giovedì 11 aprile 2013
Quirinale, l’influenza di Washington
Da Lockheed a Bilderberg quegli amici americani che “votano” per il Colle
Fonte: CONCITA DE GREGORIO, la Repubblica
Martedì 09 Aprile 2013 08:52 -
Quirinale, l’influenza di Washington
L’OMBRA dell’America è verde come il colore dei dollari. Tuona come le armi che varcano
l’oceano in perpetuo e spesso illecito commercio. Parla la lingua dei banchieri, la sola lingua
degli affari. Si affaccia sull’Italia dalla postazione mediterranea di Israele, si ammanta del
velluto della diplomazia quando riunisce a convegno i potenti del mondo, a centinaia e a porte
chiuse, in esclusive dimore in cui confortati da coppe d’argento colme di praline si discute di
come “favorire le relazioni economiche fra blocchi”.
DI SOLDI, in pratica. Di soldi e di chi li gestisce. C’è un momento esatto della storia in cui
tutto questo, di solito materia per complottisti appassionati della letteratura di genere, diventa
chiaro e inconfutabile. È un discorso pubblico. Quello che il senatore Frank Church fa al
Senato degli Stati Uniti mentre esibisce le prove – trascrive il
New York Magazine, siamo nel 1976 - che «la Lockheed corporation ha pagato tangenti in
almeno 15 paesi e in almeno sei ha provocato crisi di governo».
Uno di quei Paesi è l’Italia.
Il presidente in carica è Giovanni Leone. La Lockheed, colosso dell’industria aeronautica usa,
paga uomini di stato e di governo per piazzare i suoi aerei. Il loro delegato in Italia si chiama
Antonio Lefebvre.
Compare tra le carte uno scambio di assegni per 140 milioni fra Lefebvre e la signora Leone. Il
nome in codice del destinatario di quel denaro è – si dice a voce alta nelle aule del Senato
Usa – Antelope Cobbler. Ma forse c’è un errore di trascrizione, è gobbler non cobbler. In
questo caso sarebbe: chi mangia l’antilope. Una disdetta chiamarsi proprio in quel momento
Leone. I giornali deducono, è un massacro.
Più o meno negli stessi anni, a partire da un decennio prima, i soldi della Lockheed avevano
cominciato ad arrivare copiosissimi al principe consorte dei Paesi Bassi, Bernardo, in cambio
dell’acquisto di forniture di Starflighter e altre cortesie. Il Principe Bernardo è stato – per
coincidenza - il primo presidente della Bilderberg, associazione di finanzieri, banchieri, politici
e uomini di Stato fondata nel ’54 allo scopo di “favorire la cooperazione economica fra Stati
Uniti ed Europa”. I membri del gruppo, circa 130, si riuniscono ogni anno in un conclave a porte
chiuse. Sempre in un paese diverso, ogni 5 anni in America, sempre in primavera inoltrata. La
prossima riunione sarà forse vicino a Londra, forse la prima settimana di giugno. E’ un segreto.
Pochissimi gli italiani ammessi. Tra gli ultimi John Elkann, Gianni Letta, Franco Bernabè. Negli
anni e nei decenni
precedenti Tremonti, Monti, Draghi, Padoa Schioppa, Siniscalco, Prodi, finchè erano in vita
naturalmente gli Agnelli, l’ex ministro Ruggiero, prima ancora Giorgio La Malfa Claudio Martelli
Virginio Rognoni. Ogni tanto qualche giornalista, una volta Veltroni, una Emma Bonino. Ai
grandi gruppi economico-politici internazionali, alla finanza e dunque alla politica
nordamericana interessa molto e moltissimo chi governa, chi comanda, chi ha influenza in
Europa, e in subordine in Italia. Gli ambasciatori sono per loro missione di questo curiosi,
prediligono le anticipazioni. Ricevono politici in ascesa, annusano l’aria che tira. L’attuale
ambasciatore Thorne ha per esempio grandissimo interesse per Beppe Grillo e per il suo
movimento, interesse decuplicato dalla prospettiva eventuale di un referendum anti-euro
che, come si capisce, non arrecherebbe alcun danno alla supremazia del dollaro come
moneta di riserva. Reginald Bartholomev, ambasciatore dal ‘93 al ‘97, gli anni di Scalfaro, ha
raccontato poco prima di morire a Maurizio Molinari, era l’agosto del 2012, delle relazioni del
consolato di Milano con il pool di Mani pulite e delle sue con i leader politici: «Venne una
delegazione dc, erano tristissimi, sembrava un funerale». Prodi voleva essere ricevuto subito
da Clinton, ma non si poteva. Con Massimo D’Alema si sviluppò «un rapporto che sarebbe
durato nel tempo».
Gli ambasciatori sondano, fanno ricevimenti, conoscono i nuovi, coltivano l’interesse del loro
Paese. Sono in stretta relazione coi gruppi di affari e di discussione politica dove nascono
intese. Uno è il gruppo Bilderberg, un altro è l’entourage della banca d’affari Goldman Sachs
che si è avvalsa nel tempo dei consigli di Prodi, Draghi, Monti, Gianni Letta. Uno è l’Aspen,
che in Italia conta su Amato Prodi e D’Alema, un altro ancora è la Trilaterale fondata da
Rockefeller nel giugno del ‘73 con lo scopo di “favorire le relazioni fra Europa, Usa e
Giappone”. Monti l’ha presieduta fino al 2011. La frequentano la consulente per la politica
estera di D’Alema Marta Dassù, il giovane
Elkann, Enrico Letta, Carlo Pesenti, Guarguaglini, Sella di banca Sella, Sala di Intesa San
Paolo, vari esponenti di Confindustria. Molti anni fa Kissinger e Agnelli, oggi i loro eredi.
«Giulio Andreotti era amico personale di Rockefeller, il fondatore della Trilaterale. Moltissime
volte il banchiere lo ha pregato di fargli l’onore di partecipare ai loro incontri, posso
testimoniarlo – racconta Paolo Cirino Pomicino, vecchio dc – Andreotti non ha mai accettato
perché, diceva, la politica e i banchieri fanno mestieri diversi, è bene che non si mescolino».
Non è vero, non è questa la ragione. Questo era quel che Andreotti diceva, certo, ma ciò che
gli ebrei d’America non gli perdonavano era in realtà la sua attenzione alla causa palestinese –
tra le altre il suo essere filoarabo in nome di una ricerca del dialogo fra i popoli che nella
tradizione dc ha avuto un campione in La Pira. Il suo sguardo a un’altra parte di mondo, ad
altri interessi e, in Europa, ad altro tipo di famiglie che in quanto a potere e liquidità potevano
competere con i banchieri americani. Altre banche, in un certo senso, che gli consentivano di
dire agli Usa: no, grazie. Non è del resto un caso che Andreotti non sia mai stato eletto al
Quirinale. Dice ancora Pomicino, in procinto di presiedere al Parco dei Principi di Roma, il 12,
un convegno su “politica ed economia nel nuovo quadro politico”: «Senza le credenziali degli
americani e in specie delle grandi banche d’affari oggi nessuno può pensare di aspirare
seriamente al Quirinale. Del resto nessuno dei presidenti italiani è stato mai davvero sgradito
all’America. Anzi. Tutt’al più, quando era irrilevante, è stato ignorato».
Nessuno può farcela senza le credenziali giuste. E’ sempre stato così. Il primo pensiero di
Einaudi, appena insediato nel maggio ‘48, fu di mandare un telegramma amichevolissimo a
Truman. Quello di Gronchi di farsi perdonare dell’essere stato eletto coi voti del Pci, e
pazienza se la visita ad Eisenhower fu funestata da un’improvvida intervista preventiva in cui
Gronchi diceva che sarebbe stato utile riconoscere la Cina popolare e ammetterla all’Onu.
Henry Luce, proprietario del Time, ne riferì sul suo giornale. Sua moglie Claire Booth,
ambasciatrice in Italia, se ne lagnò con parole vivaci. Fu il Washington Post a liquidare la
questione: il presidente italiano non conta nulla, è solo decorativo. Con Segni comincia la
stagione del golpismo, sul fondo sempre sfuggente e viva l’ombra della rete atlantica. Prima il
tintinnar di sciabole del “Piano Solo”, ordito per la “tutela dell’ordine pubblico” allo scopo di
incarcerare “esponenti politici pericolosi”. Poi Saragat, tanto amato dal presidente Johnson,
compagno di battute di caccia di Licio Gelli e capo dello Stato al tempo del tentato golpe del
principe nero Junio Valerio Borghese. E’ nel settennato di Leone, s’è visto, che le reti di
intelligence iniziano a lasciare spazio alla più moderna legge degli affari. Scoppia lo scandalo
Lockheed, armi e tangenti. Le Br in Italia rapiscono Moro, Cossiga è ministro dell’Interno.
Quando sarà eletto presidente, dopo il settennato di Pertini, si ricomincerà a parlare di reti
misteriose e di oscuri finanziatori: il piano Stay Behind, conosciuto come Gladio, doveva
armare una rete di incursori pronti a respingere un eventuale tentativo di invasione sovietica.
Siamo alla fine degli anni Ottanta.
Alla fine di quel decennio arrivano Gorbaciov e la sua Perestroijka, la Russia non è più quella
di prima, nessuno sbarco in armi sembra più possibile. C’è Scalfaro, ora, al Quirinale. C’è il
ciclone di Mani Pulite che spazza via una stagione di politica corrotta per lasciare spazio ad
una generazione nuova. Più avvezza all’uso di mondo, alle relazioni internazionali, alla lingua
degli uomini d’affari. E’ dal denaro adesso, dalla finanza che passano gli interessi politici.
Cresce l’influenza delle agenzie di
brain storming, i conclave a porte chiuse, avanzano i tecnocrati. E’ ai banchieri che si ricorre
quando la politica tace o sobbolle di sue interne diatribe. Ciampi, una traiettoria politicamente
specchiatissima culminata in Bankitalia, è eletto all’unanimità e al primo scrutinio, salutato nel
’99 come salvatore della patria. Napolitano è a Monti che pensa quando deve tenere ferma la
rotta del Paese in un momento di crisi economica gravissima. Per la successione più d’uno
dice Draghi. Ma poi anche i banchieri finiscono, o hanno altro di più importante da fare. Ed è
sempre alla politica, alla fine, che bisogna tornare.
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