Con l’introduzione dell’euro il cittadino ha perso circa il 50% del suo potere d’acquisto
Debito Pubblico: tutti zitti! Parla il Mercato
di:
Lorenzo Chialastri,
Rinascita
A settembre è tempo di spremitura. La spremitura è l’arte che trasforma la materia in potenza nel suo compimento: l’atto. Nel caso della viticultura è quindi il passaggio dal prodotto naturale, uva, a quello compiuto, vino.
A nessuno di buon senso verrebbe in mente di schiacciare l’uva solo per diletto, sarebbe un puro atto vandalico. Ogni spremitura pertanto non è di per sé un fine, ma un mezzo, ovvero la tecnica attraverso la quale arriviamo allo scopo propostoci. Anche se questa vendemmia fa ben sperare per un buon vino, la spremitura, purtroppo, di questi tempi evoca altri sentimenti lontani da Bacco.
Effettivamente le manovre fiscali alle quali vogliono abituarci, cambiando i termini sopracitati, sono senz’altro delle forme di spremitura. Di questa ultima spremitura, tra pressione fiscale, finanziaria, manovra bis con correttivo, sono molti a chiedersi quali siano le giuste “uve” da spremere per avere il massimo gettito e quindi la risposta più appropriata. La Cgil, primo sindacato dei lavatori e pensionati, vuole allargare e distribuire il peso della manovra attraverso una “tassazione sulle grandi ricchezze, tassazione sui grandi immobili e lo spostamento del peso verso chi ha pagato molto meno di quel che ha o che non ha mai pagato”. Per gli evasori chiede la fine del loro privilegio di non pagare, che paghino tutti si grida, solo così pagheremo meno. Tutto vero, condivisibile, e giusto. Ma la domanda non è solo quella di sapere chi sono e quanto devono pagare. Il punto non è solo stabilire il gradiente del peso fiscale in modo differenziato legandolo senza altro a qualche indicatore di ricchezza che sia il più reale, vero, possibile.
C’è una domanda che deve precedere ogni domanda: Pagare per cosa? Non si tratta d’accettare supinamente una disgrazia e poi cercare di condividerla in base al principio: male comune mezzo gaudio.
Agli albori di molte civiltà si cercava di dare forma istituzionale al potere, o alla prepotenza, alla razzia o alle scorribande del più forte che prendeva quello che gli capitava a tiro, si pretendeva un tributo in cambio del quale “il signore” dava “protezione”. Di quanto dato, strappato, il vassallo non si chiedeva dove andava a finire, l’importante che il padrone saziato lo lasciasse in pace per un po’. Relazioni reciproche tra le parti, tra quella che deteneva il potere e quella che lo subiva, si svilupparono nei secoli a venire, trovando nei diritti dei secondi un maggiore equilibrio di giustizia, nonché una maggiore rintracciabilità di quanto dato e dovuto.
Nel “Contratto Sociale” del 1762, Rousseau scriveva:
“Più i pubblici contributi si allontanano dalla loro fonte, più sono pesanti. Non è sulla quantità delle imposte che bisogna misurare questo carico, ma sul percorso che esse debbono fare per tornare nelle mani da cui sono uscite. Quanto questa circolazione è rapida e ben stabilita, che si paghi poco o molto, il popolo è sempre ricco e le finanze vanno sempre bene. Al contrario, per quanto sia poco ciò che il popolo dà, se questo poco non torna a lui, continuando sempre a dare, ben presto si esaurisce: lo Stato non è mai ricco e il popolo sempre miserabile”. Il vivere in una società avanzata, effettivamente organizzata, comporta il nostro concreto aiuto, partecipazione economica, alla cassa comune dello Stato, e ciò dovrebbe essere sufficiente a garantire la disponibilità di servizi in una forma di gratuità o semi-gratuità. Questo non è lo Stato dei Soviet, ma un normalissimo Stato in cui i suoi cittadini contribuiscono al bilancio con delle entrate al fine di costruire una ricchezza sociale che sia in grado di far star bene tutti.
Torniamo alla domanda di cui sopra: Pagare per cosa? Molti di quelli che fino a qualche decennio fa erano considerati servizi pubblici sono stati, parzialmente o a volte totalmente, rivisti in chiave privata. Persino i fondamentali della cosa pubblica, salute-sanità, scuola-istruzione, nella loro degenerazione qualitativa sottolineano un impoverimento che lascia spazi solo a finanziatori privati. Se prima potevamo avvalerci di servizi più o meno discutibili, ma comunque per tutti, ora spesso siamo costretti a pagare servizi peggiori.
Qualcosa non torna, aumenta la pressione fiscale sul contribuente stremato, da parte di uno stato che è sempre meno stato, e allo stesso tempo il cittadino è costretto a pagare servizi fondamentali. Questo ci rende tutti più deboli e vulnerabili perché veniamo a dipendere dal denaro. Il denaro, in qualunque sua forma (cartacea, digitale), diventa lo spartiacque tra gli uomini, tutti ne siamo più dipendenti, quindi tutti siamo meno liberi, con l’aggravante che il nostro lavoro diventa superfluo e insufficiente al nostro sostentamento. Negativamente a questo aggiungiamo che con l’introduzione dell’euro, questa è una stima di questi giorni da parte degli istituti competenti, il cittadino ha perso circa il 50% del suo potere d’acquisto.
Rousseau si sta senz’altro preoccupando per questa povertà: i contributi pubblici si allontanano sempre più dalla loro fonte, ovvero da noi stessi. Ma non basta, il tutto assume un rivoltamento generale quando, nel tentativo di “migliorare” la situazione, gli esperti del settore hanno la pretesa di curare il male con la malattia stessa. E’ un fatto che a questo punto si dà la responsabilità del disastro attuale non al nuovo corso liberista, ma bensì alla forma residuale di stato sociale sopravvissuta, e alla sua precedente gestione “statalista” della cosa pubblica.
Il debito pubblico è ciò che resta delle scellerate politiche precedenti, ora è tempo di serietà e di rigore, così ci viene detto. Il debito va onorato, costi quel che costi. Per questo motivo, e non per altri, che negli ultimi anni ci hanno abituati a finanziarie, correttivi, manovre bis, riduzione delle spese pubbliche, tutto nel tentativo, per altro vano, di saziare, colmare, quel benedetto buco. Tutto il resto sembra non contare più, anzi diventa persino una colpa aver pensato che in passato la sanità, l’istruzione, la ricerca, abbiano contato tanto. E’ tempo di guardare in faccia la realtà, e quello che abbiamo davanti è soltanto il debito pubblico, la nostra realtà sta prendendo la forma che il debito pubblico esige, ovvero quello della povertà e del baratro. Questa volta, almeno a detta dei nostri politici, gli italiani non volteranno le spalle, è una questione di onore, di credibilità, i mercati, le banche mondiali, ci guardano.
Ha ragione Susanna Camusso, il segretario generale della Cgil, che siamo sull’orlo dell’abisso. L’unica osservazione da fare è purtroppo che l’abisso non è la finanziaria di turno, il baratro purtroppo non è Silvio Berlusconi, magari fosse così, in tal caso basterebbe che a vincere le elezioni fosse un Bersani, ma lo ripetiamo purtroppo non è così. Crederci significa attirare soltanto uno spostamento dell’attenzione.
Angelino Alfano, qualche settimana fa, al suo esordio alla Camera in qualità di segretario politico del partito di governo, scaldando i banchi del Pdl esordisce: “Noi siamo contrari a fantomatici governi tecnici. Chi è stato eletto e governa poi torna al popolo e si fa giudicare. Chi invece presiede un governo tecnico mette le tasse e poi dal popolo a farsi giudicare non ci torna”. Ancora Alfano, rivolgendosi all’opposizione che chiedeva la fine della legislazione perché i mercati lo comandano, risponde: “Autorevoli esponenti del Pd, hanno detto che il governo deve dimettersi perché i mercati lo chiedono. Siamo sgomenti: ma da quando in qua sono i mercati a scegliere il governo o a stabilire che debbono andare a casa?”.
La risposta è veramente facile, perché ciò avviene da quando l’opera di flagellazione dello stato è chiamata “autorevolezza”.
Se non è in malafede, l’ingenuità di Alfano è raccapricciante. E’ ormai da anni che i mercati, questi fantomatici mercati, esercitano un potere autoritario, assoluto, verso tutti i governi e stati, al punto di stabilirne le conformazioni, le finanziarie e le riforme, figuriamoci se non sono in grado di mandarli a caso quando non più utili ai propri scopi. Non sono forse i mercati ad esercitare un potere talmente forte nei confronti di ogni paese al punto d’espropriarli della loro autorità legittima? L’autorità legittima di ogni nazione, indipendentemente dalla sua storia o organizzazione costituzionale, quando c’è si chiama sovranità. L’economia di mercato, per sua connaturale fisiologia, ha prodotto una società di mercato nella quale la politica abdica dal suo ruolo. Viviamo tutti in un mondo a sovranità nazionale limitata, siano paesi del terzo, quarto mondo, o industrializzati, in tutti si ha una dipendenza esplicita ed implicita dal mercato, che è in grado di stabilire, pretendere riforme strutturali (demolizioni strutturali), così come quella di accordare prestiti provenienti dalle stamperie di falsari. Quello di Alfano non è un abbaglio, è soltanto l’interpretazione del ruolo politico formale, ma di una politica, e di politici, che ormai hanno perso oltre che la dignità, l’indipendenza dal grande potere apolide economico.
Ma poi questo mercato, a cui tutto e tutti dobbiamo, cos’è? Chi è?
ale la pena farci queste domande, perché anche se le risposte possono essere complesse, aprendo interi trattati da parte degli esperti, c’è una banale, incontrovertibile, verità che va ricordata, e sotto questa luce, se ricordata, molte cose assumerebbero un aspetto completamente differente e la matassa troverebbe il suo bandolo.
Nell’ultimo libro di Galbraith, il quale, nell’arco della sua vita oltre ad essere un economista e tanto altro non è stato di certo un estremista, ci viene ricordata una sostituzione di parole da parte della “Economia della truffa”. C’è stato un momento nella nostra storia contemporanea in cui gli esperti favorevoli hanno praticamente asportato nelle loro esternazioni economiche, previsioni, la parola capitalismo, sostituendola sistematicamente con quella di mercato. Il capitalismo era, ed è, ancora in grado d’evocare sentimenti negativi, legati allo sfruttamento, quindi può comunque innescare fenomeni di resistenza. Per Galbraith il mercato ha un vantaggio rispetto alla parola capitalismo in quanto assume una forma impersonale, che spinta dalla propaganda, alla sua massima bontà, porta a far credere che il gioco nel mercato è condotto dal consumatore. Il consumatore è il vero, l’unico, uomo nuovo, altro che quello delle ideologie “totalitarie”, egli è l’ultimo esemplare evoluto dotato di massima intelligente, è in grado in base alle sue scelte di premiare il migliore, e quindi è lui attraverso la democratizzazione del consumo globalizzato, a decidere le sorti stesse del mercato. Il mercato è cosa buona e giusta, provate a sostenere il contrario, vi tacceranno di essere perlomeno antidemocratici mandandovi a corsi di rieducazione sostenuti da Oscar Fulvio Giannino.
Ora poniamo l’uguaglianza tra mercato e capitalismo, proviamo a fare tutti i ragionamenti che volete, o che fanno gli esperti, utilizzando non il primo, ma il secondo temine.
Non siamo in grado, tra chi esercita una qualunque forma di potere locale, nazionale, di trovare uno straccio d’uomo in grado di criticare il mercato. Sapete perché? Semplicemente perché politicamente, sindacalmente, culturalmente, giornalisticamente, a quei livelli sono irreperibile forme umane anticapitaliste.
In quest’ottica però assumono un aspetto inquietante certe pretese sindacali, che nel convincere gli operai sulle nuove fasce malattia, sulla flessibilità, sulle pensioni, sulle privatizzazioni, per anni hanno invocato le necessità del mercato. Quei sindacati, tutti tranne quelli di base, in altre parole chiedevano sacrifici ai lavoratori, come del resto sono stati fatti, a favore e per conto del capitalismo. Da questa prospettiva tutto è più chiaro.
D’altronde il maggiore partito di “sinistra”, il Pd, rinfaccia all’attuale governo di non fare abbastanza per i mercati, quindi gli rinfaccia di non essere abbastanza servizievole nei confronti delle aspettative del capitalismo finanziarizzato.
Ovviamente il partito di governo non è d’accordo, una diatriba feroce nell’estenuante tentativo di affermare: io sono più servizievole e a favore del mercato di te.
Difatti il ministro Maurizio Sacconi asserisce che “la decisione del governo di confermare l’articolo 8 nell’impianto della manovra, introducendo la possibilità di derogare alla contrattazione aziendale gli eventuali licenziamenti, rientra nelle richieste che la Banca Centrale ha avanzato al governo”. Ed ancora “ nella lettera nella parte riguardante il mercato del lavoro la Bce, secondo quanto s’apprende, ha infatti chiesto d’agire sulla flessibilità in uscita, togliendo le rigidità”. Il governo per questo e per altro risponde: obbedisco.
Una cosa è certa sicuramente, non c’è scranno parlamentare occupato da qualcuno che non si scaldi in favore del mercato, ed esprima certezze di come sia giusto dare risposte serie allo stesso. Tutti d’accordo, tutti convergono verso lo stesso punto, possono starci divergenze minime di metodo, ma il loro faro è il mercato, altrimenti detto in modo più esplicito: capitalismo mondializzato. Stridente certamente è la loro convinzione democratica nel voler invece servire a tutti i costi un potere che oltre estraneo al popolo mandatario, è pure privato. Probabilmente il concetto di democrazia nell’universo liberista assume proprio queste fattezze.
L’impressione che abbiamo è quella che tutti sono d’accordo sulla necessità di trovare “uva” per una corposa spremitura. L’unica cosa che cambia tra le parti è solo se spremere più un tipo d’uva o un’altra, e in questo confuso riempire il torchio, nessuno ha più interesse del fine, ovvero: per quale vino?
In questa spremitura, malgrado la giusta reazione all’ultima finanziaria, troviamo pure la Cgil. Di fatto il sindacato, anche se per una più equa spremitura, non sembra voler mettere il dito nella piaga. In questo non ci riferiamo soltanto alla circostanza che la Camusso, nel tentativo di indicare altri settori alternativi dove spremere e tagliare sui sprechi, scavalchi a piedi pari l’esorbitante spesa militare che l’Italia consuma per le sue missioni di guerra, pardon di pace. Far rientrare i militari su suolo patrio ci farebbero risparmiare svariati milioni di euro al giorno, compresi i festivi, evidentemente le missioni da parte della Cgil non sono da considerare degli sprechi, e comunque parlarne sarebbe cosi poco politicamente corretto visto che i finanziamenti, rifinanziamenti, sono stati votati, rivotati, all’unanimità, anche, e con la gioia, del partito di riferimento del sindacato stesso. Meglio buttarla in caciara e cantare “Bella ciao”.
Ma non è su questo che si voleva attirare l’attenzione, ma bensì sul fatto, molto più grave, che dal sindacato non parte una seria critica nei confronti del mercato e del capitalismo finanziarizzato in generale. Sarebbe opportuno, condizione minima, che il sindacato non si preoccupasse di saldare il debito, o di costruire credibilità di fronte ai mercati, il capitalismo ha già troppi impavidi paladini.
Per decenni abbiamo assistito a sindacati completamenti ammutoliti, quando non entusiasti, di fronte ai Lanzichenecchi. Mentre le operazioni di liberalizzazione, privatizzazione delle aziende pubbliche, avvenivano non uno sciopero generale è stato intrapreso. Eppure di quella lunga catena di svendite e riforme strutturali, nulla è servito per ridurre il famigerato debito pubblico, anzi.
Questa deve diventare una consapevolezza per ogni sindacato che voglia intraprendere seriamente il proprio ruolo, bisognerebbe iniziare con un mea culpa, e il resto, compreso i lavoratori inscritti verrebbe da se.
Tutti i nostri sforzi da onesti cittadini e lavoratori, intesi proprio come porzioni di salario, di tasse, proventi delle svendite del patrimonio pubblico, sono risucchiati dal buco nero del debito pubblico. In esso si trovano le ragioni prime e ultime delle nostre disgrazie così come del dissesto finanziario dell’ultimo comune d’Italia. Di essi, dei nostri sforzi, si perde ogni rintracciabilità e niente ne abbiamo di ritorno.
Il sistema capitalistico finanziario ha posto le sue strutture “legali”, quale le banche centrali, quella mondiale, i fondi mondiali, come sportelli di riscossione e di gestione, sono loro i novelli arcigni esattori.
Non permettetevi di chiamarlo sfruttamento capitalistico, sono solo le libere, sane, giuste, leggi del mercato, non cercate socialismo e neanche un novello Robin Hood, tutto sotto controllo, è la democrazia del libero mercato.
Nella grande filiera del debito pubblico ci sono due estremi, da una parte chi detiene il potere del denaro e lo perpetua arbitrariamente battendo moneta dal nulla, signoraggio, dall’altro ci sarà sempre uno stato, o meglio il suo popolo eternamente indebitato, che fintanto rimarrà soggiogato dal ricatto resterà trafelato nell’inutile rincorsa dietro al debito.
“Quando si arriva a controllare la moneta, la sua creazione, il suo prestito, i tassi d’interesse, si ha in pugno lo stato, l’economia, la gente”... “l’essenza del potere non è la proprietà, il dominio delle cose, ma il dominio dei comportamenti delle persone” (da Euro schiavi di Della Lula e Miclavez).
Ricapitolando: è importante pagare le tasse, non è importante se tanto o poco, ma l’importante è quanto di quello dato rientra nella comunità come servizi (Rousseau).
La spremitura attuale non è finalizzata ad un “nostro “ vino, ma persegue lo scarico del tino nel buco nero chiamato debito pubblico. Il debito pubblico è lo spettro dei mercati, che più propriamente è il caso che torniamo a chiamare capitalismo (Galbraith).
L’economia di mercato, il capitalismo, produce una società di mercato, la quale presuppone la perdita d’ogni sovranità per gli stati nazionali, ogni forma di potere è commissariata da un unico committente. Nel mercato assoluto, totale, non è il consumatore, e tanto meno l’uomo, il soggetto della società casomai è l’oggetto, in esso l’unico dio e protagonista è il profitto. Il profitto privato è il nemico d’ogni giustizia e istituzione sociale.
Il debito pubblico è inestinguibile, per sua legge connaturale, le banche battono carta straccia che diventa moneta, e gli stati (popoli) diventano debitori eterni degli istituti privati. L’indebitamento pubblico è il più eccellente sistema di controllo sui popoli.
Il millantato debito pubblico è stato il pretesto, passato e presente, delle liberalizzazioni, privatizzazione, precarizzazioni e svendite dei gioielli di stato.
Queste traiettorie, così sommariamente riproposte, possono essere condivise in parte o completamente, magari corrette, ma rimane comunque certo che tutte passano, incrociano, per uno stesso punto. Questo punto è il vertice di una ostilità ragionata nei confronti del mercato globale, integrale, altrimenti e più propriamente detto capitalismo finanziarizzato.
Lorenzo Chialastri
ale la pena farci queste domande, perché anche se le risposte possono essere complesse, aprendo interi trattati da parte degli esperti, c’è una banale, incontrovertibile, verità che va ricordata, e sotto questa luce, se ricordata, molte cose assumerebbero un aspetto completamente differente e la matassa troverebbe il suo bandolo.
Nell’ultimo libro di Galbraith, il quale, nell’arco della sua vita oltre ad essere un economista e tanto altro non è stato di certo un estremista, ci viene ricordata una sostituzione di parole da parte della “Economia della truffa”. C’è stato un momento nella nostra storia contemporanea in cui gli esperti favorevoli hanno praticamente asportato nelle loro esternazioni economiche, previsioni, la parola capitalismo, sostituendola sistematicamente con quella di mercato. Il capitalismo era, ed è, ancora in grado d’evocare sentimenti negativi, legati allo sfruttamento, quindi può comunque innescare fenomeni di resistenza. Per Galbraith il mercato ha un vantaggio rispetto alla parola capitalismo in quanto assume una forma impersonale, che spinta dalla propaganda, alla sua massima bontà, porta a far credere che il gioco nel mercato è condotto dal consumatore. Il consumatore è il vero, l’unico, uomo nuovo, altro che quello delle ideologie “totalitarie”, egli è l’ultimo esemplare evoluto dotato di massima intelligente, è in grado in base alle sue scelte di premiare il migliore, e quindi è lui attraverso la democratizzazione del consumo globalizzato, a decidere le sorti stesse del mercato. Il mercato è cosa buona e giusta, provate a sostenere il contrario, vi tacceranno di essere perlomeno antidemocratici mandandovi a corsi di rieducazione sostenuti da Oscar Fulvio Giannino.
Ora poniamo l’uguaglianza tra mercato e capitalismo, proviamo a fare tutti i ragionamenti che volete, o che fanno gli esperti, utilizzando non il primo, ma il secondo temine.
Non siamo in grado, tra chi esercita una qualunque forma di potere locale, nazionale, di trovare uno straccio d’uomo in grado di criticare il mercato. Sapete perché? Semplicemente perché politicamente, sindacalmente, culturalmente, giornalisticamente, a quei livelli sono irreperibile forme umane anticapitaliste.
In quest’ottica però assumono un aspetto inquietante certe pretese sindacali, che nel convincere gli operai sulle nuove fasce malattia, sulla flessibilità, sulle pensioni, sulle privatizzazioni, per anni hanno invocato le necessità del mercato. Quei sindacati, tutti tranne quelli di base, in altre parole chiedevano sacrifici ai lavoratori, come del resto sono stati fatti, a favore e per conto del capitalismo. Da questa prospettiva tutto è più chiaro.
D’altronde il maggiore partito di “sinistra”, il Pd, rinfaccia all’attuale governo di non fare abbastanza per i mercati, quindi gli rinfaccia di non essere abbastanza servizievole nei confronti delle aspettative del capitalismo finanziarizzato.
Ovviamente il partito di governo non è d’accordo, una diatriba feroce nell’estenuante tentativo di affermare: io sono più servizievole e a favore del mercato di te.
Difatti il ministro Maurizio Sacconi asserisce che “la decisione del governo di confermare l’articolo 8 nell’impianto della manovra, introducendo la possibilità di derogare alla contrattazione aziendale gli eventuali licenziamenti, rientra nelle richieste che la Banca Centrale ha avanzato al governo”. Ed ancora “ nella lettera nella parte riguardante il mercato del lavoro la Bce, secondo quanto s’apprende, ha infatti chiesto d’agire sulla flessibilità in uscita, togliendo le rigidità”. Il governo per questo e per altro risponde: obbedisco.
Una cosa è certa sicuramente, non c’è scranno parlamentare occupato da qualcuno che non si scaldi in favore del mercato, ed esprima certezze di come sia giusto dare risposte serie allo stesso. Tutti d’accordo, tutti convergono verso lo stesso punto, possono starci divergenze minime di metodo, ma il loro faro è il mercato, altrimenti detto in modo più esplicito: capitalismo mondializzato. Stridente certamente è la loro convinzione democratica nel voler invece servire a tutti i costi un potere che oltre estraneo al popolo mandatario, è pure privato. Probabilmente il concetto di democrazia nell’universo liberista assume proprio queste fattezze.
L’impressione che abbiamo è quella che tutti sono d’accordo sulla necessità di trovare “uva” per una corposa spremitura. L’unica cosa che cambia tra le parti è solo se spremere più un tipo d’uva o un’altra, e in questo confuso riempire il torchio, nessuno ha più interesse del fine, ovvero: per quale vino?
In questa spremitura, malgrado la giusta reazione all’ultima finanziaria, troviamo pure la Cgil. Di fatto il sindacato, anche se per una più equa spremitura, non sembra voler mettere il dito nella piaga. In questo non ci riferiamo soltanto alla circostanza che la Camusso, nel tentativo di indicare altri settori alternativi dove spremere e tagliare sui sprechi, scavalchi a piedi pari l’esorbitante spesa militare che l’Italia consuma per le sue missioni di guerra, pardon di pace. Far rientrare i militari su suolo patrio ci farebbero risparmiare svariati milioni di euro al giorno, compresi i festivi, evidentemente le missioni da parte della Cgil non sono da considerare degli sprechi, e comunque parlarne sarebbe cosi poco politicamente corretto visto che i finanziamenti, rifinanziamenti, sono stati votati, rivotati, all’unanimità, anche, e con la gioia, del partito di riferimento del sindacato stesso. Meglio buttarla in caciara e cantare “Bella ciao”.
Ma non è su questo che si voleva attirare l’attenzione, ma bensì sul fatto, molto più grave, che dal sindacato non parte una seria critica nei confronti del mercato e del capitalismo finanziarizzato in generale. Sarebbe opportuno, condizione minima, che il sindacato non si preoccupasse di saldare il debito, o di costruire credibilità di fronte ai mercati, il capitalismo ha già troppi impavidi paladini.
Per decenni abbiamo assistito a sindacati completamenti ammutoliti, quando non entusiasti, di fronte ai Lanzichenecchi. Mentre le operazioni di liberalizzazione, privatizzazione delle aziende pubbliche, avvenivano non uno sciopero generale è stato intrapreso. Eppure di quella lunga catena di svendite e riforme strutturali, nulla è servito per ridurre il famigerato debito pubblico, anzi.
Questa deve diventare una consapevolezza per ogni sindacato che voglia intraprendere seriamente il proprio ruolo, bisognerebbe iniziare con un mea culpa, e il resto, compreso i lavoratori inscritti verrebbe da se.
Tutti i nostri sforzi da onesti cittadini e lavoratori, intesi proprio come porzioni di salario, di tasse, proventi delle svendite del patrimonio pubblico, sono risucchiati dal buco nero del debito pubblico. In esso si trovano le ragioni prime e ultime delle nostre disgrazie così come del dissesto finanziario dell’ultimo comune d’Italia. Di essi, dei nostri sforzi, si perde ogni rintracciabilità e niente ne abbiamo di ritorno.
Il sistema capitalistico finanziario ha posto le sue strutture “legali”, quale le banche centrali, quella mondiale, i fondi mondiali, come sportelli di riscossione e di gestione, sono loro i novelli arcigni esattori.
Non permettetevi di chiamarlo sfruttamento capitalistico, sono solo le libere, sane, giuste, leggi del mercato, non cercate socialismo e neanche un novello Robin Hood, tutto sotto controllo, è la democrazia del libero mercato.
Nella grande filiera del debito pubblico ci sono due estremi, da una parte chi detiene il potere del denaro e lo perpetua arbitrariamente battendo moneta dal nulla, signoraggio, dall’altro ci sarà sempre uno stato, o meglio il suo popolo eternamente indebitato, che fintanto rimarrà soggiogato dal ricatto resterà trafelato nell’inutile rincorsa dietro al debito.
“Quando si arriva a controllare la moneta, la sua creazione, il suo prestito, i tassi d’interesse, si ha in pugno lo stato, l’economia, la gente”... “l’essenza del potere non è la proprietà, il dominio delle cose, ma il dominio dei comportamenti delle persone” (da Euro schiavi di Della Lula e Miclavez).
Ricapitolando: è importante pagare le tasse, non è importante se tanto o poco, ma l’importante è quanto di quello dato rientra nella comunità come servizi (Rousseau).
La spremitura attuale non è finalizzata ad un “nostro “ vino, ma persegue lo scarico del tino nel buco nero chiamato debito pubblico. Il debito pubblico è lo spettro dei mercati, che più propriamente è il caso che torniamo a chiamare capitalismo (Galbraith).
L’economia di mercato, il capitalismo, produce una società di mercato, la quale presuppone la perdita d’ogni sovranità per gli stati nazionali, ogni forma di potere è commissariata da un unico committente. Nel mercato assoluto, totale, non è il consumatore, e tanto meno l’uomo, il soggetto della società casomai è l’oggetto, in esso l’unico dio e protagonista è il profitto. Il profitto privato è il nemico d’ogni giustizia e istituzione sociale.
Il debito pubblico è inestinguibile, per sua legge connaturale, le banche battono carta straccia che diventa moneta, e gli stati (popoli) diventano debitori eterni degli istituti privati. L’indebitamento pubblico è il più eccellente sistema di controllo sui popoli.
Il millantato debito pubblico è stato il pretesto, passato e presente, delle liberalizzazioni, privatizzazione, precarizzazioni e svendite dei gioielli di stato.
Queste traiettorie, così sommariamente riproposte, possono essere condivise in parte o completamente, magari corrette, ma rimane comunque certo che tutte passano, incrociano, per uno stesso punto. Questo punto è il vertice di una ostilità ragionata nei confronti del mercato globale, integrale, altrimenti e più propriamente detto capitalismo finanziarizzato.
Articolo letto: 294 volte (14 Settembre 2011)