Ho letto con grande attenzione il saggio Figli di Troika scritto dall’economista Bruno Amoroso (clicca per leggere). Un racconto breve ma intenso che, intelligentemente, offre ai lettori una chiave una di lettura diversa rispetto ai soliti ritornelli dominanti. Siamo sicuri di poter affermare che le politiche del rigore hanno fallito? E se avessero invece trionfato consentendo in maniera dissimulata il ritorno in Occidente di un modello sociale elitario e fondamentalmente neoschiavista? In esclusiva per Il Moralista l’analisi del prof. Amoroso
Prof. Amoroso, in molti cominciano a criticare la politiche improntate ad una cieca austerity sul presupposto che alle prova dei fatti tali scelte si sarebbero rivelate sbagliate. E’ d’accordo?
E’ fuorviante parlare di sbagli tecnici o politici alla base della crisi in atto che continua a flagellare l’Europa, specie quella del sud. L’adozione di una serie provvedimenti legislativi, tutti chiaramente destinati ad alimentare una spirale recessiva, denota al contrario una coerenza di visione perseguita da alcuni gruppi di potere che finiscono con l’avvantaggiarsene. Nessun errore. Al contrario, le politiche “della responsabilità” stanno ottenendo proprio i risultati che intendevano realizzare.
E quali dissimulate intenzioni nascondono in realtà alcune linee di indirizzo politico imposte su scala continentale?
Fino agli anni ’60 vigeva incontrastato un modello paradigmatico sintetizzabile nell’assunto “produzione di massa per consumo di massa”. All’interno di quello schema, la legittima ricerca del profitto non cozzava con l’aspirazione di costruire una società inclusiva e per quanto possibile equa. Questo modello di sviluppo trovava compimento all’interno di una cornice che era rappresentata dai singoli stati nazionali. La globalizzazione ha cancellato quel vecchio mondo. Oggi le istituzioni sovranazionali sovrastano gli Stati nazionali, e i consumi sono diventati esclusivo appannaggio delle classi medio alte. Gli altri, se ci riescono, si arrangino. E’ questa la nuova filosofia dominante.
Quindi il neoliberismo non ha fallito
Proprio per nulla. Il neoliberismo sta realizzando quello che tutti si aspettavano che realizzasse. Non c’è nulla di casuale in quello che accade. La globalizzazione è in buona sostanza una forma di apartheid sociale.
Da cosa desume con certezza la circostanza che la povertà dilagante non sia il risultato di politiche inefficaci prese in buona fede quanto il risultato di un lucido disegno stabilito ex ante?
Senta, le faccio un ragionamento semplice semplice. A detta di tutti la famosa crisi tuttora in atto parte nel 2008 con il fallimento di alcuni colossi americani. Una crisi figlia di una architettura giuridica e istituzionale che sta producendo a cascata danni su scala planetaria. Se i governanti fossero stati in buona fede, cosa avrebbero dovuto fare per impedire il ripetersi di una simile sciagura? Avrebbero dovuto approvare regole nuove e diverse. Siamo d’accordo? E invece cosa hanno fatto? Nulla. Zero. Il financial board, che doveva riformare la finanza mondiale, non serve a niente mentre a nessuno è venuto in mente di tornare allo spirito dello Steagall Act di rooseveltiana memoria. Non solo nessuno ha fatto nulla ma, ne sono certo, c’è perfino chi manovra nell’ombra al fine di preparare le condizioni per permettere il rapido esplodere di un nuovo collasso bancario da “tamponare” mettendo le mani sui risparmi dei cittadini. In Italia solo il Movimento 5 Stelle ha avanzato una proposta di buon senso presentando un progetto di legge tendente a separare le banche speculative da quelle dedite alla gestione del risparmio. Per il resto buio assoluto.
Lei nel suo libro accenna ad una non meglio precisata “finanza incappucciata”. Sono loro, i fratelli, quelli che manovrano la giostra?
Magari erano incappucciati una volta. Ora non lo sono più. Agiscono in maniera sfacciata. Un tempo se ne stavano prevalentemente all’interno dei cosiddetti organismi di controllo, Istat, Banca d’Italia e via discorrendo. Oggi fanno direttamente i ministri. Ma cosa controllerà mai Banca d’Italia che esprime Saccomanni ministro dell’Economia? Lo stesso discorso potrebbe farsi per l’Istat. Tutte queste figure operano alla luce del sole e il sole che oggi in Europa fa più luce di tutti si chiama Mario Draghi. Queste cose non le vede solo chi non vuole vedere o, più spesso, chi non ne ha interesse. La fine dei partiti storici ha accelerato questa deriva. I due veri poteri forti rimasti oggi in circolazione si chiamano finanza e industria della guerra. Giulio Sapelli, a tal proposito, ha scritto pagine illuminanti.
In tutto questo continua ad aleggiare un mistero. Perché la sinistra, storicamente nata con il compito di tutelare i più deboli, continua a prestare il fianco ad una operazione geopolitica sostanzialmente iniqua ed elitaria?
Perché è cambiato il rapporto tra politica e potere. Un tempo le forze progressiste difendevano per costituzione la classi povere cercando uno sponda tattica fra i ceti medi e medio bassi. Stavano insomma dalla parte degli “sfruttati della terra”. La sinistra di oggi invece che fa? Galleggia pensando di rappresentare gli interessi di alcune specifiche categorie sempre sotto l’ombrello protettivo dei soliti potentati finanziari. Anzi, oramai esprimono una classe dirigente che proviene direttamente da quei mondi: penso a Profumo, a Passera e allo stesso Barca. Credono di poter conservare ancora a lungo una posizione di rendita rappresentando una parte di ceto medio destinato nel tempo a scomparire. Si illudono.
Ma come è stato possibile pervenire ad una realtà tanto sottile quanto antidemocratica?
Dal dopoguerra in avanti le cose andarono bene. Esistevano anche allora cicliche crisi dalle quali però il sistema usciva nel suo insieme sempre più solido e rafforzato. Tutto cambiò nel 1971, quando vennero poste le basi per il successivo scioglimento di tutte le grandi imprese. Lo studio del club di Roma del 1969 costituisce il primo serio tentativo di cambiare un paradigma culturale inclusivo fino ad allora universalmente riconosciuto. Il progressivo affermarsi della retorica sulla “competitività” ha determinato il progressivo svuotamento del welfare. Cominciarono a circolare domande del tipo: “Ma perché anche chi non lavora deve avere diritto ad un trattamento decoroso?” Rispolverare ora la vecchia contrapposizione tra capitale e lavoro non ha più alcun senso. Oggi abbiamo da una parte un capitalismo finanziario spesso parassitario che si limita a monetizzare una supremazia nel campo dei saperi attraverso ad esempio lo sfruttamento dei brevetti; dall’altra una massa di nazioni da tenere in condizioni di sottosviluppo per impedire che imparino a fare concorrenza al più ricco Occidente. Lo stesso schema si ripete poi su scala interna. La produzione è funzionale al consumo delle sole classi alte, mentre i salariati e i piccoli imprenditori, già ridotti all’osso, vengono indotti a riscoprire nuove forme di sussistenza sulla scia di un disperato bisogno. Sono i risparmi, non più il solo salario, che rappresentano il prossimo boccone prelibato da spolpare. Il caso Cipro equivale al classico esperimento propedeutico ad una azione su larga scala. Non per niente la direttiva Barnier introduce in tutta Europa il principio secondo il quale le eventuali future crisi bancarie verranno pagate direttamente attingendo al denaro depositato dai correntisti. Questo tipo di rapina verrà presto legittimato dalle norme. Naturalmente al riparo del più assordante silenzio dei principali organi di informazione.
L’europeismo non va più molto di moda…
L’Europa nacque come antidoto per impedire guerre ricorrenti. Oggi è un caso politico prima che economico. L’euro fu voluto dalla Francia convintasi così facendo di poter controllare i tedeschi. Il sistema economico europeo funzionava molto meglio prima dell’introduzione della moneta unica. Tutti gli economisti più seri, già allora, dissero che l’euro non poteva funzionare. Infatti ha fatto danni e altri ne farà. Bisogna tornare allo status quo ante, cioè al serpente monetario europeo che prevedeva dei tassi di cambio negoziati con opportune fasce di oscillazione. Si può tornare indietro senza minacciare strappi unilaterali ma, più ragionevolmente, proponendo a tutti i Paesi dell’area euro una exit strategy armoniosa e coordinata. E’ una strada percorribile che non determinerebbe nessuno scenario apocalittico, con buona pace dei soliti profeti di sventura che negli ultimi anni non hanno azzeccato mai una previsione. I paesi dell’Europa del sud, Italia compresa, sono letteralmente al collasso, devono necessariamente fare massa critica per uscire dalle sabbie mobili nelle quali sono finite. Ma se il nord Europa dovesse continuare a fare orecchie da mercante, a quel punto bisognerebbe minacciare la fine del mercato unico europeo. La Germania, che esporta nel sud d’Europa il 75% delle sue merci, subirebbe un contraccolpo non indifferente.
Ma lei avverte uno spirito solidaristico tra i governanti delle diverse nazioni che compongono l’area euro?
Niente affatto. Ricordo con raccapriccio quando, peggiorando la crisi greca, alcuni politicanti italiani facevano a gara nel precisare che “l’Italia non è la Grecia”. Una vergogna assoluta. I problemi dei Paesi dell’area mediterranea sono i nostri problemi. Ma molti pusillanimi preferiscono non vedere.
E se invece di tornare indietro andassimo avanti, puntando cioè alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa?
Non credo si tratti di una strada percorribile. L’Unione Europea è composta da 28 paesi ma solo in 17 condividono la stessa moneta. La nascita dell’ Europa politica dovrebbe con ogni probabilità riguardare solo gli Stati della zona euro. E gli altri Stati, come ad esempio l’Inghilterra o la Danimarca, cosa farebbero di fronte ad una accelerazione in tal senso? E’ plausibile ritenere che tenderebbero ad allontanarsi ulteriormente approfondendo così la divisione già introdotta con l’euro. Non vorrei poi che le pulsioni belliche manifestate dalla Francia e dalla Gran Bretagna diventassero “patrimonio comune” di una futuribile Europa politica. Si tratta di un rischio concreto e inquietante.
In conclusione, cosa propone di fare per uscire dal pantano?
Innanzitutto chiarire i rapporti tra nord e sud Europa. Dieci paesi europei dimostrano che si può stare in Europa anche senza moneta unica. I diciassette paesi che compongono l’area euro devono rinegoziare i loro equilibri interni. In Europa circolano già oggi undici valute. Non morirà nessuno nel caso in cui diventassero dodici. L’euro così come è oggi rappresenta obiettivamente un grande problema.
E l’Italia?
Il dibattito politico italiano è assolutamente insufficiente. Il Movimento 5 Stelle, pur con qualche ingenuità, è permeabile al dibattito esterno. Per il Pdl e il Pd alcuni argomenti sono tabù. Nel Pdl o nel Pd mai nessuno potrebbe avere l’ardire di presentare un disegno di legge come quello presentato dal senatore pentastellato Vacciano che intende tornare allo spirito dello Steagall Act. Le classi dirigenti dei partiti tradizionali fiancheggiano il sistema di potere finanziario globale perché così facendo difendono se stesse. Molti di loro provengono da quel mondo e lì ritorneranno una volta finito il lavoro all’interno dei partiti. Sono parte del problema. Cosa vuole che risolvano?
Francesco Maria Toscano
29/08/2013