domenica 3 giugno 2018

Banche estere e titoli derivati. Il ricatto c’è. Ed è pure enorme.


Banche estere e titoli derivati, ecco perché siamo sotto ricatto. A gestire le aste Btp e Bot sono 15 grandi gruppi


di Stefano Sansonetti
Politica
ricatto

di Stefano Sansonetti

Il ricatto c’è. Ed è pure enorme. Provando un attimo a prescindere dalla superficie dell’incredibile scontro istituzionale che sta opponendo pentaleghisti e Quirinale, non si può non mettere a fuoco la vera camicia di forza che imbriglia l’Italia. Parliamo dell’ormai famigerato debito pubblico, che però esercita una fortissima pressione non solo per il suo ammontare, ormai oscillante intorno ai 2.300 miliardi di euro. Non sempre, per dire, si tiene a mente che la gestione del debito sfugge quasi totalmente a un vero potere “sovrano”. Lo scorso 27 aprile il Dipartimento del Tesoro ha aggiornato la lista dei cosiddetti “specialisti in titoli di Stato”. L’aggiornamento, firmato dal nuovo numero uno della Direzione per il debito pubblico, Davide Iacovoni, si è reso necessario per una questione puramente formale, ovvero il cambio di denominazione sociale della banca d’investimento di Royal Bank of Scotland, ora ribattezzata NatWest Markets Plc.
Il focus – Ma l’occasione è preziosa per riflettere ancora una volta sul fatto che l’elenco continua a essere composto da 18 banche di cui 15 estere. Tra queste ci sono le varie Deutsche Bank, Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley, Merrill Lynch e via dicendo. A questi “specialisti”, lautamente remunerati, il Tesoro si affida per organizzare le aste dei vari Btp e Bot, a cui gli stessi partecipano garantendo determinate soglie di acquisto. Non solo, perché il coinvolgimento nel meccanismo consente loro anche un accesso privilegiato alla stipula con via XX settembre dei famosi contratti derivati. Si tratta di strumenti con i quali lo Stato cerca di garantirsi dai rischi di cambio dei tassi, ma che spesso si trasformano in un bagno di sangue per i conti pubblici. E’ appena il caso di ricordare che tra le fine del 2011 e l’inizio del 2012 l’americana Morgan Stanley ha ottenuto la chiusura anticipata di un derivato che è costato al Tesoro un esborso di 3 miliardi. Sulla vicenda oggi è in corso un processo alla Corte dei conti, a riprova dell’estrema sensibilità della materia. Ma la domanda a questo punto è spontanea: con un debito pubblico gestito quasi per intero da 15 banche estere, quante di queste potrebbero oggi chiedere chiusure anticipate di contratti derivati? Si tratta di un meccanismo perverso, se così lo si vuole definire, nel quale però l’Italia è inserita da decenni.
I numeri – Ancora, da un recente studio dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, guidato dal neo premier incaricato Carlo Cottarelli, viene fuori che a fine 2017 i 2.263 miliardi di debito pubblico erano detenuti per il 32,3% da investitori esteri. In soldoni fanno 731 miliardi di euro. E questo, in un modo o nell’altro, contribuisce ad alimentare il “ricatto” di cui sopra. Per soppesarlo, basti rammentare come un contributo di non poco conto alla crisi dello spread del 2011 venne dato dalla tedesca Deutsche Bank, che nella prima metà di quell’anno riversò sul mercato la bellezza di 7 miliardi di titoli di Stato italiani fin lì detenuti. La stessa Deutsche Bank, nel frattempo finita sotto inchiesta (prima a Trani poi a Milano), figura nella lista dei suddetti “specialisti in titoli di Stato”. Tutto questo per dire che oggi il Belpaese, per aspetti non marginali, si trova nelle mani di moltissimi centri esteri di potere che lo tengono appeso. Condivisibile volersi ribellare a questa “dipendenza”, come invocano i pentaleghisti. Ma forse non è del tutto peregrino immaginare che Sergio Mattarella, magari in contatto con il presidente della Bce, Mario Draghi, sia a conoscenza di alcuni retroscena di questo meccanismo molto rischiosi per il Paese. Per questo nella valutazione della crisi sarebbe bene mettere a fuoco il fatto che l’Italia, da decenni, tutto è fuorché sovrana nella gestione del debito.