martedì 10 marzo 2015

Trani, agenzie di rating: un processo e domande scomode

Trani, agenzie di rating

Un processo e domande scomode

di Sergio Rizzo

Corriere della Sera, prima pagina, 9 marzo 2015 

Al processo di Trani contro le agenzie di rating accusate di manipolazione del mercato per i declassamenti del nostro debito pubblico avvenuti nel 2010 e nel 2011 il governo italiano non si è costituito parte civile, sollevando pesanti critiche della destra. Critiche, riteniamo, non proprio campate in aria.
In un suo recente parere l’Avvocatura dello Stato ha affermato: «La costituzione di parte civile risulta opportuna qualora vengano in rilievo interessi pubblici, patrimoniali e non patrimoniali, di rilevanza talmente elevata da postulare come necessario l’affiancamento del pubblico ministero nel processo penale». E in questo caso gli interessi patrimoniali dello Stato non si possono certo definire irrilevanti, a cominciare dall’aggravio della spesa per interessi che quelle decisioni hanno causato.
La pubblica accusa ha sottolineato che dopo il declassamento da parte di Standard & Poor’s da A a BBB+ del debito italiano, il governo di Mario Monti dovette pagare in base a una clausola del contratto di finanziamento ben 2,5 miliardi di euro alla Morgan Stanley. Banca d’affari americana che è fra gli azionisti di Mc Graw Hill, proprietario della medesima agenzia di rating.
Andrebbe però pure ricordato che all’epoca dei fatti nessun leader politico di spicco prese la faccenda sul serio: né a destra, né a sinistra. D avanti al fatto che a indagare fosse un pubblico ministero, Michele Ruggiero, di una procura di periferia come quella di Trani, facevano tutti spallucce. Tutti, tranne il deputato del Pd Francesco Boccia, pugliese, che invocò invano la costituzione di un’agenzia di rating europea per liberarsi dal giogo delle società americane, e tranne il suo collega del Pdl Francesco Paolo Sisto, pugliese anch’egli, che capitanò un manipolo di onorevoli del centrodestra pronti a costituirsi loro parte civile.
Fecero spallucce anche uffici giudiziari ben più blasonati. L’inchiesta, come spesso accade in Italia, partì da un esposto presentato da alcune associazioni dei consumatori nel quale si sosteneva che i declassamenti del debito italiano erano funzionali a un’enorme speculazione ai nostri danni orchestrata dai colossi finanziari in combutta con le agenzie di rating. La denuncia era stata recapitata a una decina di procure della Repubblica, da Roma a Milano, ma soltanto quella di Trani la prese in considerazione. Beccandosi anche in seguito gli sfottò di influenti magistrati che l’accusavano neanche troppo velatamente di protagonismo. Convinti com’erano, evidentemente, che tutto sarebbe a finito in una bolla di sapone. Si sbagliavano di grosso: l’inchiesta è sfociata nel rinvio a giudizio di due analisti di Fitch e di sei esperti di Standard & Poor’s. Siamo dunque nuovamente alla decisione del governo di non costituirsi parte civile. Su quella storia si possono avere opinioni politiche diverse. Anche ritenere il procedimento infondato. Magari tutto si concluderà con un’assoluzione e gli imputati ne usciranno immacolati. Glielo auguriamo di cuore. Ma si dà il caso che ci sia un processo in corso nel quale gli interessi dello Stato non sono affatto trascurabili.
Indipendentemente dal dibattimento e dai suoi esiti, qui si pone tuttavia un’altra serie di problemi. Che le valutazioni delle agenzie di rating siano talvolta basate su stime così datate nel tempo da risultare poco aderenti alla realtà del momento in cui avviene il declassamento, è stato oggetto di ampia discussione. Come è conclamato che in capo a quelle società s’intreccino conflitti d’interessi mai risolti, capaci di gettare ombre sulle decisioni. Basterebbe rammentare le figuracce rimediate nei casi Enron e Parmalat. Elementi di cui tutti i governi sono sempre stati a conoscenza, e che avrebbero dovuto consigliare in questo frangente maggiore prudenza e minore indifferenza.
Il fatto è che l’inchiesta di Trani dovrebbe spingere a fare finalmente luce su quelle vicende del 2010-2011 anche i loro protagonisti. Per sgombrare il campo, se non altro, dai sospetti sorti in questi anni alimentando l’idea che la finanza sia diventata soltanto un gioco di biechi complotti.
Alcuni sospetti certamente risibili, come il fatto che il declassamento fosse parte di un disegno planetario ordito per far cadere il governo di Silvio Berlusconi e sostituirlo con un esecutivo prono ai diktat di Berlino e agli interessi degli speculatori mondiali.
Altri, invece, assai meno infondati. Esiste davvero una profonda e inconfessata sudditanza del nostro potere politico, di quale orientamento poco importa, nei confronti della grande finanza internazionale? Un atteggiamento che potrebbe essere motivato dai 160 miliardi di derivati emessi da quei soggetti che il Tesoro ha in portafoglio, e come sta a dimostrare il caso Morgan Stanley possono rivelarsi una bomba a orologeria: meglio allora non farli arrabbiare. Comprensibile, forse. Impossibile, però, non notare come molti dei nostri ex ministri ed ex direttori generali del Tesoro, per non parlare di qualche ex presidente del Consiglio, abbiano avuto in passato o abbiano tuttora rapporti di consulenza o dipendenza con le merchant bank che ci hanno finanziato o hanno prestato servizi lautamente retribuiti dallo Stato italiano. Anche questo aspetto andrebbe chiarito una volta per tutte.