domenica 30 ottobre 2011

Indagato il presidente di Bpm Ponzellini


Il Fatto Quotidiano29 ottobre 2011
Indagato il presidente di Bpm Ponzellini
Nel mirino un prestito alla Atlantis di Corallo
Ostacolo alle Autorità di vigilanza. Con quest'accusa i pm hanno indagato Massimo Ponzellini, presidente dal 2009 della Banca Popolare di Milano. Al centro delle indagini è finito il finanziamento da 148 milioni di euro alla società Atlantis/BetPlus, attiva nei giochi d'azzardo, con sede nelle Antille olandesi e facente capo a Francesco Corallo, figlio di Gaetano, condannato per reati di criminalità organizzata, e legato al clan di Nitto Santa Paola

Il presidente di Banca popolare di Milano Massimo Ponzellini
Ostacolo alle Autorità di vigilanza. Con quest’accusa i pm Roberto Pellicano e Mauro Clerici hanno indagato Massimo Ponzellini, presidente dal 2009 della Banca Popolare di Milano (Bpm), l’istituto da mesi al centro di un’aspra lotta tra sindacati e correnti interne (leggi). Il procedimento, come rivela oggi La Repubblica, ha preso spunto dal rapporto ispettivo di Banca d’Italia, che secondo i pubblici ministeri, avrebbe portando all’emersione di un grave fenomeno associativo “coltivato all’interno delle strutture della Bpm”. Sullo sfondo, l’ombra della criminalità organizzata.

Al centro delle indagini è finito il finanziamento da 148 milioni di euro alla società Atlantis/BetPlus, attiva nei giochi d’azzardo, “un finanziamento che – scrivono i pm in un decreto di sequestro – appare incomprensibile, sia secondo i canoni di buona amministrazione sia, più gravemente, secondo le regole della disciplina in materia di riciclaggio”. La Atlantis, vincitrice di una gara d’appalto con l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (Aams) diretta daAntonio Tagliaferri, avrebbe ricevuto un prestito dalla banca di Ponzellini. Ma questa società, risalendo la catena di controllo, farebbe capo attraverso una società offshore con sede a Saint Lucia (Antille Olandesi) a Francesco Corallo, figlio di Gaetano, condannato per reati di criminalità organizzata, e legato al clan di Nitto Santa PaolaNell’ottobre 2010 Il Fatto Quotidiano aveva chiesto al direttore dei giochi dell’Aams Tagliaferri se dietro alla Atlantis ci fosse realmente Corallo jr (leggi l’articolo di Marco Lillo). Il dirigente che da anni si occupa del settore dominato da Atlantis World e Betplus e che a gennaio 2011 è stato nuovamente confermato – aveva ammesso: “Non so chi sia la persona fisica che sta dietro la ex Atlantis World”. Tagliaferri sosteneva infatti di avere interessato inutilmente la Prefettura di Roma al riguardo: “Abbiamo chiesto più volte se la società Atlantis World fosse in regola con i requisiti dellalegislazione antimafia e ci hanno sempre risposto di sì. La legislazione non ci attribuisce altri poteri”. Ora, secondo i magistrati si apre un nuovo fronte di indagine: i ricavi della Atlantis, infatti, finirebbero fuori dall’Italia, senza saperne la destinazione.

A rivelare le anomalie nei finanziamenti, la consulenza tecnica del pubblico ministero resa nota daLa Repubblica: “Secondo quanto informalmente appreso in azienda, la relazione è stata introdotta dal Presidente in quanto diretto conoscente dell’amministratore delegato, presso la filiale di Bpm di Roma il cui responsabile era allora il dottor Lucca (attuale responsabile della direzione concessione crediti)”. Sempre secondo la consulenza, alcuni consiglieri avrebbero espresso ampi dubbi sull’affidabilità del socio di controllo. Per questo, la pratica avrebbe avuto un iter particolarmente contrastato anche se, scrivono i tecnici, “sarebbe stata poi approvata anche sulla base della forte sponsorizzazione del Presidente (Ponzellini, ndr) oltre che per alcuni approfondimenti condotti circa la sussistenza dei requisiti richiesti per ottenere la concessione governativa”.

La Guardia di finanza ha perquisito gli uffici di Roma dell’Aams di Tagliaferri per capire i legami di quest’ultima con il gruppo Atlantis e fugare i dubbi emersi anche su un aumento di una fideiussione in occasione della quale non sarebbero stati verificati i requisiti della società, primo fra tutti la necessità che la società per ottenere le concessioni sui giochi d’azzardo dalla Stato italiano non avesse sede in Paesi a fiscalità agevolata. Anche perché il direttore generale di Aams, Raffaele Ferrara, è presidente dell’Organismo di Vigilanza della Bpm.

Salgono così a due i grandi manager italiani di banca messi sotto inchiesta dalla magistratura. Lo scorso 17 ottobre è stata infatti la volta di Alessandro Profumo accusato dal procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo di aver ideato, gestito e condotto una colossale operazione finanziaria – nel periodo in cui Profumo era amministratore delegato di Unicredit – al fine di frodare il fisco per un valore totale di 245 milioni di euro.

UE: una rapina a mano armata

‘BENEFICI’ UE 

Una rapina a mano armata

di Ugo Gaudenzi, Rinascita

E così, allo schiaffo del “sorrisetto” alla giornalista che chiedeva se l’Italia era “affidabile”, l’inquilino dell’Eliseo (in fase di trasloco) ha aggiunto un altro amabile commento anti-italiano. Parlando alla tv francese, il presidente Nicolas Sarkozy ha infatti dichiarato che l’eurocrazia “ha salvato la Grecia per salvare l’Italia”.
Da un tale micro-Mefistofele di turno - ma anche Frau Merkel non è mica una mammoletta, basti pensare al continuo dichiarare inaffidabile il governo di Roma e il continuo “preferire” il Quirinale (abitato dal suo alter ego già quadro del Pci atlantico: anche lei è un’ex funzionaria Ddr convertita atlantica) - non ci si poteva aspettare certo la verità.
Se l’eurocrazia capitanata dal duo Merkozy ha lanciato ultimatum e aut-aut ai “piigs” (gli Stati-maiale in difficoltà, così ci chiamano), non l’ha fatto minimamente per “salvarli”. Anzi.
La verità è che le Mesdames Banques di Francia, di cui Sarkozy è il cameriere, possiedono nei loro forzieri 366 miliardi di dollari del nostro debito su 575,5 miliardi in totale. Crediti che rischiano di essere (grazie proprio ai raid speculativi a rischio delle banche stesse e ai tassi usurai applicati) svalutati. E che le Frauen Banken di Germania hanno lo stesso problema. Ed è evidente che l’investimento (sic) in titoli italiani non è stato affatto deciso, per “beneficienza”, ma per accaparrare parte della sovranità nazionale italiana, per mettere le mani su Alitalia o su Parmalat, per predare le fonti (Libia) e gli enti energetici (Eni, Enel) o la Finmeccanica. Non a caso l’esposizione francese sui titoli di debito pubblico riguarda tutti e cinque i “piigs”, dal Portogallo all’Irlanda, dalla Grecia alla Spagna e non solo dunque l’Italia.
Di conseguenza il “gran favore” della ricapitalizzazione del cosiddetto Efsf (il fondo salva-stati...) fino a mille miliardi di euro è figlio di questa logica strozzinesca: io aumento il fondo-prestiti, i tuoi titoli sono svalutati e quindi i nuovi li pago di meno e ci applico sopra interessi più alti, così le mie banche rientrano non soltanto del prestito già fatto ma anche degli interessi sugli interessi per ampliare il profitto usuraio...
“Merde”, direbbe un citoyen. Ma siamo in Italia e ci accontentiamo di alzare le spalle. Oppure qualcuno, nel governo o all’opposizione, si rallegra inginocchiandosi di fronte alle Loro Maestà.
No, no, no.
Basta con questa “Europa” di camerieri delle banche e di strozzini istituzionali.
Andiamocene via dall’Ue, una porcata sperpera-denari (lo sapete quanto costa ai cittadini mantenere in vita l’elefante di Bruxelles e i suoi 20.000 apparatchnik?), un ente sovrannazionale che fa gli interessi della speculazione finanziaria di Wall Street e della City “mediata” dalla Bce. Alla Francia (e a chi rimane) lasciamogli l’euro. Una moneta falsa, in realtà un nodo scorsoio.

Economisti euroscettici, la sinistra non lo sa


Economisti euroscettici proprio come il Cav Ma la sinistra non lo sa

di , Il Giornale, 30 ottobre 2011
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Il Nobel Krugman idolo di Repubblica dice le stesse cose. Però i faziosi si scatenano soltanto contro il premier

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Il premio Nobel per l'economia, il progressista e keynesiano Paul Krugman, scrive sul New York Times un giorno sì e un giorno no, ripreso con titoli camuffati da Repubblica che usa il copyright del giornalone americano, che l'euro è una ben strana moneta, e non convince, perché non risponde a un'autorità politica comune ai Paesi che la adottano, e perché non ha una vera banca centrale a sostegno come il dollaro con la Fed, la sterlina con la Banca d'Inghilterra, lo yen con la Banca centrale giapponese. Berlusconi dice esattamente la stessa cosa, testimoniata da un video.
Ma non una cosa simile, esattamente la stessa cosa. Appena ha finito di parlare il premier italiano, invece di domandarsi se abbia detto una cosa giusta, sulla quale concordano il presidente della Università Bocconi e cento altri economisti di grido nel mondo, i nemici di Berlusconi si mettono a strillare: Berlusconi attacca l'euro!, vergogna!, e il presidente del Consiglio in poche ore è obbligato a una correzione di prammatica, di patriottismo monetario, sicché l'euro, com'è ovvio, ridiventa anche una bandiera dei Paesi che l'adottano. Ci mancherebbe.
Che cosa significa questo fatto di cronaca politica, che si ripete invariabilmente da anni quando parla il capo del governo italiano? Non c'è dubbio che i giornalisti italiani siano un po' asini, siamo un po' asini. La faziosità implica quella che Carlo Fruttero chiamerebbe la «risorgenza del cretino», un fenomeno pericoloso e attualissimo.
Guareschi parlava di «cervello all' ammasso», come le merci inerti quando, appunto, si ammassano in un magazzino, che in questo caso non è di grano o colza ma di sciocchezze. Scegliete voi, ma di asinità in primo luogo si tratta.
Però la spiegazione è anche troppo semplice. C'è qualcosa di più sottile, oltre alla «risorgenza». C'è un rapporto malato, come avrebbe detto un celebre filosofo francese che se ne intendeva, Michel Foucault, tra le parole e le cose. Se il titolo di un editoriale di Repubblica è: «L'ultimo strappo di un Cavaliere disperato», e il titolo è stampato senza alcun pudore a stigmatizzare come una stecca una dichiarazione intelligente, fatta sulla scia di un intelligentone come Krugman e del senso comune condiviso dalla maggioranza degli intelligentoni, a parte il consenso dei cittadini investitori e risparmiatori e contribuenti ( questo è ovvio), vuol dire che non siamo nel teatrino della politica, come direbbe il Cav., ma in pieno melodramma.
La stonatura, il sovracuto scemo e ispido, segnalano che si tratta però di musica di serie B, non il magnifico melodramma interpretato dal Cav. sulla scia di Donizetti e del suo «Elisir d'amore»: siamo in ascolto di cattiva musica, di una roba che dovrebbe far rimbombare le redazioni di fischi, con lancio di gatti morti e pomodori e altri ortaggi come nel«Roma»di Fellini.
C'è una frase della gente che piace a me odiosa: «Mi vergogno di essere italiano». Parla proprio e inconsapevolmente di questo linguaggio, di questo oltraggio alla coerenza logica, alla semplicità di pensiero, al buonsenso elementare che anche un bambino piccolo e disinformato comincia a disegnare nelle sue parole come mappa per il suo rapporto con le cose. Non è l'Italia, non è l'italianità, è un italianismo o un italianese fradicio. Krugman aggiunge sempre nelle sue note fulminanti che il guaio è il moralismo, lo spirito autopunitivo delle classi dirigenti europee, l'incapacità di capire che la crisi da debito si cura con misure di difesa della moneta, e naturalmente con riforme di struttura, non con la lagna declinista e catastrofista.
È precisamente la linea esposta ieri da Berlusconi nella lettera che il Giornale ha riprodotto integralmente, in cui l'austerità, vecchio arnese ideologico di un tempo in cui danzavamo intorno all'idolo della lotta di classe, è messa all'angolo e respinta come vocalizzo moraleggiante da rimpiazzare con un programma di sviluppo fondato sull'ottimismo della volontà e della ragione.
Abbiamo dunque un presidente del Consiglio che ha un pensiero progressista e liberale, con una punta di paradossale spirito keynesiano, e un' opposizione di carta che, mentre i giovani del Partito democratico e il buon Renzi si sgolano per spiegargli come stiano effettivamente le cose, stecca e prende tormentosi lapsus per dire delle scemenze reazionarie, per imporre protocolli di facciata, per invocare la menzogna contro il senso di realtà. Non è un motivo in più per tenere duro?

La vera storia dell’"eurotruffa"


La vera storia dell’"eurotruffa" Così Prodi & C. ci hanno svenduto

Furono sottovalutati sia il virus Grecia sia il ruolo di Francoforte sui debiti
di , Il Giornale, 30 ottobre 2011


Una valuta figlia della tecnocrazia. Attaccano Berlusconi perché ha detto la verità: la moneta unica è stata una fregatura. Ma ora dobbiamo tenercela. All'epoca di Prodi e Ciampi vennero sottovalutati il virus Grecia e il ruolo della Germania sui debiti. Ma chi governava allora creando guasti adesso non si chiami fuori


La nave non deve limitarsi a uscire dal porto con la banda e navigare bene per un po’, ma deve arrivare sana e salva a destinazione, se ciò non accade e fa naufragio, è doveroso indagarne le cause e se è il caso cercare i responsabili. Può anche essere che la responsabilità sia dei progettisti che hanno sbagliato la costruzione. Nel caso dell’euro ci vuole davvero poco a capire che il problema risiedeva proprio nell’architettura di base, in quello stesso progetto disegnato dall’Europa dei tecnocrati di sinistra che ha visto Ciampi e Prodi come nostri rappresentanti nazionali, e per il quale essi hanno goduto di ampi onori ed applausi finché la nave andava.
Eh sì, perché Berlusconi, costretto a smentire intenzioni antieuropee quando venerdì ha citato i difetti dell’euro, in realtà ha detto molte cose assai vere che abbiamo ripetuto su queste pagine sin da tempi non sospetti. Il premier ha solo sbagliato una cosa: ha eccessivamente sintetizzato un concetto giusto citando semplicemente il nome della moneta invece di citare il problema a monte e che a quella moneta dà valore, vale a dire il debito sovrano denominato in euro. La moneta in sé e per sé non ha colpe è solo uno strumento.

Le nostre banconote, per brutte che siano, decorate solo da ponti e finestre (due luoghi dai quali in tempi grami ci si butta di sotto), una volta scelte diventano la bandiera di un popolo, e dietro alle bandiere si deve stare uniti, però sono anche semplici pezzi di carta. Quello che dà loro valore (anche se molti lo dimenticano) è il debito che essi possono legalmente ripagare, primo fra tutti quello fiscale.

Il fatto di aver del tutto staccato la capacità di emissione di moneta dalle autorità nazionali, che a quella moneta danno valore tramite l’imposizione delle tasse, è il peccato originale dell’eurosinistra.
Si tratta di una struttura molto coerente con un’impostazione ideologica che vede il governo ideale nelle mani di un’aristocrazia di tecnici e sottratto alla volontà popolare che, nella sua insipienza, potrebbe persino (orrore!) eleggere qualcuno diverso da loro.
Peccato, però, che alla prova dei fatti questo sistema non abbia retto. I mercati si reggono su certezze assolute e il pensiero che un debito possa non esser ripagato e che il fatto di poter essere onorato dipenda da estenuanti trattative fra i capi di Stato e i padroni della moneta è, per un creditore, intollerabile. Tutti i debitori rispondono con i loro beni delle proprie obbligazioni altrimenti nessuno presterebbe nulla, per gli Stati così non è perché la Banca centrale li tutela. Obama potrebbe fare tutte le sciocchezze di questo mondo, ma il suo debito è garantito dalla Federal Reserve.

L’economia inglese è un disastro, ma nessuno specula contro quel debito perché la Banca centrale lo potrebbe acquistare senza limiti. Noi no. Abbiamo disegnato un sistema dove le garanzie sul debito non esistono.
In questo progetto fallato, poi, abbiamo inserito degli ingredienti pessimi quali ad esempio economie chiaramente non allineate come la Grecia (trattato del giugno 2000, presidente Ue Prodi, presidente del Consiglio Amato, presidente della Repubblica Ciampi, tutti all’epoca entusiasti), oppure debiti già fuori limite sin dall’inizio come il nostro e quello del Belgio in eccezione a regole appena scritte.

Ma, si dirà, forse la colpa non è degli architetti dell’euro, ma di quei paesi indisciplinati come l’Italia che non hanno approfittato dei vantaggi (innegabili) dei tassi bassi per ridurre il proprio debito. L’obiezione però cade se si guarda ai paesi caduti prima, vale a dire Irlanda e Spagna, che avevano virtuosamente un indebitamento fra i più bassi d’Europa, ma anch’essi subito caduti davanti alla sfiducia.

La Cina ci disse quest’estate: «Ma se la vostra Banca centrale non compra il vostro debito perché dovremmo farlo noi?». Verissimo, e il fatto che ora lo stia acquistando quasi con schifo, mettendo ben in chiaro che lo farà solo per breve tempo, ha messo una pezza ma di certo non restituisce la fiducia. Prodi ha dichiarato che «i giudizi di Berlusconi sono una follia» ma prima o poi bisognerà fare il punto sulle cause profonde e lontane dell’attuale crisi. Troppo comodo prendersi solo gli applausi e chiamarsi fuori davanti al disastro.
twitter: @borghi_claudio

Come si esce dall'economia del debito


Come si esce dall'economia del debito
di Paolo Cacciari - 29/10/2011

Fonte: Il Manifesto


http://www.albanesi.it/Mente/Imma/Il_peso_dei_debiti.jpg

Bisogna uscire da quella economia «che pone gli interessi del capitale sopra a quelli del lavoro e della stessa vita delle persone e dell'ecosistema terrestre» 



Le vecchie ricette keynesiane non hanno più margini in una crisi strutturale di queste dimensioni e qualità. Deve decrescere la dipendenza dal mercato e dall'ossessione del Pil
Alzino la mano quanti hanno azioni? Pochissimi, a giudicare dal fatto che non ci dicono mai la loro vera consistenza (numero di persone per il valore delle azioni possedute). Alzino la mano quanti hanno titoli di stato? Non molti e comunque posseggono meno della metà della metà del valore dei titoli emessi (la metà è all'estero, l'altra metà è nelle casse di imprese e investitori istituzionali vari). Alzi la mano chi ha denari in banca? Abbastanza, ma si accontentano di interessi che non proteggono nemmeno dall'inflazione. E allora, chi se ne frega del default ! Falliscano pure banche e stati, non vengano rimborsati i prestiti che hanno avuto, o vengano congelati in attesa di tempi migliori. Le bancarotte (assieme alle guerre) sono il metodo più sbrigativo per la remissione dei debiti e ricominciare da capo. E' successo molte volte nella storia degli stati e, da ultimo, l'Argentina insegna che ci si può risollevare. Chi vive del proprio lavoro, chi non arriva alla quarta settimana, cioè la maggioranza delle famiglie, si libererebbe così finalmente dal peso di dover foraggiare rendite e interessi. Se è vero che su ogni italiano gravano 30.000 euro di debito pubblico, quanti anni ci vorranno per estinguerli, ammesso che i futuri governi riuscissero a non aggiungerne altri? I giovani senza futuro, gli indignados che protestano a Wall Street, i disoccupati nelle piazze spagnole e greche gridano: «Non vogliamo pagare noi i vostri debiti». Ed hanno più che ragione.
Ma c'è un ma che rende ancora più grave la situazione e più profonda la svolta economica e politica necessaria per uscire dalla crisi. Non sono solo gli avidi speculatori, gli approfittatori alla Soros, i manager pagati in opzioni alla Marchionne, i ministri della finanza creativa alla Tremonti che ci hanno portato sull'orlo del baratro. Via loro (e sa iddio quanto sarebbe bello!) non cambierebbe nulla perché anche l'azienda dove andiamo a lavorare, l'amministrazione comunale dove abitiamo, la locale azienda sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca del nostro bancomat, l'agenzia di stato che sborsa il sussidio di disoccupazione a nostro figlio... sono da tempo, in un modo o nell'altro,tutti indebitati. Tutti avevano fatto il conto ("aspettativa" si dice in economia) di riuscire in futuro a guadagnare di più (facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo immobili e "cartolarizzando" il Colosseo...) di quanto non avessero ricevuto in prestito. Credevano, cioè, nella chimera di una crescita economica esponenziale e senza fine. Un calcolo tragicamente sbagliato. Da tempo (dieci, venti, chi dice trent'anni) le economie occidentali sono in crisi di realizzo, il loro tessuto produttivo non è più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino le hanno tentate tutte: la leva finanziaria, i titoli tossici, il signoraggio del dollaro, oltre, ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente, la "santa crescita", nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, non arriva. E non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo.
Doveva essere il secolo americano ed invece è quello del suo declino che si trascina con sé propaggini e imitazioni. Ciò accade un po' perché portare via le materie prime dal terzo mondo è sempre più costoso (militarizzazione crescente, prebende a regimi fantoccio, esaurimento delle risorse naturali), un po' perché i paesi emergenti hanno imparato che "arricchirsi è glorioso" e nemmeno così difficile. In un contesto di economia neoliberista, fondata sulla competizione selvaggia tra aree geografiche vince semplicemente il più forte: chi ha più capacità produttiva, chi riesce più a spremere i fattori e gli strumenti della produzione: a partire dal lavoro e dalle risorse naturali. Questa volta la Cina è davvero vicina.
Oppure si decide di uscire dal gioco per davvero. Si esce dall'economia del debito (cioè da quella economia che pone gli interessi del capitale sopra a quelli del lavoro e della stessa vita delle persone e dell'ecosistema terrestre) con tutto quello che ne deriva. E' questo il vero recinto di pensiero da cui nemmeno la sinistra-sinistra riesce ad uscire. Le vecchie ricette keynesiane non hanno realmente più margini di applicazione dentro una crisi strutturale di queste dimensioni e di questa qualità. Le politiche riformiste, anche quelle più caute sono tagliate fuori sia sul versante del modello economico, sociale ed ecologico, sia su quello della distribuzione della ricchezza. E' ormai chiaro che le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi del mercato. Dovremmo pensare ad un altro tipo di ricchezza, ad un altro tipo di benessere, ad un altro modo di lavorare, ad un altro modo di relazionarsi tra le persone che non sia quello che passa attraverso il portafogli. E sarebbe certamente una società più umana, più in armonia con la natura, più capace di futuro, più desiderabile. Se provassimo a mettere la cura e la fruizione dei beni comuni (l'acqua, la terra, le foreste, il patrimonio naturale, ma anche quello culturale: la conoscenza, i saperi) al centro della nostra idea di società, riusciremmo facilmente e con grande soddisfazione individuale e collettiva a fare a meno dell'ossessione dell'aumento del Pil. Anzi, essere costretti a pagare per possedere, invece che condividere per accedere ad una fruizione collettiva, sarebbe un indicatore negativo di benessere. Decrescere la dipendenza dal mercato è l'unico modo per sottrarsi ai suoi diktat. Non c'è modo di liberarsi dalla tirannia della produttività misurata in budget se non ci si libera dal dispositivo dell'incremento del valore di scambio delle merci. Ed è esattamente questo, non altro, quello che chiamano, in modo assolutamente bipartisan (da Napolitano a Berlusconi, dalla Camusso a Marchionne, dagli economisti marxisti a quelli liberisti): crescita.
Il guaio non è la «vera e propria crisi del capitalismo» (sono parole del The Observer), ma la mancanza di una alternativa di sistema. Cioè, la mancanza di una soggettività politica che abbia il coraggio civile e intellettuale di prospettare un sistema di valori etici e di regole sociali all'altezza della odierna crisi di civiltà e capace di evitarci di pagare le conseguenze del collasso. Per esempio: non ci si libera dagli strozzini e dagli usurai se non si stabilisce che la finanza e la moneta devono tornare ad essere strumenti neutri, beni comuni pubblici, di servizio, che nessuno (né grande banchiere, né piccolo azionista) può pensare di usare per arricchirsi. Non ci si evolve dal lavoro schiavo e precario se non si torna a stabilire che anche il lavoro è un bene comune, non una merce, un modo di realizzare sé stessi e, assieme, contemporaneamente, un modo per offrire agli altri cose utili, sane, durevoli. Non ci si libera dal peso delle crescenti spese militari e per la "sicurezza", se non si capisce che la pace e la sicurezza sono beni indivisibili, universali.
Fastidiose utopie, dirà qualcuno, indispensabili modi di essere per chi pensa che sia possibile praticare forme di economia non monetizzata, sociale e solidale. Ernst Friedrich Shumacher diceva che l'economia è una «scienza derivata», che deve cioè «accettare istruzioni». È urgente che qualcuno impartisca nuove istruzioni. 

Morte a credito


Morte a credito
di Alain de Benoist - 29/10/2011

Fonte: Arianna Editrice


http://ilgraffionews.files.wordpress.com/2010/04/usura.jpg?w=400&h=277
Ezra Pound, al canto XLV dei Cantos : «Con usura gli uomini non hanno case di pietra sana/blocchi lisci finemente tagliati fissati in modo che il fregio copra le loro superfici/con usura/ gli uomini non possono avere paradisi dipinti sui muri delle chiese […] Con usura il peccato è contro natura [with usura sin against nature]/ il pane è straccio vieto/arido come la carta/senza segale né farina di grano duro/con usura il tratto si appesantisce/non vi è che una falsa demarcazione/gli uomini non hanno più siti per le loro dimore/e lo scalpellino viene privato della pietra/il tessutaio del telaio/ I cadaveri banchettano/ al richiamo dell’usura [Corpses are set to banquet / at behest of usura] ».
Gli eccessi del prestito a interesse sono condannati a Roma, così come lo testimonia Catone secondo cui, se i ladri di oggetti sacri meritano una doppia pena, gli usurai ne meritano una quadrupla. Ancora più radicale è la condanna di Aristotele alla cremastica. Così scrive: «L’arte di acquisire ricchezza è di due specie: se la prima è nella sua forma mercantile, la seconda dipende dall’economia domestica; quest’ultima forma è necessaria e lodevole, mentre l’altra si affida alla scadenza e autorizza giuste critiche, poiché non ha nulla di naturale […]. A queste condizioni, ciò che si detesta con assoluta ragione, è la pratica del prestito a interesse in quanto il profitto che se ne ricava è frutto della moneta stessa e non risponde più al fine che ha presieduto alla sua creazione. Se la moneta è stata inventata in vista dello scambio, è invece l’interesse che moltiplica la quantità di moneta essa stessa […]. L’interesse è una moneta nata da una moneta. Di conseguenza, questo modo di guadagnare denaro è tra tutti, il più contrario alla natura» (La Politica).
La parola «interesse» designa il reddito del denaro (foenus o usura in latino, tókos in greco). Si riferisce al modo in cui il denaro «partorisce nuovi nati». Già nell’ alto medioevo, la chiesa sostiene la distinzione che aveva fatto il diritto romano per il prestito dei beni immobiliari: ci sono cose che si consumano con l’uso e altre che non si consumano affatto, e che vengono chiamate commodatum. Esigere un pagamento per il comodato è contrario al bene comune, poiché il denaro è un bene che non si consuma. Il prestito a interesse sarà condannato dal concilio di Nicea sulla base delle «Scritture» – nonostante la Bibbia non lo condanni con chiarezza! Nel XII secolo, la chiesa assume la condanna aristotelica della cremastica. Anche Tommaso d’Aquino condanna il prestito a interesse, con alcune riserve, adducendo il motivo che «il tempo appartiene solo a Dio». L’islam, ancora più severo, non concede neppure la possibilità della distinzione tra l’interesse e l’usura.
La pratica del prestito a interesse si è pertanto progressivamente diffusa, in relazione all’ascesa della classe borghese e all’espansione dei valori mercantili che sono stati lo strumento del suo potere. A partire dal XV secolo, le banche, le compagnie commerciali, e in seguito le manifatture, possono rimunerare i fondi presi a prestito, su deroga del re. Il giro di boa essenziale corrisponde all’avvento del protestantesimo, e più precisamente del calvinismo.
Calvino è il primo teologo ad accettare la pratica del prestito a interesse, che si diffonde così attraverso le reti bancarie. Con la Rivoluzione francese, il prestito a interesse diventa completamente libero, e nel frattempo fioriscono nuove banche in quantità, dotate di fondi considerevoli che provengono soprattutto dalla speculazione sui beni nazionali. Il capitalismo prende il volo.
All’origine, l’usura designa il semplice interesse, indipendentemente dal tasso applicato. Oggigiorno, chiamiamo «usura» l’interesse di un ammontare abusivo, attribuito a un prestito. Ma l’usura è anche il processo che permette di incatenare, colui che è beneficiario del prestito, con un debito che non riesce a rimborsare, e a impadronirsi dei beni che gli appartengono, ma che egli ha accettato di dare in garanzia del prestito. È proprio quello che succede oggi a livello planetario.
Il credito permette di consumare il futuro nel presente. Si basa sull’uso di una somma virtuale che viene attualizzata attribuendogli un prezzo: l’interesse. La generalizzazione del principio su cui si basa, fa perdere di vista il principio elementare secondo il quale è bene limitare le proprie spese al livello delle risorse, visto che non si può certo pensare di poter vivere perpetuamente al di sopra dei propri mezzi. L’ascesa del capitalismo finanziario ha favorito questa pratica: ci sono giornate in cui i mercati cambiano l’equivalente di dieci volte del PIL mondiale, e questo mostra a sufficienza la sconnessione con l’economia reale. Quando il sistema di credito diventa un pezzo centrale del dispositivo del Capitale, si rientra in un circolo vizioso, la fine del credito rischia di tradursi nel crollo generalizzato del sistema bancario. Brandendo la minaccia di un tale caos, le banche sono riuscite a farsi continuamente aiutare dagli Stati. La generalizzazione dell’accesso al credito, che implica il prestito a interesse, è stato uno degli strumenti privilegiati dell’espansione del capitalismo e della società dei consumi a partire dal dopoguerra. Indebitandosi massicciamente, le famiglie europee e americane hanno sicuramente contribuito, tra il 1948 e il 1973, alla prosperità dell’epoca del cosiddetto «trentennio glorioso della crescita». Le cose sono cambiate nel momento in cui il credito ipotecario ha preso il sopravvento sulle altre forme del credito. «Il meccanismo di ricorso a un’ipoteca come pegno reale dei prestiti rappresenta molto di più, ricorda Jean-Luc Gréau, di una agile tecnica che garantisce somme prestate, poiché capovolge il quadro logico di attribuzione, valutazione e di detenzione dei crediti accordati […]. Il rischio limitato cede il passo alla scommessa che si fa sulla facoltà che si avrà, in caso di fallimento del debitore, di mettere in gioco l’ipoteca e di coglierne il profitto per rivenderlo a delle condizioni favorevoli». Queste manipolazioni d’ipoteche trasformate in attivi finanziari, congiunte alle difficoltà di pagamento dei beneficiari del prestito, incapaci di rimborsare i loro debiti, hanno portato alla crisi dell’autunno del 2008. Oggi assistiamo alla ripetizione di un’analoga operazione che grava sugli Stati sovrani che ne fanno le spese, con la crisi del debito pubblico.
Stiamo assistendo al grande ritorno del sistema dell’usura. Quello che Keynes chiamava «il regime dei creditori» corrisponde alla definizione moderna dell’usura. I processi dell’usura li riscontriamo nelle modalità in cui i mercati finanziari e le banche possono fare man bassa sugli attivi reali degli Stati indebitati, impadronendosi dei loro averi al titolo degli interessi di un debito di cui il principale costituisce una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsato. Gli azionisti e i creditori sono gli Shylock della nostra epoca.
Ma l’indebitamento va di pari passo con la crescita materiale: né l’uno, né l’altra possono crescere all’infinito. « L’Europa compromessa con la finanza, scrive Frédéric Lordon, rischia di essere distrutta dalla finanza». Da tempo scriviamo: il sistema del denaro distruggerà se stesso.