martedì 25 settembre 2012

Il democrazismo è contro la democrazia diretta

domenica 23 settembre 2012

Beppe Grillo - La Storia Siamo Noi

sabato 22 settembre 2012

L'esportazione del DEMOCRAZISMO


Centralismo democratico
di Francesco Mario Agnoli - 21/09/2012
Fonte: Arianna Editrice 
Chissà se qualcuno ricorda che ai tempi dell'URSS  vigeva non solo all'interno, ma per tutti  i  paesi del blocco sovietico  il centralismo democratico, che, nella sua versione da esportazione, comportava  per gli Stati satelliti una limitazione di sovranità e autorizzava l'URSS ad intervenire  militarmente nei  paesi nei quali la reazione mettesse in pericolo il  regime socialista. Fu in nome del centralismo democratico che le truppe di  Mosca intervennero a ristabilire l'ordine prima in Ungheria poi in Cecoslovacchia. Il “mondo libero”, come allora si diceva (esistevano con questo nome anche un giornalino e, se ben ricordo, una trasmittente radiofonica) s'indignò terribilmente per gli interventi a Budapest e a Praga e tutti noi, che non eravamo comunisti,  ne traemmo  ulteriori  conferme  sia dell'essenza antidemocratica del comunismo sia  della natura sostanzialmente coloniale del dominio esercitato dall'URSS sui paesi satelliti. Ci sentimmo anche molto grati nei confronti degli USA,  lo Stato capofila del  mondo libero, che mai si sarebbe sognato di avanzare  simili pretese.
    A oltre   vent'anni di distanza  dalla fine dell'URSS (cinquantasei dall'invasione dell'Ungheria e quarantaquattro da quella della Cecoslovacchia) tutto è cambiato.  Che non esiste più l'URSS tutti lo sanno, ma fino a ieri l'altro forse non tutti sapevano che non esiste più nemmeno il mondo libero
    A seguito  dell'uccisione in Libia dell'ambasciatore Usa  e  di altri tre dipendenti dell'ambasciata americana, Obama ha annunciato  (ma forse anche già effettuato) l'invio nella stessa Libia, nello Yemen e nel Sudan e, forse, in Tunisia e  altrove se  le proteste contro l'America si estenderanno, di marines e di droni   non solo per proteggere le proprie ambasciate e i consolati, ma per punire  i colpevoli (esecutori e mandanti) cioè per ucciderli dal momento che i droni (aerei senza pilota per la caccia all'uomo) servono solo per uccidere, come ben sanno afgani e pachistani.
    Il termine centralismo democratico è del tutto demodé, ma esistono ancora, eccome, i paesi a sovranità limitata. Solo che si sono trasferiti dallo scomparso blocco sovietico  al mondo libero.
      Cosa ne pensi il governicchio libico non si sa. Lo Yemen e il Sudan,  evidentemente illusi di essere ancora Stati sovrani, hanno fatto sapere  di non volere  truppe straniere sul loro territorio, ma certamente dovranno fare di necessità virtù, come allora fecero Budapest e Praga.
    Stranamente quanti allora s'indignarono  per  gli interventi sovietici (in genere non più giovanissimi, ma comunque  in gran numero tuttora vivi e vegeti), e tanto meno i loro eredi e successori, non hanno obiettato alcunché e anzi hanno mostrato la massima solidarietà e comprensione per la decisione  di Obama  di  inviare  truppe e di punire i colpevoli.
      Gli unici ai quali non si può obiettare nulla sono gli ex-comunisti che ai tempi di Budapest e Praga non solo non criticarono, ma lodarono  l'intervento sovietico.  Fra loro il presidente Giorgio Napolitano che, allora trentunenne, criticando il suo compagno di partito on. Giolitti  espresse l'opinione (già autorevole) che l'intervento dell'URSS in Ungheria avesse “contribuito in maniera decisiva a salvare la pasce nel mondo”.
    E' vero che un'invasione di carri armati è  ben più spettacolare e, nelle apparenze, ben più minacciosa  dell'invio di  qualche drone, tuttavia  è difficile pensare che la punizione ad ogni costo e con violazione di ogni regola di chi ha ucciso   quattro americani  per quanto importanti sia indispensabile per salvare la pace nel mondo. Soprattutto se si tratta di un Medio Oriente nel quale negli ultimi anni gli interventi, diretti e indiretti, del cosiddetto Occidente (ex mondo libero) hanno causato lo sterminio  di centinaia di migliaia di esseri umani e ancora oggi offrono ogni giorno (in Siria) decine di vittime al Moloch dell'esportazione della democrazia.

giovedì 20 settembre 2012

Che vuol dire: "democrazia" ?


Democrazia equivale a libertà?
di Massimo Mazzucco - 19/09/2012
Fonte: Luogo Comune 
 
 
Ogni tanto capita di leggere commenti del genere "Voi siete qui a lamentarvi della democrazia, ma il semplice fatto che possiate esprimere liberamente la vostra opinione significa che non sapete apprezzare i vantaggi del mondo in cui vivete".

In realtà, democrazia e libertà sono due cose ben diverse, che vengono assimilate troppo spesso l'una all'altra.

La democrazia è un sistema di governo che permette ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento [1]. La libertà è un principio astratto fra i più fondamentali ed importanti in assoluto nella storia degli esseri umani, che molto raramente è stato davvero rispettato nella storia stessa dell'umanità.

La confusione fra democrazia e libertà, o meglio l'equazione automatica che spesso facciamo fra le due cose, nasce da un motivo molto semplice, tutt'altro che casuale: il sistema democratico prevede, come quintessenza stessa del suo funzionamento, la "libertà" del cittadino di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento.

Il cittadino si sente "libero" di votare per chi vuole lui, e presume automaticamente che riceverà in cambio la stessa quantità di libertà che ha esercitato nell'esprimere il suo voto.

Ma questo è tutt'altro che vero.

Non sta scritto da nessuna parte che una volta ricevuto il nostro mandato, i parlamentari ne faranno l'uso che noi intendevamo quando glielo abbiamo conferito.

Se davvero il parlamentare (o partito) che abbiamo scelto ci dovesse "rappresentare" in Parlamento, ...


... si batterebbe, ad esempio, per avere una maggiore informazione sulla stampa riguardo alle cure alternative. Oppure si batterebbe per evitare che i media continuino a diffondere bugie clamorose come quella dell'11 settembre, di Al-Qaeda o dei cattivi islamici che vogliono mettere a ferro e fuoco il mondo (o chiederebbe almeno un'informazione più equa al riguardo). Oppure ancora, si batterebbe perchè venga fatta luce sul preoccupante fenomeno delle scie chimiche.

Perché invece tutto questo non accade? 

Non accade perché le persone (oppure il partito) che noi abbiamo scelto si dimenticano immediatamente di "rappresentarci" in Parlamento, e si approfittano invece del nostro mandato per partecipare a quel sistema di potere che in realtà finisce per ritorcersi contro noi stessi.

La nostra Costituzione stabilisce il totale diritto ad esprimere liberamente le proprie idee, ma poi per un qualche motivo questa libertà non viene affatto esercitata dagli organi di stampa, che vengono messi invece sotto controllo dallo stesso sistema di potere che noi abbiamo contribuito a legittimare.

La democrazia quindi è un'arma a doppio taglio, che illude il cittadino di poter determinare il proprio futuro grazie alle scelte elettorali, ma che poi approfitta dell'incapacità del cittadino di usare correttamente quest'arma, e ritorce contro di lui l'enorme potere che ne ha ricevuto.

Sta quindi per prima cosa al cittadino di imparare a pretendere che i propri rappresentanti facciano effettivamente ed esclusivamente ciò per cui sono stati scelti, ed a punirli con una mancata e definitiva rielezione al Parlamento nel caso in cui non lo facessero.

Finchè continui a legittimare le stesse persone che già ti hanno messo le catene in passato, sarai tu stesso a stringere nuovamente quelle catene ai tuoi polsi.

Pensate che bello: siamo partiti da "democrazia uguale libertà", e siamo finiti a "democrazia uguale auto-prigionia".

Democrazia e libertà sono due cose molto diverse: la prima la scegli, come semplice sistema di governo, ma la seconda te la devi conquistare.

Note:

1 - Lasciamo da parte il fatto che la scheda elettorale ci proponga una libertà di scelta molto "limitata", e facciamo finta che nel momento di apporre il voto noi stiamo veramente esercitando un gesto di totale libertà. Ragioniamo intanto all'interno di questo paradigma, per non complicare troppo le cose.

Cosa vuol dire: "produttività"?

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - linguaggio e comunicazione - 19-09-12 - n. 421

da http://www.contropiano.org/it/archivio-news/documenti/item/11259-il-trucco-della-produttivit%C3%A0
 
Il trucco della produttività
 
di Claudio Conti
 
18/09/2012
 
Ci sono parole ripetute in continuazione di cui sembra di conoscere il significato. Ma non è così. "Produttività", per esempio. Una decostruzione ragionata delle parole truccate che ingannano i lavoratori e la società.
 
Il "luogo comune" è un insieme di informazioni strutturate che cementano nel cervello di molti un determinato significato. Sembra si tratti di una cosa certa, naturale, oggettiva; invece è una costruzione sociale, fatta attraverso il linguaggio ma a partire da interessi concreti, strutturatissimi, forti di grandi leve di comando e poderose macchine comunicative.
 
"Produttività" è una delle parole che veicolano da diversi mesi il "senso comune" dell'ineluttabilità del chinare la testa, rinunciare a quote di salario e agli "antichi" diritti del lavoratore. Si dice produttività per dire "dovete lavorare di più". E questo lo capiamo tutti subito.
 
Quello che resta sullo sfondo, invisibile e accuratamente nascosto, è il significato vero della parola che concentra su di sé il (costruito) "senso comune".
 
Proviamo a spiegarci utlizzando questo peraltro ottimo pezzo di Marco Panara, pubblicato come apertura dell'inserto "Affari e finanza" di Reppubblica, lunedì 17 settembre, che definisce in modo più chiaro cosa ci sia sul tavolo del "dialogo" tra governo e sindacati appunto sulla "ripresa" attraverso un aumento della "produttività". Per agevolare ai lettori la decodifica dei concetti intervalliamo il testo di Panara con le nostre controdeduzioni o "disambiguazioni" (come si dice oggi, per esempio, in Wikipedia).
 
Hi tech, brevetti, innovazione come far uscire l'Italia dalla trappola della produttività
 
Un sistema economico rimasto ancora al secolo scorso. Gli imprenditori hanno investito in media con l'Europa, ma in modo inefficace senza spostarsi sui settori più avanzati
 
di Marco Panara
 
Dopo aver campato su debito pubblico e svalutazioni per vent'anni e aver galleggiato sui tassi bassi per altri dieci ora siamo arrivati all'osso. O troviamo il modo di aumentare la produttività o si ridurranno i salari. I singoli salari, tagliandone un pezzo a ciascuno, oppure il monte salari attraverso i licenziamenti. Quelli fatti fino ad ora non bastano. A imprese e sindacati, con il ministro allo Sviluppo Corrado Passera a gestire il tavolo, Monti ha dato un mese di tempo per trovare una soluzione a un problema che sta lì da molti anni prima che arrivasse la crisi.
 
Redazione. Il problema del prossimo anno è chiaro: maggiore produttività o riduzione salariale. Non importa tanto se "individualmente" (il taglio uguale per tutti, in stile Grecia) o "complessivamente" (il monte salari, appunto, o il reddito totale disponibile per i consumi).
 
La questione è seria, perché se ci sono molti modi nei quali una collettività si può impoverire, ce n'è uno solo attraverso il quale può arricchirsi: aumentare la produttività. In Italia non aumenta da molto tempo e infatti l'economia da altrettanto tempo è ferma e il reddito dei cittadini non cresce.
 
I numeri non perdonano, negli ultimi dieci anni la produttività per ora lavorata in Italia è cresciuta complessivamente dell'1,4%, nella Ue dell'11,4, in Germania del 13,6, e c'è un collegamento diretto e inequivoco tra produttività e aumento del prodotto lordo pro capite, ovvero la misura del benessere economico di una collettività: quello italiano dieci anni fa era sopra la media Ue ora è più basso nonché più basso di quello che avevamo nel 2000.
 
Red. I numeri sono il linguaggio con cui viene espressa una misurazione. Dicono molto solo a chi capisce quella lingua. Ma, essendo numeri, danno l'impressione della "certezza matematica" anche quando la certezza è tutt'altro che certa. Quel che non possono dire, in effetti, è il "perché" una data misurazione restituisce certe cifre. I rapporti tra le "cause" e i numeri è dunque un'indagine da fare a carico del pensiero che spende l'"osservatore". E qui, in genere, sorgono i problemi e le "ambiguazioni"; spesso involontarie, altre volte volontarissime.
 
Il motivo per il quale siamo arrivati a questa drammatica alternativa tra produttività e salari si chiama Clup, costo del lavoro per unità di prodotto.
 
Red. Il problema è già mal posto. Oppure, dal punto di vista dell'impresa, posto benissimo. Il Clup (costo del lavoro per unità di prodotto, ovvero quanto pesa il costo complessivo del lavoro - salario, contributi, tasse, ecc - sul costo di produzione finale di una merce) è un'altra unità di misura, non una "causa". E' come confondere il termometro con la febbre; o peggio ancora con "la causa" della febbre. Ma nel calcolo gestionale il Clup compare come una grandezza data, sulla cui origine - complicata - non è più necessario soffermarsi.
 
Rispetto alla Germania dal 2000 ad oggi questo famoso Clup è aumentato del 35%, il che vuol dire che i nostri prodotti hanno perso un terzo della loro competitività in termini di costo. A far aumentare il Clup possono essere due fattori, il costo del lavoro oppure il prodotto che da quel lavoro esce fuori. Poiché in Italia il costo del lavoro in questi anni è cresciuto solo marginalmente, quello che non ha funzionato è la seconda parte dell'equazione: il prodotto. Fatto 100 il costo del lavoro impiegato, nel 2011 abbiamo tirato fuori un prodotto il cui valore è del 35% inferiore a quello che con lo stesso costo del lavoro riesce realizzare la Germania.
 
Red. Abbiamo comunque un primo dato concreto: "in Italia il costo del lavoro in questi anni è cresciuto solo marginalmente". In termini nominali, è vero (la quantità di euro in cui si esprime il salario non è aumentata); come potere d'acquisto è invece diminuito (con la stessa cifra si acquistano meno merci). Si potrebbe già qui tranquillamente concludere che è dunque perfettamente inutile continuare ad abbassare il costo del lavoro, visto che è sull'altro fronte - il prodotto - che il problema esiste. Naturalmente, non può essere questa la conclusione di Repubblica.
 
A questo punto, se non si fa qualcosa per invertire la dinamica della produttività, l'impoverimento progressivo del paese è una strada segnata. Perché l'alternativa, ovvero la inevitabile riduzione della remunerazione del lavoro, vuol dire esattamente questo: impoverirsi.
 
Red. Anche lo schema retorico è chiaro: se non volete impoverirvi dovete "aumentare la produttività". La pistola è puntata, o la borsa o la vita.
 
Nel lungo termine peraltro non è quella la ricetta giusta. Per capirlo basta guardare la classifica della competitività del World Economic Forum. Il paese più competitivo è la Svizzera, dove il costo del lavoro è del 50% superiore a quello italiano, tra i primi dieci (l'Italia è quarantaduesima) sei paesi hanno il costo del lavoro più alto e uno, il Regno Unito, comparabile. La chiave quindi non è ridurre il costo del lavoro, se non temporaneamente, ma aumentare il prodotto in quantità o in valore.
 
Red. Altri dati sconsigliano questa strada, "deflazionistica" sul lungo periodo. Se abbassi troppo i salari, diminuiranno di conseguenza i consumi. Ma questo non avviene in modo "matematico" (cali i salari del 20% e calano i consumi in proporzione). Esistono infatti nella vita reale delle "soglie" oltre le quali le dinamiche procedono più velocemente. Esempio: se il mio salario scende sotto la soglia della sopravvivenza, non comprerò più nulla se non l'indispensabile (a prezzo discount o peggio) per cercare comunque di sopravvivere. Naturalmente farò a meno di iphone, ipad, vacanze a Torvaianica o alle Maldive, automobile, motorino e persino autobus, ecc. Le ricadute sull'economia saranno dunque un avvitamento depressivo esponenziale che rischia di diventare irrecuperabile. Stabilito che il problema è "aumentare il prodotto in quantità o in valore", la soluzione è già scritta. Ma è sbagliata. Come vedremo.
 
Come? E' questo il punto. Per affrontare il quale è meglio capire prima quali sono le ragioni per le quali la produttività in Italia non cresce. Ce ne sono di due ordini, il primo è quello che accade dentro l'impresa e il secondo (non in ordine di importanza) è quello che c'è fuori, ovvero il famigerato contesto.
 
Cominciamo dal primo. Dentro l'impresa ci sono la proprietà, la gestione, gli investimenti, l'organizzazione del lavoro. La proprietà è nell'85% dei casi familiare, poco meno della Germania e poco più della Francia e della Spagna, in linea quindi con il resto dell'Europa, la differenza è nella gestione: in Francia e Germania meno del 30% delle imprese familiari hanno manager di famiglia, in Italia oltre il 66%, il che spesso vuol dire che non si è scelta la opzione migliore ma si è privilegiato quello si aveva in casa con il rischio di una gestione non ottimale delle risorse.
 
Red. Le imprese italiane promuovono a "manager" i loro figli, cugini, nipoti. Sono la fotografia di una cultura del "risparmio" che oltre un certo livello diventa suicidio. Paradossalmente, però, la scelta di mettere in posizione di responsabilità uno qualsiasi purché parente, invece che un "estraneo" che ci sa fare, indica che nell'autopercezione stessa dell'imprenditore-tipo italiano per "fare il capitalista" non serve poi una scienza particolare. Son buoni tutti o quasi, come a fare il facchino.
 
Il secondo punto caldo sono gli investimenti, che fino al 2007 non sono stati troppo inferiori alla media degli altri paesi comparabili, ma che non è chiaro dove siano andati: quelli in macchinari sono crollati, come dimostrano il fatto che tra il 2000 e il 2010 la quota degli ammortamenti sul fatturato è scesa dal 6,5 al 3,8% e che nello stesso arco di tempo la vita media dei macchinari è balzata da 10 a oltre 16 anni. E sono stati bassissimi, sotto la media europea e la media Ocse, quelli in asset intangibili, ovvero brevetti, ricerca e sviluppo, formazione.
 
Red. Dove sono finiti gli investimenti? Non per rinnovare i macchinari, non per migliorare la tecnologia. Dunque, non per aumentare la produttività. In termini marxiani, non è stata aumentata quella parte del capitale fisso che consente di incrementare l'estrazione di "plusvalore relativo". Ovvero che mette il singolo operaio in condizione di produrre una maggiore quantità di pezzi nella stessa unità di tempo e di fatica. A noi sembra che gli investimenti delle imprese, negli ultimi venti anni, siano stati "diversificati" verso la finanza e il mercato immobiliare, che hanno garantito a lungo profitti percentualmente più alti e senza alcuna attesa dei "tempi di rotazione" della merce fisica (produzione-immissione sul mercato-vendita-ritorno). Quindi fuori dalla dinamica propria dell'industria. Ma di questo, chi è responsabile?
 
«La crescita della produttività del lavoro modesta - è scritto in L'innovazione come chiave per rendere l'Italia più competitiva, un documento pubblicato dall'Aspen lo scorso marzo - è dipesa essenzialmente da un livello molto basso in investimenti in capitale e capitale umano, accompagnati da investimenti minimi in " intangible assets". Tutto ciò ha determinato una crescita negativa della produttività totale dei fattori». Sulla stessa linea è l'Occasional paper della Banca d'Italia di aprile 2012 dal titolo Il gap innovativo del sistema produttivo italiano.
 
Infine, dentro l'azienda, c'è l'organizzazione del lavoro, che dove non sono arrivati accordi sindacali innovativi (che in molte aziende e settori ci sono stati) è rimasta troppo rigida dentro la fabbrica e dentro l'impresa. E c'è un altro elemento importante: come ormai dimostrato da molte analisi, il largo ricorso al lavoro precario diminuisce la produttività ed ha anche l'effetto collaterale che il lavoro superflessibile in uscita e a basso costo disincentiva gli investimenti.
 
Red. Qui cadono molti asini, compresi i professori al governo. L'innovazione tecnologica - compito dell'impresa, al massimo "promuovibile" dall'intervento statale - non c'è stata per scelta miopre delle aziende stesse. Gli "accordi aziendali innovativi" invece ci sono stati. E sono andati tutti nella direzione chiesta dalle aziende: più straordinari, più precarietà, più "flessibilità in uscita". Fino ad ottenere la sostanziale cancellazione dell'art. 18. Ma proprio questi "successi innovativi" - dimostrano le ricerche empiriche citate anche da Panara - abbassano la produttività e disincentivano gli investimenti. Ricapitolando: le misure fin qui imposte a forza al mondo del lavoro per "aumentare la produttività" hanno realizzato il risultato diametralmente opposto: l'hanno diminuita. Non si capisce quindi perché si insista nel dire che l'organizzazione del lavoro in fabbrica sia rimasta "troppo rigida". O invece sì.
 
Il che ci fornisce la fotografia di quello che accaduto in Italia fino al 2007, occupazione in salita, pochi investimenti, produttività declinante. In mezzo tra quello succede nell'impresa e quello che c'è fuori c'è la dimensione dell'impresa e il suo rapporto con il mercato. E qui, anche qui, sono dolori, i dolori di sempre.
 
Dei 4,4 milioni di imprese che ci sono in Italia il 94,8% hanno meno di 10 addetti, mentre quelle grandi (con oltre 250 addetti) sono solo 3.502. Niente di male in assoluto, se non fosse che il valore aggiunto per addetto delle microimprese, pari a circa 25 mila euro l'anno, è pari a metà di quello delle medie imprese e due volte e mezzo più basso di quelle grandi (60 mila euro). Il che vuol dire che avere una quota così rilevante di piccolissime imprese abbassa la produttività media e, in un mondo globalizzato e senza più svalutazioni, è come una zavorra sulla crescita della competitività.
 
Si potrebbe dire che la struttura dell'economia italiana era così anche prima, quando la produttività cresceva. Ma prima non c'era l'euro, quindi erano possibili le svalutazioni, non c'era la globalizzazione, e quindi la concorrenza era minore anche sul mercato domestico, e prima gli imprenditori - moltissimi dei quali sono di prima generazione - avevano molti anni di meno e un patrimonio culturale e di esperienze in linea con le tecnologie e il quadro competitivo del momento. Oggi gli anni sono di più e il rapporto con l'evoluzione tecnologica e dei mercati assai più complesso.
 
Red. Se ne dovrebbe trarre la scomoda conclusione del fallimento della classe imprenditoriale italiana, incapace di crescere qualitativamente, concentrarsi organizzativamente, liberarsi del "familismo amorale" che ha infine trovato in Berlusconi (e nella Lega) i suoi autentici campioni. Ma naturalmente si va in direzione opposta.
 
E qui arriviamo al contesto, perché la colpa non è solo né prevalentemente degli imprenditori se il tessuto produttivo italiano non s'è evoluto con i tempi. La lista dei disincentivi a crescere, a managerializzare, a investire è sterminata ed anche qui è la solita, da una tassazione che punisce l'impresa e il lavoro a una giustizia civile che non garantisce l'osservanza dei contratti, da una formazione inadeguata, soprattutto tecnica, a mercati troppo protetti, da una pubblica amministrazione costosa e inutilmente complessa a una normativa inutilmente farraginosa a infrastrutture insufficienti.
 
Red. La banalità del pensiero è sempre una colpa. Anche Panara si lascia andare a un elenco di luoghi comuni "copincollati" senza pensarci sopra. Strano semmai che non vi abbia aggiunto la corruzione e l'economia sommersa.
 
Oltre all'imprenditore però ci sono i lavoratori e chi li rappresenta, il sindacato, che come molti imprenditori, la politica e la pubblica amministrazione s'è fermato agli anni '90, non ha colto il cambiamento, non ha cavalcato le potenzialità della nuova epoca per creare un ambiente più favorevole al lavoro spesso (non sempre) privilegiando la conservazione all'evoluzione.
 
Red. Il problema inizialmente mal posto produce un circolo vizioso. O ci sono state "riforme innovative" accettate dai sindacati ufficiali (che però hanno prodotto un inatteso abbassamento della produttività e degli investimenti) oppure c'è stata "troppa rigidità conservativa" da parte sindacale. Tutte e due le cose non possono stare insieme. O è l'impresa-media che è venuta meno alla sua "missione" (investire per crescere, anche in produttività), o c'è qualcuno che glie lo ha impedito. E quest'ultima cosa non è mai accaduta.
 
Ora però siamo tutti nudi, di fronte alla prospettiva dell'impoverimento nessuno può più permettersi di stare fermo. Il governo ha fatto molto per muovere il contesto, ma per il momento sono leggi in attesa di implementazione, senza la quale restano solo buoni propositi e, soprattutto, quello che è stato possibile fare in un anno non può trasformare un paese ancora pienamente immerso in un secolo che è ormai finito già da oltre un decennio.
 
Red. Altro circolo vizioso. Il governo Monti e quello precedente "hanno fatto molto" nel senso sbagliato, favorendo tutte quelle misure (precarietà e flessibilità in uscita) che hanno abbassato la produttività. Anche a Panara non resta che rifugiarsi nell'ideologia dei luoghi comuni sul paese "rimasto al secolo scorso".
 
Imprese e sindacati si devono invece occupare di quello che avviene dentro l'azienda, che è una componente importante della partita. Con un problema al quale bisogna trovare soluzione: il grosso delle aziende italiane, quelle dove è più acuto il problema della produttività sono le piccolissime, ma lì il sindacato e la contrattazione aziendale non arrivano. Per loro gli accordi che Confindustria e sindacato eventualmente raggiungeranno saranno lettera morta, bisognerà immaginare qualcos'altro e in fretta.
 
Red. Notazione giusta, ma con due possibili vie d'uscita. La piccolissima impresa non ha quasi fisiologicamente la possibilità di migliorare in tecnologia, quindi in "produttività buona". E qui il sindacato non esiste; quindi non è neppure retoricamente evocabile come "ostacolo". Non a caso, Panara alza bandiera bianca e invita a "immaginare" qualcosa. Per chi negli anni aveva innalzato ad esempio per tutti il "piccolo è bello" si tratta di una resa senza condizioni.
 
Infine le conseguenze. Aumentare la produttività è necessario, pena l'impoverimento, ma non è facile né indolore. Perché, in condizioni date, aumentare la produttività vuol dire fare le stesse cose di prima ma con meno lavoratori, ovvero ulteriore disoccupazione. Questo è quello che gli economisti definiscono un aumento della produttività difensivo.
 
Red. Siamo al punto: quel che il governo vuole dai sindacati. Più ore di lavoro individuali per chi resta, più licenziamenti. L'"aumento della produttività difensivo" è, nel nostro linguaggio, "aumento dell'estrazione di plusvalore assoluto". Non c'entra nulla con la "produttività", e persino poco con la profittabilità. È sfruttamento intensivo di una forza lavoro ridotta, che non darà alcun vantaggio"competitivo", nemmeno ai livelli più bassi della catena produttiva; perché su quel piano la competizione degli "emergenti" (e ancor più dei "non ancora emersi") è imbattibile.
 
Per la crescita dell'economia e dell'occupazione è necessario qualcosa di più, non basta neanche fare più cose con le stesse persone (e trovare un mercato per il maggior prodotto). Per creare lavoro si deve produrre molto di più o cose di maggior valore impiegando molte più persone, ma questo richiede la capacità di spostarsi verso settori più avanzati, di creare prodotti nuovi e vincenti, di creare e conquistare nuovi mercati. Non ci si arriva dall'oggi al domani. E' la strada che molte aziende esportatrici (quelle che producono il valore aggiunto più alto indipendentemente dalla dimensione) hanno già percorso, ma non sono abbastanza.
 
E' il sistema Italia che deve fare questo salto. Un mese non basterà per cominciare e neanche per mettere a punto la ricetta. Ci aspettiamo almeno un segnale.
 
Red. Da quel che vediamo, siamo certi che questo "segnale" non arriverà. Come spiega persino Moody's, parlando del rating dei big dell'automobile (Fiat, Renault, Peugeot), siamo in piena "sovraproduzione". O si riduce la "propria" capacità produttiva (distruggendo capitale, macchinari, infrastrutture, uomini in carne e ossa; è quello che Panara chiama pudicamente "impoverimento"), o si distrugge quella altrui ("creare prodotti nuovi e vincenti, di creare e conquistare nuovi mercati"). Chi resta all'interno di questo scenario non può immaginare altro. La possibilità della "cooperazione" non li sfiora nemmeno. È questo che rende la crisi, nelle loro mani, "irrisolvibile".

mercoledì 19 settembre 2012

Che vuol dire: "populista" ?


Perché non dobbiamo berci la favola del mostro cattivo populista

Ecco la favola. Un fantasma cattivo si aggira per l’Europa: il populismo. A esso se ne contrappone uno buono: l’europeismo. Il fantasma cattivo ha un pessimo carattere: odia l’euro, non ha mai amato l’unità del Vecchio continente, diffida delle banche, in qualche caso è xenofobo se non razzista, ha paura del nuovo, difende il territorio e la nazione, è stufo di fare sacrifici pagando tasse e usufruendo di minori servizi. Ha molte facce, quella della Lega e quella di Grillo dalle nostre parti, quella di Marine Le Pen o di Heinz-Christian Strache, leader del partito austriaco della Libertà e persino quella di Alexis Tsipras capo di Syriza (colpevole di dire sì all’euro ma no all’austerità) in Europa. Spesso si insinua in fasce di popolazione sociali più ampie che con quei partiti non hanno niente a che fare. E’ successo in Europa quando grandi paesi come la Francia e l’Olanda non hanno votato i trattati europei. O quando nelle piazze di Atene, di Madrid o di New York è divampato l’odio contro le misure delle Banche centrali.
Il fantasma buono invece difende l’euro, ha la faccia del Parlamento europeo, delle Banche centrali, dei sacrifici necessari, del politicamente corretto, della sobrietà nordica, di un moderato multiculturalismo. E’ efficiente e retto. Vuole che tutto funzioni a dovere, senza sprechi e senza eccessi. E’ penetrato dovunque. Negli istituti finanziari, nei governi europei, nei grandi giornali. Ha imposto il rigore e promesso la crescita. E’ nemico giurato del populismo e pensa che contro di esso occorra lottare senza tregua. Il nostro di governo ha proposto addirittura di convocare un summit con i capi di stato europei su questo tema. Per prendere le adeguate misure. Basta col populismo, ha detto severamente Mario Monti.
Troviamo la favola del fantasma cattivo e del fantasma buono ogni giorno sui giornali nazionali. Con tempestività e sincronia direttori ed editorialisti hanno unito il loro coro a quello dei politici preoccupati. Usando le stesse parole, facendo le stesse confusioni e servendosi delle stesse semplificazioni di comodo. E’ una semplificazione di comodo, ad esempio, dire che sono egualmente populisti Grillo, Tsipras, i movimenti di ribellione alla politica di austerità, che il fantasma venga intravisto anche nelle critiche che partiti pur moderati fanno alle attuali politiche europee, che, insomma, si sospetti in tutte le posizioni non coincidenti con quelle dei centri finanziari e dei governi che sono in sintonia con essi.
E allora nasce un dubbio, anzi molti. Forse il mostro populista è evocato per paura che alle attuali, sobrie, rigoriste e conformiste politiche europee si contrapponga un’opposizione, di qualunque tipo, di qualunque natura, comunque non reggibile da chi pensa di detenere “tecnicamente” e quindi chissà perché ormai giustamente il potere. Forse il fantasma è creato per occultare una impotenza o un probabile fallimento di fronte all’enormità dei problemi posti dalla crisi. Forse la favola cela una insopportabilità verso qualunque forma di disaccordo, comunque si manifesti. Sono dubbi forti che le tirate quotidiane contro i populismi accrescono. Che la sincronia fra la descrizione del mostro e i dati drammatici sulla situazione sociale avvalorano.
Oggi si ha bisogno della favola dei due fantasmi. Si ha bisogno di raccontarla e di raccontarsela, invece di fare un esercizio più utile e salutare. Capire che sotto ogni pulsione popolare o populistica, persino la più spregevole, c’è un motivo e un bisogno. La pulsione xenofoba, forse la più odiosa, non è in gran parte frutto della insicurezza non solo economica? La ribellione all’euro non nasce dalla constatazione innegabile che le condizioni di vita sono peggiorate? La diffidenza nei confronti delle banche non ha seri motivi su cui fondarsi? La rabbia è sempre indistinta e condannabile, oppure qualche volta nasce da una disperazione che si deve comprendere? Forse chi evoca il fantasma del populismo fa solo la politica dello struzzo. Nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere.
di Ritanna Armeni

Che vuol dire: "fascista" ?


L'IDEOLOGIA DEL FASCISMO

Che cosa è il Fascismo?
Una Ideologia Moderna e Rivoluzionaria che mira ad edificare un nuovo tipo di società alternativa a quella espressa dalle democrazie liberali e capitaliste. Il Modello politico di questo Ideale prende il nome di STATO ETICO CORPORATIVO.

Che cosa è lo Stato Etico?
Il Fascismo afferma il valore di in individuo inserito all’interno di una compagine sociale che è la comunità nazionale. Tale comunità si eleva a realtà etica diventando Stato, un ente Morale Superiore che ha il compito di realizzare il Bene Comune dei Cittadini. L’individuo identificandosi con lo Stato, quindi con la sua Comunità di appartenenza, raggiunge la vera libertà. L’etica che permea la morale dello Stato Fascista è il Corporativismo.

Che cosa è il Corporativismo?
Il Corporativismo è una concezione Morale ed Etica della Politica da cui deriva una concezione socioeconomica che mette l'uomo al centro della società, ritenendolo un Componente essenziale della Comunità nazionale. Il Corporativismo concepisce dunque la Comunità Nazionale come un Corpo Organico in cui ogni “parte” concorre e collabora per il Bene Collettivo. Compito dello Stato è di realizzare un armonico collettivo all’interno del quale non sono ammesse divisioni e lotte intestine, in nome della più pura ed autentica Democrazia Organica, totalitaria e corporativa. 

Il Corporativismo è anche un principio economico?
Si, anche l’economia rientra nello Stato, a differenza delle economie capitalistiche dove è lasciata all’egoismo individualistico di mercati e privati. Il Fascismo non ritiene che l'egoismo dei singoli sia fonte di benessere per tutta la società e mira alla creazione di una società solidale ed altruistica nella quale l'economia sia un mezzo per garantire il benessere materiale della società e nel quale il lavoro, assurgendo a valore morale, diventi non più l’oggetto ma il soggetto dell’economia.
Il Fascismo prevede la Partecipazione diretta del Lavoro nello Stato attraverso una Camera delle Corporazioni nella quale sono presenti i rappresentanti di ogni professione e delle diverse categorie produttrici, riuniti in sindacati di categoria che possano legiferare su questioni di loro competenza. Anche nelle aziende il lavoro partecipa alla gestione della “res publica” tramite una equa distribuzione degli utili.

Che differenza c’è tra Corporativismo Fascista e neocorporativismo anglosassone?
Il Corporativismo Fascista è qualcosa di completamente diverso dal sistema delle "corporates" americane, che sono singoli gruppi di potere che manipolano lo Stato per i propri egoistici interessi: nello Stato Etico Corporativo le corporazioni sono di fatto Organi dello Stato che concorrono al suo benessere e quindi al benessere della Collettività.

Il Fascismo è dunque una Dittatura Collettivistica?
Niente affatto, si tratta di indirizzare le iniziative private verso i bisogni della comunità realizzando quella sintesi armonica tra capitale e lavoro, individuo e Stato, libertà e autorità che è necessità vitale dell’epoca moderna. Questa impostazione rivoluzionaria dei problemi è il sigillo impresso di una nuova Civiltà. Lo Stato Etico Corporativo non solo è compatibile con il pluralismo, ma anzi lo esalta, valorizzando i singoli impulsi, senza che essi degenerino nell’antagonismo e nella frammentazione. Citando Ugo Spirito: “lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non ha bisogno di livellare, disindividualizzare, annientare l’individuo e vivere della sua distruzione: al contrario esso si potenzia col potenziamento dell’individuo, della sua libertà, della sua proprietà, della sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei rapporti con gli altri individui”.

Ma quindi il Fascismo è Democratico? 
Il Fascismo nega che i regimi liberali cosiddetti “democratici”, fondati sul monopolio del capitalismo finanziario, sulla dittatura dei parlamenti e dei partiti che non sono una libera espressione della volontà popolare, sulle clientele e sulla corruzione oligarchica, possano essere considerati regimi realmente democratici. Il Fascismo rivendica a se la pretesa di realizzare l’unica democrazia possibile, quella Corporativa, dove il Popolo partecipa attivamente e in maniera diretta alla vita dello Stato, in quanto Cittadino e Produttore, attraverso le diverse istituzioni e le Corporazioni. La democrazia fascista non è intesa in senso materialistico, come nei regimi liberali dove il popolo è visto come “numero”, ma spiritualmente come l’idea che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti.

Il Fascismo è una Civiltà Spirituale?
Il Fascismo respinge il materialismo che rende l’uomo una macchina dedita all’interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi economici e materiali ed esalta un modello di società Spirituale che riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo. il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, concepisce la vita come lotta, esalta quelle che sono le virtù etiche dell’uomo. 
Il Fascismo ha una concezione della vita religiosa in quanto richiede una fede cosciente, assoluta ed intransigente ai valori etici e morali che permeano la comunità. 

Questa Civiltà è solo italiana o Universale?
Il Fascismo, in continuità con la tradizione civile e imperiale di Roma, propone un Modello di Cittadinanza che trascende la mera appartenenza geografica per elevarsi a costruzione di una coscienza unitaria universale. Per il Fascismo il concetto stesso di Nazione non ha carattere "materiale", come nel nazionalismo, ma Spirituale. Lo Stato Fascista, superando i limiti di una visione fin troppo angusta e materialista non si pone confini territoriali, bensì affratella popoli e nazioni, crea un ponte tra culture differenti ed instaura un modello superiore di Civiltà. Civiltà che fu e sarà sempre imperialista; cioè mondiale, nel senso più alto e più puro della parola.

Il Fascismo non e' dunque razzista? 
Esattamente. Il Fascismo, dottrina erede dell'universalismo romano, non è razzista e nemmeno antisemita. La sua concezione Spirituale supera il materialismo tipico della concezione naturalistica del razzismo ed afferma il sommo valore dello Stato che affratella etnie, popoli e nazioni all'insegna della Civiltà Imperiale del Littorio. Per il Fascismo la cittadinanza è data dall’adesione ai valori etici e culturali trasmessi dallo Stato, che con la sua azione etico-pedagogica è in grado forgiare il carattere ed il temperamento degli uomini dando vita ad una nuova "razza", a prescindere dall’etnia d’origine, che rappresenta l'Uomo Nuovo Fascista. Solo chi non vuole assimilarsi all’armonico collettivo fascista e mira invece ad intaccarlo ne viene coerentemente allontanato, a prescindere dalla sua etnia.

Il Fascismo è di destra o di sinistra?
Per il Fascismo Destra e Sinistra sono parole vuote e prive di significato, appartengono alla fraseologia da museo dei sistemi liberali. Il Fascismo non è né di Destra né di Sinistra in quanto mira all’unità del Corpo Politico e Sociale della Nazione.

Quindi il Fascismo non è di Estrema Destra? 
Non solo il Fascismo non è di Destra o di Estrema Destra, ma considera questa area politica come il principale ostacolo alla sua affermazione, sia perché si appropria illegittimamente del Fascismo, snaturandone l’essenza, sia perché idee e metodologie sono estranee al Fascismo e fanno invece comodo alla nomenklatura antifascista che vede identificati in essa gli stereotipi del fascista rozzo, violento, razzista e filonazista.

Può il Fascismo definirsi una forma di socialismo?
Il Fascismo ha superato le vecchie dicotomie Destra e Sinistra, così come ha ripreso e superato lo stesso socialismo. Partendo dal recupero di Mazzini e coniugandolo ad esperienze e concezioni successive (Sindacalismo Rivoluzionario di Sorel) il Fascismo definisce la sua Dottrina come UNICO SOCIALISMO POSSIBILE, permeato da una concezione Spiritualistica basata sulla “Rivoluzione Morale” della Cittadinanza. Il socialismo di Mussolini si ritrova nella Dottrina stessa, fondata sull'Etica, la Morale e la Giustizia Sociale. Una Dottrina che vuole il Sindacalismo Corporativo come base del Lavoro Nazionale. Si tratta quindi, parafrasando Mussolini, di un “Socialismo Nostro”, un socialismo etico ed anti-materialista. 

Hanno le religioni una particolare valenza per il Fascismo? 
Il Fascismo riconosce e rispetta le religioni di un determinato popolo e rispetta la libertà di culto dei singoli cittadini fintanto che non siano in contrasto con l’etica dello Stato. Il Fascismo, rigettando le battaglie anticlericali del materialismo, auspica una società fondata sull’armonico collettivo all’interno del quale si stabilisca una retta Laicità fondata sulla concordia e sulla giustizia: Stato e Chiese che lavorino in campi distinti e definiti, ognuno nel proprio ambito e per la propria funzione. 

Qual è il simbolo del Fascismo?
L’emblema del Fascismo è il Fascio Littorio, simbolo dell'Unità, della Forza e della Giustizia. L'unità del Corpo Sociale, le cui classi sono legate insieme dalle verghe che simboleggiano l’Unità, la cui forza, l'ascia, è garante della Giustizia.

Quale Partito oggi rappresenta l’Ideale Fascista? 
Nessun partito odierno rappresenta l’Ideale del Fascismo mussoliniano- gentiliano. In particolar modo i partiti cosiddetti “neofascisti”, inseriti nel sistema partitocratico della repubblica nata dalla resistenza, che vengono ingenuamente associati ad esso. 

Ma allora come posso conoscere il Fascismo? 
Puoi conoscere il Fascismo tramite l’unica Associazione Culturale realmente fascista che da tempo ne promuove lo Studio e la Diffusione: Associazione Cultura Fascista - http://culturafascista.com/