Riparte la campagna terroristica dello spread
di Thomas Fazi
La Repubblica ci fa sapere
che negli ultimi giorni lo spread avrebbe registrato una pericolosa
«fiammata», toccando quota 124,5 punti base per la prima volta dal
novembre scorso. Secondo il quotidiano, si tratterebbe di una “naturale”
reazione dei mercati all’instabilità politica delle ultime settimane e
al rischio – non sia mai! – di nuove elezioni.
La favoletta, insomma, è sempre la stessa: fate i bravi o i mercati
vi puniranno facendovi salire lo spread. L’assunto di fondo è quello
secondo cui i tassi di interesse sarebbero fissati dai mercati, i quali
necessitano di essere “rassicurati” dai governi per mezzo di politiche
“responsabili”.
Quante volte negli anni scorsi ci siamo sentiti dire che se i tassi
salivano era perché non eravamo “affidabili” o perché avevamo un debito
pubblico eccessivo? Questa è stata più o meno la narrazione che ci hanno
imposto per farci ingoiare la macelleria sociale di questi anni. E per
convincerci che i mercati, alla fine della fiera, contano più della
democrazia. Tutti ricorderanno il terrorismo mediatico che si scatenò
intorno all’aumento dello spread ai tempi dell’elezione del governo
gialloverde, tanto per fare un esempio.
Peccato che le cose non funzionino così. I tassi di interesse non li
fissano i mercati; li fissa la banca centrale. Ed è facile intuire
perché: tra i “consumatori” di titoli di Stato che influiscono sulla
domanda finale – e dunque sui tassi di interesse – c’è anche la banca
centrale, che anzi è il “consumatore” più potente di tutti, visto che è
l’unico che può creare dal nulla tutta la moneta di cui ha bisogno. Che
ha, per così dire, un arsenale illimitato.
Ed è per questo che può tranquillamente fissare il tasso di interesse
al livello che vuole: perché se i mercati si rifiutano di sottoscrivere
i nuovi titoli emessi al tasso di interesse fissato dalla banca
centrale, quest’ultima può sempre comprare i titoli essa stessa.
In realtà la banca centrale non ha neanche bisogno di intervenire
direttamente nelle aste (cosa che non fa praticamente nessuna banca
centrale) per determinare il tasso di interesse; gli basta intervenire
sul mercato secondario, dove ci si scambiano i titoli già emessi e se ne
determina così il tasso di rendimento, che a sua volte influisce sul
tasso di interesse dei titoli di nuova emissione. Che è esattamente
quello che fanno tutte le banche centrali, inclusa la BCE: aumentando la
domanda sul mercato secondario, fanno scendere i rendimenti e dunque i
tassi di interesse.
Insomma, i tassi di interesse sono una variabile che dipende sempre
dalla politica monetaria della banca centrale (anche quando quest’ultima
sceglie, per ragioni politiche, di lasciare che siano i
mercati a determinare i tassi). Da un punto di vista strettamente
tecnico, la BCE, se lo volesse, potrebbe tranquillamente portare i tassi
di interesse sui nostri titoli di Stato a zero. Per dirla diversamente,
ogniqualvolta lo spread sale, è perché la BCE permette che salga.
In passato si sarebbe potuto sostenere che lo faceva perché i
trattati le impedivano di intervenire efficacemente sui mercati dei
titoli sovrani (falso perché, come abbiamo visto, quando si è trattato
poi di salvare la baracca col quantitative easing la BCE l’ha fatto
senza problemi). Ma dall’inizio della pandemia la BCE si sta comportando
quasi come una “vera” banca centrale, comprando praticamente tutti i
titoli di nuova emissione di paesi come l’Italia.
E infatti negli ultimi mesi i tassi di interesse di tutti i paesi
dell’eurozona – e dunque gli spread – sono crollati, nonostante un
significativo aumento dei deficit e dei debiti pubblici, tanto che oggi
viene dato per scontato che la BCE, di fatto, sta praticando
un’esplicita politica di controllo sulla curva dei rendimenti simile a
quella praticata dal Giappone e da altri paesi.
Ciò dimostra, al di là di ogni dubbio, che la BCE, se lo vuole, può
sempre impedire che l’aumento del deficit/debito – o la situazione
politica all’interno del paese – spinga all’insù i tassi di interesse. A
maggior ragione oggi che la BCE si è liberata (anche se solo
temporaneamente) dei vincoli autoimposti del passato. Anzi, proprio nei
periodi di turbolenza politica la banca centrale dovrebbe consentire il
regolare svolgimento del processo democratico, invece di lasciare che i
mercati obbligazionari influenzino l’agenda politica del paese.
Allora perché la BCE sta permettendo allo spread di tornare a salire?
Una possibile risposta la troviamo nel già citato articolo della Repubblica,
secondo cui l’aumento dello spread andrebbe letto come un «monito della
BCE, che invita a non sprecare l’opportunità del Recovery Plan». Lo
stesso articolo cita anche una nota dell’agenzia di rating Moody’s,
secondo cui il problema consisterebbe nel fatto che un governo
indebolito complicherebbe il «tempestivo assorbimento dei fondi
europei».
Il nocciolo della questione è tutto qui: dal punto di vista delle
élite nordeuropee, è assolutamente fondamentale che l’Italia prenda i
fondi del Recovery Plan. E non perché non vedono l’ora di ricoprirci di
miliardi per finanziare la ripresa del paese, come ci raccontano il
governo e i media, ma perché il Recovery Plan offrirebbe alle élite in
questione ciò che vanno agognando da sempre: un controllo politico
totale della politica economica dell’Italia, come spiego nel dettaglio qui. E l’attuale maggioranza è la migliore garanzia che l’Italia vada avanti con il Recovery Plan.
Ecco allora che, di fronte al rischio di una crisi di governo, viene
riattivata l’arma dello spread. Il «monito», come lo chiama la Repubblica,
è chiaro: lo scudo della BCE vale solo per quei paesi che seguono i
diktat dell’Europa, a partire dal Recovery Plan; ma se all’Italia
dovesse venire in mente la balzana idea di andare ad elezioni
anticipate, l’Italia verrà nuovamente data in pasto agli speculatori.
La differenza tra l’eurozona e tutti gli altri paesi avanzati sta
tutta qua: in questi ultimi, la banca centrale è effettivamente
dipendente dal governo; nell’eurozona, invece, sono gli Stati ad essere
dipendenti dalla banca centrale. In questo senso, nella misura in cui il
debito italiano rischia di (ri-)diventare insostenibile, questo è
unicamente una conseguenza dell’appartenenza dell’Italia
all’architettura dell’euro.