Rapinare l’Italia: la truffa del “risanamento” Bce-Draghi
Quando l’Italia si sbarazzò dell’Iri, che era stata la più grande azienda del mondo al di fuori degli Usa, ottenne solo una riduzione dell’8% del debito: se oggi la Bce impone la manovra “lacrime e sangue”, è perché spera di costringere l’Italia a privatizzare quel che le resta, a cominciare da Eni, Poste e Finmeccanica. Questi i veri obiettivi della drastica politica di “risanamento” imposta dalle lobby finanziarie al riparo della Commissione Europea: lo afferma Daniele Scalea, segretario scientifico dell’Isag, Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, nonché redattore della rivista “Eurasia”. Tesi: il debito è l’alibi di chi vuol mettere le mani sui beni pubblici. Le privatizzazioni? Non hanno mai risolto il problema. Al contrario, paesi come l’Argentina sono “risorti” battendo la strada opposta: rifiutando di pagare.
«Il recente attacco speculativo allo Stato ed alle banche italiane – scrive Scalea, in un intervento ripreso da “Megachip” – ha portato ad un commissariamento del nostro paese da parte di potentati esteri». D’accordo con Usa, Francia e Germania, la Banca Centrale Europea ha cominciato ad acquistare titoli di debito pubblico italiano sul mercato, ma chiedendo in cambio pesanti contropartite. «La “politica di risanamento” che la Bce pretende dall’Italia nasconde dei palesi secondi fini, e non potrebbe essere altrimenti vista la regia – neppure tanto occulta – di potenze estere nella vicenda». Per Scalea, l’ormai famosa lettera di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi a Berlusconi è rivelatrice: «Il duo rappresentante della Bce avrebbe infatti indicato come misura prioritaria la privatizzazione del patrimonio pubblico italiano».
L’analista di “Eurasia” non ha dubbi: «Non esiste un singolo esempio storico in cui le privatizzazioni abbiano portato ad una significativa riduzione del debito d’uno Stato». Il segretario dell’Isag cita il caso italiano dei primi anni ’90, quando «lo Stato procedette, tra le altre cose, alla dismissione di una mega-corporazione industriale-finanziaria, l’Iri», che era la settima maggiore società al mondo per fatturato, e a lungo era stata la più grande impresa planetaria non statunitense. «Ebbene, l’erario incassò in totale 198.000 miliardi di lire, pari ad appena l’8% del debito pubblico (2.500.000 miliardi di lire). Se sollievo vi fu, fu di breve durata, perché oggi il debito pubblico italiano è di oltre 1.900 miliardi di euro, ossia quasi 3.700.000 miliardi di vecchie lire».
Mario Draghi dovrebbe conoscere bene questo caso, aggiunge Scalea, dal momento che all’epoca delle privatizzazioni degli anni ’90 era direttore generale del Tesoro e partecipò alla tristemente nota riunione sul panfilo “Britannia” di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Lo stesso Draghi «dovrebbe ricordarsi anche di come le privatizzazioni (che già erano cominciate negli anni ’80) abbiano portato, alfine, al declino industriale dell’Italia», il paese dell’Olivetti che rinunciò a sviluppare il primo computer brevettato a Ivrea «lasciandolo in mano agli anglosassoni» e della Montedison, altra azienda all’avanguardia, che per prima aveva sperimentato gli Ogm. «Queste amare considerazioni – aggiunge Scalea – potrebbero spingerci a farne d’ancora più aspre circa la scelta del governo Berlusconi di barattare con Sarkozy la Libia e la Parmalat pur d’avere il via libera francese alla nomina di Draghi a prossimo presidente della Bce: in tempi non sospetti notavamo che l’ex dirigente di Goldman Sachs appare più vicino allafinanza anglosassone che al sistema economico italiano».
Ma se le privatizzazioni sono inefficaci, perché Trichet e Draghi, insieme alle cosiddette “parti sociali” (Confindustria e sindacati), pongono l’enfasi su di esse? «Probabilmente – ne deduce l’analista di “Eurasia” – perché rimangono oggi alcuni bocconi ghiotti, aziende solide ed in attivo come Eni, Finmeccanica e Poste Italiane». Aziende tuttora strategiche per lo Stato italiano, «perché operative, rispettivamente, in settori come l’approvvigionamento energetico, la produzione d’armamenti, la banca e le comunicazioni». Pezzi pregiatissimi e decisivi, ai quali l’Italia potrebbe dover rinunciare: ma oltre alla preoccupante prospettiva di perdere il controllo delle industrie strategiche, lasciando in futuro settori vitali dell’economia e della potenza italiana in mano altrui, la “politica di risanamento” impone altri pesanti oneri e sacrifici alla società, come dimostra la finanziaria recentemente annunciata dal governo Berlusconi.
«La logica, ancora una volta, è quella di spostare la ricchezza dai produttori agli speculatori, ossia dai cittadini lavoratori ed imprenditori alle banche ed ai giocatori di borsa, dal profitto e dai salari alla rendita», accusa Daniele Scalea. «È la stessa logica insita nel “quantitative easing” perseguito negli Usa, ma risponde ad una tendenza di più lungo periodo, quella della finanziarizzazione dell’economia occidentale, in cui per l’appunto la rendita e la speculazione hanno preso il sopravvento sull’economia reale e produttiva». Il professor Steve Keen, economista australiano, ha parlato del «più grande trasferimento di ricchezza della storia». L’economista statunitense Dean Baker ha scritto di una «massiccia redistribuzione del reddito agli azionisti ed agli alti dirigenti delle banche». Gli economisti Hossein Askari e Noureddine Krichene hanno affermato che «il potere d’acquisto è sottratto a lavoratori, pensionati e correntisti e donato a debitori e speculatori».
«Non si tratta solo d’un problema di equità o iniquità, ma anche di efficienza e pragmatica», continua Scalea. «Gli stessi padri del liberismo, gli economisti politici classici dell’Inghilterra sette-ottocentesca, sottolineavano il ruolo negativo giocato dalla rendita nella crescita economica». Politiche che favoriscono la rendita sul profitto e sul salario, la speculazione sulle attività produttive, sono del resto cominciate ben prima della crisi del 2008, in parallelo con la finanziarizzazione (e deindustrializzazione) dell’economia occidentale. «Misure di “risanamento” che, per salvare speculatori e “rentier”, colpiscono i produttori e finiscono col dilapidare il capitale umano della nazione». Basti pensare ai tagli al sociale: indebolire le difese delle categorie più esposte significasostanzialmente minare lo stesso sistema-paese nelle sue capacità produttive.
«Un cittadino meno istruito e meno sano apporta minore beneficio alla nazione», osserva Scalea. «Inoltre, il pericoloso sommarsi di riduzione dei servizi ed aumento della pressione fiscale genera malcontento, ed i recenti esempi dei paesi arabi, dell’Inghilterra e della Francia dovrebbero far suonare un campanello d’allarme: l’inasprirsi del conflitto sociale e l’esplodere di tumulti raramente è una buona notizia per un paese, quasi mai lo è per la suaeconomia». Infine, la diminuzione della spesa pubblica può incidere negativamente, oltre che sui servizi, anche sugli investimenti produttivi, come la costruzione di nuove infrastrutture. «Non si vuol qui negare l’opportunità di ridurre la spesa pubblica, ma si contesta che, lungi dal puntare agli sprechi, si opti per tagli salomonici, e che le ristrettezze di bilancio siano dettate e commisurate agl’interessi da pagare ai “rentier”».
Il rischio è che, se tra qualche decennio l’Italia avrà interamente pagato il suo debito, l’avrà però fatto a costo dell’immobilismo e della stagnazione, ritrovandosi così retrocessa nel “secondo mondo”, o addirittura più indietro, avverte Scalea. Alternative possibili? Ci sono, benché se ne parli di rado. Salvatore Cannavò è uno dei pochi giornalisti ad averne proposta una: ricorrere alla tesi del “debito illegittimo” formulata dall’economista francese François Chesnais per disconoscere o rinegoziare una parte del debito. Lo ha fatto l’Ecuador nel 2007. Ma prima ancora, nel 2005, l’Argentina fece di più, ristrutturando per intero il proprio debito: ossia rinegoziando importi e interessi coi creditori, «di fronte all’oggettiva impossibilità di ripagarlo per intero». Per Scalea, si tratta di provvedimenti più moderati del puro e semplice “default sovrano”, ossia la bancarotta e la cancellazione tout court del debito, ma non meno efficaci.
«Ristrutturare il debito – insiste il segretario dell’Isag – non ha avuto che effetti benefici sui paesi che l’hanno fatto». Lo dimostrano le cifre: l’Ecuador nel 2008 fece segnare una crescita record del Pil per il paese, pari al 6,5%. E anche dopo il duro colpo della crisimondiale, oggi cresce d’oltre il 3% l’anno. Dal 2006 ad oggi, il Pil ecuadoregno pro capite è cresciuto di oltre il 70%, e la popolazione sotto la soglia di povertà è diminuita di quasi il 15%. Risultati altrettanto spettacolari in Argentina, dove la crescita del Pil post-ristrutturazione si è assestata attorno al 9% e, dopo il rallentamento in coincidenza con lacrisi mondiale, è tornata al 7,5%. Il reddito pro capite dal 2004 ad oggi è cresciuto di quasi un quinto. Dal 2004 al 2010 la popolazione argentina sotto la soglia di povertà è passata dal 44,3% al 13,9%.
Sempre utilizzando i parametri standard dell’economia, Scalea cita, a titolo di raffronto, gli indicatori italiani: dal 2004, da noi il reddito pro capite è aumentato solo del 10%, mentre il Pil – quando è cresciuto – si è fermato poco oltre 1% all’anno. E alla nostre frontiere mediterranee, ecco il monito della Grecia, catturata dalla spirale debitoria: un quinto della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il reddito pro capite è in calo dal 2007, mentre il prodotto interno lordo è sceso del 2% nel 2009 e del 4,5% nel 2010. «Alla luce di questi dati – conclude Scalea – non resta che da domandarsi: chi vuole imitare l’Italia? La Grecia e le sue ferali prestazioni economiche, oppure l’Argentina che, sgravatasi dal peso del debito pubblico, sta crescendo a ritmi “cinesi”?».