Il signoraggio implicito degli americani
Maurizio Sgroi
Conosciamo tutti l’esorbitante privilegio, come lo ebbero a definire i
francesi, di cui godono gli americani, in quanto emittenti della moneta
internazionale. Se ne parla dagli anni ’60, e malgrado la tanta
letteratura che è stata scritta nel frattempo su questa sorta di
signoraggio esplicito,
ossia la differenza fra quanto costa agli americani emettere la moneta e
quanto ci guadagnano dall’utilizzo che ne fanno loro, magari
all’estero, e gli altri paesi, che tale signoraggio devono pagare, assai
meno si conosce su un altro tipo di signoraggio, che è squisitamente
implicito.
Mi riferisco, in particolare, al costo che gli americani scaricano
indirettamente sui paesi che usano il dollaro per le loro transazioni
commerciali e finanziarie, derivante dal fatto che il costo del dollaro,
come ogni cosa,
dipende dalle scelte di politica monetaria degli Usa.
Se vi sembra esoterica, questa domanda, forse è perché non ricordate che in giro per il mondo circolano circa
9 trilioni di asset
denominati in dollari, emessi quindi da paesi non americani, con i
quali il mondo dovrà fare i conti una volta che la Fed deciderà di
cambiare le sue scelte di politica monetaria.
Peraltro questa cosa non deve essere poi così tanto esoterica se la
Bis ha deciso di dedicarci un working paper uscito qualche tempo fa (
“Financial crisis, US unconventional monetary policy and international spillovers”), scritto da Qianying Chen, Andrew Filardo, Dong He e Feng Zhu.
Mi decido a leggerlo non tanto perché sia un patito della
modellistica macroeconomica, che tendenzialmete aborro, ma perché
l’analisi consente di apprezzare un punto dolente della nostra
attualità, che ormai i regolatori di mezzo mondo non si stancano di
ripetere: il costo dell’exit strategy americana, in particolare per i
paesi emergenti, che più di altri dal 2009 in poi hanno fatto largo uso
dell’indebitamento internazionale in valuta americana. Chiunque pensi
che questa cosa non lo riguardi, dovrebbe riflettere meglio sulla
profondità delle interconnessioni finanziarie globali.
Ma soprattutto vale la pena leggere lo studio perché esprime a chiare
lettere un concetto che gli entusiasti dei quantitative easing (QE)
tendono a sottovalutare: il QE, e in particolare quello Usa,
ha un costo che può diventare
rilevante per moltissimi.
Ciò non vuol dire che il
QE non abbia prodotto anche benefici,
ma più sottilmente, che insieme ai benefici ci sono anche i costi,
reali e potenziali. Per dirla con le parle degli autori, “Abbiamo
riscontrato che l’impatto stimato del QE sono notevoli e variano al
variare delle economie”. E in particolare quando si parla di economie
emergenti.
Tutto questo nella consapevolezza che “sappiamo ancora poco
sull’impatto delle politiche non convenzionali sulle attività reali e
che finora sono state fatte poche ricerche sugli spillover
transfrontalieri, specialmente nelle economia emergenti”.
Alcuni studi hanno stimato che il QE americano abbia abbassato i
tassi sui bond di 20-80 punti nelle economie avanzate e abbia provocato
un deprezzamento del dollaro del 4-11%. Altri hanno rilevato che il
prezzo delle commodity ha declinato sostanzialmente prima che la Fed
lanciasse il QE. E tutto ciò solleva interrogativi su come si
comporteranno questi valori una volta che tale politica straordinaria
verrà meno.
Anche perché non c’è identità di vedute fra gli studiosi sull’utilità
di politiche coordinate fra le varie banche centrali. Acuni pensano
tuttora che il QE sia un problema dei singoli paesi che lo attivano, e
che gli evetuali spillover transfrontalieri siano tutto sommato
trascurabile.
Altri pensano il contrario. Ossia che le migliaia di miliardi di
asset acquistati dalle banche centrali, Fed in testa, hanno avuto a
avranno in futuro inevitabili conseguenze sull’economia globale, come si
è già osservato studiando gli effetti che hanno provocato sul dollaro e
quindi indirettamente su tutti i paesi che sul dollaro basano la loro
economia.
Perciò gli autori hanno svolto un’analisi basandosi sui dati relativi
a 17 economie, avanzate ed emergenti, studiando i dati dal 2007 al
2013. Ciò che ne hanno tratto è stato che il calo degli spread provocato
da QE ha avuto notevole ripercussioni globali sia sul lato finanziario
che su quello economico.
La buona notizia è che tali effetti hanno prevenuto esiti ancora più
nefasti, tipo un collasso del sistema economico globale. Quella cattiva è
che per la stessa ragione li possono provocare adesso, una volta che
l’allentamento monetario terminerà.
Il rischio emergenti si appalesa con chiarezza una volta che si
osservi come il QE americano abbia impattato assai più su questi paesi
che su quelli avanzati. Ed proprio su questi paesi che il signoraggio
implicito ha spiegato i suoi esiti più importanti.
Ma ovviamente esiti ancora più importanti il QE della Fed li ha
operati in casa, abbassando notevolmente i rendimenti e alimentando la
crescita del credito. In generale gli studiosi hanno rilevato che un
calo di 20,7 punti base negli spread nei bond corporate ha elevato dello
0,2% il Pil reale in un orizzonte di tre anni.
D’altronde che il QE abbia giovato, momentaneamente, agli Usa è fuor
di dubbio. Così come è fuori di dubbio che il resto del mondo ne abbia
subito le conseguenze.
L’analisi mostra che il calo degli spread sui bond corporate Usa ha
impattato notevolmente sulle economie dell’America latina e dell’Asia,
sia relativamente ai mercati azionari e obbligazionari, ma anche sul
mercato valutario, visto che il deprezzarsi del dollaro ha apprezzato le
loro valute.
In Brasile infatti si sono riprodotti effetti simili a quelli
registrati altrove, con le azioni in crescita, come il credito e il
prodotto. Il paese ha potuto godere di una crescita indotta del prodotto
e ha potuto uscire rapidamente dalla recessione del 2009, grazie allo
zio Sam.
In Cina il calo dell’US term spread ha avuto lo stesso effetto sulla
crescita della moneta e del credito, che hanno ceduto lo 0,2 e lo 0,3%
rispettivamente, per poi tornare positivi in pochi mesi. Ma anche la
Cina ha goduto, seppure meno del Brasile per le sue più stringenti
condizioni monetarie, della bonanza americana.
Ma il signoraggio implicito ha svolto i suoi esiti anche
nell’eurozona. In particolare un taglio di 14,2 punti dell’Us term
spread, ha provocato un ribasso nell’eurozona di 10 punti base, sempre
nell’orizzonte di tre anni. Un calo di 20,7 punti base, oltre ad
abbassare il rendimento in Europa, ha provocato un crescita del credito
nell’area dello 0,1% e dell’output dello 0,2%, facendo pure crescere
l’inflazione. Inoltre, i prezzi delle azioni sono cresciuti dell’1% in
quattro mesi.
Se osserviamo gli esiti del QE sui paesi emergenti, notiamo che, a
parte l’entità di tali conseguenze, gli effetti sono stati simili a
quelli registrati nell’eurozona.
Tutto ciò dimostra con chiarezza una semplice, elementare verità: di
fronte agli Usa siamo tutti paesi emergenti, o, se preferite, di fronte
al Signore americano, siamo tutti chi più chi meno vassalli.
E questo spiega molto bene perché un semplice starnuto della Fed è capace di contagiare il raffreddore al resto del mondo.
Con buona pace della Bce.