore della mancanza di entrate adeguate è stato certamente l’evasione fiscale, questo elemento è caratteristico del sistema economico italiano ma, al contrario di quanto si possa pensare, non si riferisce solamente all’evasione prodotta dalle singole persone. A pesare più di tutto sulla mancanza di entrate fiscali adeguate è stato, ed è tuttora, l’evasione procurata dai redditi imprenditoriali e da capitale che già nel 1980 si aggirava intorno al 60 %.
L’aumento del disavanzo dunque si legava sempre di più con l’aumento del debito pubblico, che veniva utilizzato per colmare i vuoti causati dalla mancanza di entrate adeguate (basti pensare che nel 1985 la pressione fiscale in Italia era del 34,5% del Pil mentre la media europea era del 41% e la Francia era al 46%). L’aumento del debito pubblico, che come abbiamo detto stava di fatto sostituendo in parte la necessità di una lotta contro l’evasione dei redditi da capitale, veniva usato come pretesto per scatenare la battaglia ideologica neoliberista contro il ruolo redistributore dello stato e contro l’aumento dei servizi sociali.
Ma le scarse entrate fiscali non sono l’unica spiegazione dell’aumento del debito pubblico negli anni 80 e nei primi anni 90. Prima della crisi degli anni 70 il debito pubblico era finanziato con l’emissione di moneta da parte della banca centrale. Dal 1975 la Banca d’Italia era obbligata a comprare i titoli di stato rimasti invenduti, di conseguenza il debito era finanziato da un’istituzione pubblica, all’inizio degli anni 80 però si consumò la separazione tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia e si concluse il periodo del finanziamento obbligatorio del debito. A sostituirsi al creditore pubblico furono dei creditori privati, in particolare banche e compagnie di assicurazione. I governi di allora avevano quindi scelto di affidare il debito pubblico a dei soggetti privati, interessati ovviamente a massimizzare i propri profitti finanziari.
L’obiettivo degli investitori privati che decidevano di acquistare i titoli di stato italiani era infatti palese, basti pensare che già nel 1985 oltre il 40% era posseduto da banche e istituti di credito. Un altro elemento su cui riflettere è il fatto che, in poco tempo, l’acquisto dei bot people diventò un meccanismo di elusione “legale” del fisco da parte delle grandi imprese. Aziende come la Fiat o l’Olivetti infatti nel 1984 ottenevano rispettivamente il 57% e il 64% dei loro utili dagli interessi sui titoli di stato, il meccanismo che veniva messo in campo era abbastanza complesso ma efficace: le imprese infatti ottenevano dalla banche dei prestiti per acquistare bot e cct, alla fine dell’anno avrebbero dunque inserito nei bilanci degli interessi passivi (dovuti al fatto che erano prestiti bancari), l’inserimento di questa voce riduceva l’utile imponibile, mentre quelli che venivano segnalati come interessi attivi erano principalmente i titoli di stato, che però erano totalmente esenti da qualsiasi tipo di imposta. Un modo efficace per evadere il fisco e ridurre ulteriormente le entrate della collettività.
Il momento in cui il debito italiano subì un’impennata decisiva fu però il 1992 quando, con il trattato di Maastricht, venne liberalizzata la circolazione dei capitali all’interno dell’Unione Europea. In quel periodo infatti iniziò una forte speculazione sulla lira, quest’ultima, unita alla scadenza media molto breve dei titoli di stato italiani (più o meno 2,96 anni), faceva scendere ulteriormente il tasso di cambio della lira. Il ministero del Tesoro dunque, a causa dei fattori esposti precedentemente, scelse di aumentare ulteriormente la remunerazione dei titoli di stato, così dal 1992 al 1994 il debito pubblico passò dal 98% al 121% del Pil. Questa improvvisa impennata era dovuta effettivamente all’aumento del disavanzo ma, a differenza di quanto sostenevano gli economisti liberisti, quest’ultimo era stato causato proprio dalla crescita degli interessi che l’Italia doveva pagare agli investitori privati che avevano finanziato il debito pubblico.
Attualmente il debito pubblico italiano è pari al 120% del Pil, secondo un rapporto CIA riportato dal New York Times l’Italia è l’ottavo Paese più indebitato al mondo. Dal 1995 al 2005 si era verificato un rallentamento della crescita del debito, che però ha subito una nuova impennata a partire dal 2008, anno di esplosione della crisi economica. Chiaramente questa data non è affatto casuale, anche se in Italia non si sono verificati casi del livello di Leheman Brothers o della crisi greca, il principio di aumento del debito rimane legato a due elementi, diversi ma connessi tra di loro: da un lato il debito privato è stato trasferito verso il pubblico e da un altro la necessità di mantenere alti i tassi d’interesse sui titoli di stato, indispensabili per garantire la rendita finanziaria.
Quest’ultimo punto in particolare è emblematico del circolo vizioso creato ad arte per garantire delle rendite quasi certe agli investitori privati; lo Stato infatti per coprire il fabbisogno necessario per ripagare i prestiti ottenuti colloca sul mercato i titoli di stato a tassi appetibili e competitivi. Gli investitori privati, banche, assicurazioni, grandi imprese, acquistano questi titoli certi del fatto che lo Stato garantisce più di chiunque altro il pagamento degli interessi sui prestiti ottenuti. Tutto ciò fa aumentare ulteriormente la spesa pubblica destinata al rimborso degli interessi e, conseguentemente, riduce quella destinata alla spesa sociale, tramite l’attuazione delle politiche di austerity che si stanno sviluppando in tutta Europa.
Quanto detto finora ci permette di arrivare a due conclusioni, che risultano vere e realistiche anche per quanto riguarda un Paese a capitalismo avanzato come l’Italia: la prima ci dice che il debito finora contratto è illegittimo in quanto creato appositamente per garantire adeguate rendite finanziarie a imprese e banche, la seconda invece rende evidente come l’evasione fiscale dei redditi da capitale sia stata costantemente accettata da tutti i governi, che evidentemente hanno preferito aumentare il debito e tagliare la spesa sociale, piuttosto che attaccare i profitti e i privilegi di banche e grandi imprese.