Sulla
commissione parlamentare d'inchiesta l'accusa al sottosegretario
all'economia. L'offerta di rimborso di BpVi e Vb? «No, prima charezza su
malversazioni»
«La proposta di conciliazione per gli azionisti delle ex popolari venete non ci convince sul piano del metodo.
Atlante si è presentato come il padrone di BpVi e Veneto Banca, ma sul
piano morale i proprietari delle due banche sono ancora i risparmiatori.
Nel merito le decisioni assunte dai vertici di BpVi e di Vb non ci
convincono perché non solo utili a ripristinare quel clima di fiducia
utile a far ripartire due istituti di credito che stando prudenti perdono 30-40 milioni al mese»: boccia così l’offerta dei due istituti di credito l’avvocato trevigiano Andrea Arman, esponente del Coordinamento Don Torta.
Ma non è una bocciatura preconcetta: «Si sarebbe potuto anche dire sì, ma ad un patto:
fare totale chiarezza rispetto alle malversazioni che ci sono state
anche da parte delle nuove gestioni a partire dalla trasformazione in
spa delle due banche avvenuta nel dicembre 2015 per VeBa e nel marzo
2016 per BpVi. Ma non ci siamo. Sinceramente non credo che in moltissimi aderiranno alle due proposte,
ad eccezione di coloro che hanno veramente l’acqua alla gola. Per certi
aspetti viene da pensare che la proposta cucinata a Padova sia in
qualche modo pensata proprio per rompere il fronte dei risparmiatori.
Il mio peraltro è un giudizio che riguarda non solo i vertici dei due
istituti, ma pure quello del governo. Il quale secondo me in questa
circostanza, come è capitato per l’intervento pubblico su Monte Paschi,
sta agendo all’unisono coi banchieri. Ad ogni modo la cosa che più ci
rattrista è la mancata volontà da parte della maggioranza governativa di
promuovere una commissione parlamentare d’inchiesta sui rovesci bancari degna di questo nome. E che abbia la facoltà di indagare a 360 gradi».
Sui media, anche i meno ostili al governo, si è scatenato un polverone sui poteri di cui la nascitura commissione potrà disporre. Da quanto riferisce Dagospia, che a sua volta rilancia La Repubblica, la commissione sulla carta ha gli stessi poteri della magistratura requirente, ma non andrà a sindacare l’operato di Bankitalia sulle sue eventuali colpe in vigilando o intromissioni indebite. Si darebbe il caso, se così fosse, di una banca centrale che finisce per limitare le potestà costituzionalmente garantite al parlamento.
E che il governo, anche quando a palazzo Chigi c’era Matteo Renzi, la
pensasse in qualche modo come palazzo Koch, lo si desume da una presa di
posizione precisa, mai emersa prima con la dovuta evidenza, che il
sottosegretario all’economia, il veneziano Pierpaolo Baretta,
rese pubblica durante un simposio sullo scandalo popolari venete
organizzato a a Venezia il 17 dicembre scorso dall’Accademia Marciana.
«Io ero tra i relatori – racconta Arman – e in quella circostanza
Baretta, che era con me sul tavolo degli oratori, clamorosamente ammise che una commissione d’inchiesta sulle banche non sarebbe stata possibile per non entrare in conflitto istituzionale con Bankitalia.
Si tratta di parole sconvolgenti. Se tanto mi dà tanto sarebbe il caso
che anche per BpVi e VeBa venissero resi noti, come si propone per Monte
Paschi, i nomi dei grossi debitori. Da questo punto di vista sia nel Coordinamento Don Torta che presso diverse altre associazioni, questo sentimento è tutto sommato condiviso».
Commissione d'inchiesta sulle banche e Commissione per il "plico Giolitti" 1893 marzo 22 - 1894 dicembre 13
L'inventario riguarda i documenti di due commissioni
parlamentari, quella d'inchiesta sulle banche, comunemente definita
"Comitato dei sette", costituitasi nel marzo del 1893 e presieduta da
Antonio Mordini, e quella incaricata di prendere visione del piego
depositato da Giovanni Giolitti, denominata "Comitato dei cinque", che è
stata presieduta da Abele Damiani ed ha operato nel dicembre del 1894.
"...la Camera, approvando, nella seduta del 20 dicembre 1893, un ordine del
giorno del deputato Cavallotti, decise la stampa di tutti i documenti,
tranne (emendamento Di Rudinì) quelli destinati dalla Commissione
all'Archivio segreto."
Il "Comitato dei cinque", come fu anche denominata la Commissione,
ritenne di escludere dalla pubblicazione l'intero contenuto delle buste
nn. 5 e 6. La n. 5 conservava documenti relativi alle trattative per la
fusione fra la Banca Nazionale e la Banca Romana, intercorse nell'agosto
e nel settembre del 1892; la sesta conteneva 120 lettere, 8 del
deputato Francesco Crispi e 102 di donna Lina Crispi, tutte di carattere
privato e pertanto da restituirsi agli interessati. La Commissione
propose anche di escludere dai documenti che dovevano essere dati alle
stampe i nomi delle persone defunte e quelli dei senatori.
Commissione d'inchiesta sul corso forzoso dei biglietti di banca 1868 marzo 10 - 1868 novembre 28
La Commissione parlamentare d'inchiesta sul corso
forzoso dei biglietti di banca fu nominata a seguito dell'ordine del
giorno presentato dai deputati Tommaso Corsi e Alessandro Rossi e
approvato nella tornata del 10 marzo 1868
La schedatura analitica della documentazione ha consentito di
evidenziare l'esistenza di lacune talvolta notevoli.Mancano, ad
esempio, gli originali delle risposte - ad eccezione di quelle inviate
dalla Banca nazionale dl Regno d'Italia e dal Banco di Sicilia - ai
quesiti che la Commissione aveva posto a tutti gli istituti di credito
esistenti sul territorio nazionale, a tutte le camere di commercio, al
Ministero delle finanze e ad altri ministeri, alle società ferroviarie
ed altre, e a numerose personalità particolarmente esperte nel campo
finanziario. Non si sono, soprattutto, rinvenuti i verbali delle
riunioni della Commissione.
Avrà una doppia missione la Commissione d'inchiesta sulle crisi
bancarie che ha già incassato il via libera della Camera, ma anche l'ok,
ieri, alla procedura d'urgenza per i 13 ddl sulle banche all'esame
della Commissione Finanze del Senato. Mettere a nudo le responsabilità
di certe crisi bancarie, tra amministratori, controllori e vigilanti
(anche a livello Ue evidentemente) oltre ai debitori insolventi, ma
anche individuare gli strumenti ad hoc per evitare che certe crisi si
ripetano. Ecco perché...
Mentre
si attende che il ministero del Tesoro salvi Mps con una manciata
(oltre 6) di miliardi freschi, è stata salutata con consenso ecumenico
la notizia della commissione d’inchiesta parlamentare sul sistema bancario. Una trattativa segreta tra Pd e Forza Italia e, alla fine, è saltato fuori dal cilindro l’ok generale. «Ma rischia di essere inutile», dice Giulio Marcon deputato di Sinistra italiana
e componente della Commissione Bilancio della Camera. Sì, è vero, la
proposta di legge arriverà al Senato a fine mese, ma a che cosa servirà?
È un po’ come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. «Si
arriva alla mozione di istituire una commissione d’inchiesta con grande ritardo,
eppure i problemi delle banche, e non solo del Monte dei Paschi, erano
noti da tempo. Ora, essendo alla fine della legislatura, non so con
quali tempi verrà fatta, ma sicuramente non ci sarà il tempo materiale
per produrre dei risultati entro il termine di questa legislatura». Una
commissione d’inchiesta su un tema così delicato e complesso – e con le
sue ramificazioni tentacolari, nella classe politica – potrebbe
richiedere infatti molto tempo. «È comunque un’occasione persa, perché
si arriva tardi e con troppa lentezza. E poi c’è da evidenziare la genericità dei compiti di questa commissione.
Dire che si deve occupare di tutto il sistema bancario significa fare
un lavoro enorme, senza andare a vedere subito l’obiettivo e cioè
analizzare i comportamenti di quelle banche che adesso sono sotto esame
dell’opinione pubblica e della commissione europea». Marcon si riferisce
a Mps, le due banche venete (Veneto banca e Popolare Vicenza) e
le quattro oggetto del decreti salva banche del governo Renzi
(CariFerrara, Etruria, Banca delle Marche e CariChieti).
Sinistra Italiana ha presentato una mozione in cui si chiede proprio
questo, che si restringa il campo di azione alle banche nell’occhio del
ciclone con un lavoro più specifico. Un altro aspetto della vicenda riguarda i debitori di Mps,
cioè quei gruppi o imprenditori che avevano ricevuto dei prestiti nel
corso degli anni e che non li hanno mai restituiti. Lo stesso presidente
dell’Abi Antonio Patuelli aveva lanciato un appello perché almeno i
nomi dei primi cento debitori si rendessero noti. Intanto i media hanno già pubblicato alcuni
nomi di imprenditori, immobiliaristi, grandi gruppi industriali,
cooperative che sono esposti dal punto di vista creditizio. È tutto da
dimostrare in che termini, ma intanto la domanda è: c’è stato un
atteggiamento un po’ troppo “leggero” da pare dei vertici bancari nel
concedere i prestiti? Tra l’altro Mps con i suoi 27 miliardi di euro di
crediti deteriorati (gli Npl, non performing loans) è solo la punta dell’iceberg. Nel
2016 secondo i dati della Banca d’Italia le sofferenze bancarie lorde
sono aumentate: 199 miliardi di euro contro i 198 del 2015.
Come si è arrivati a questo punto? Giulio Marcon fa risalire tutto alla legge Amato del 1990 che sancì la privatizzazione degli istituti di credito.
«Si voleva sottrarre il sistema bancario dalla influenza della
politica, ma in realtà ci ritroviamo un sistema bancario privatizzato
che continua ad essere un crogiuolo che vede dentro sia una parte del sistema industriale che una parte del sistema politico.
Se l’inchiesta si farà, spero che si metta in evidenza quello che è
sotto gli occhi di tutti, e cioè che nel caso di alcune banche, alcune
operazioni – investimenti o acquisizioni che sono stati fatti, per
esempio nel processo di allargamento – o sono sono state veicolate da
una parte del sistema politico o comunque fortemente condizionato o con
interessi evidenti, nel caso del Mps, da parte di potentati locali». Quindi la politica che si voleva far uscire dalla porta rientra dalla finestra.
Ora, con la commissione d’inchiesta, sta alla stessa politica riuscire
ad analizzare un “groviglio armonioso” – questa era la definizione
sull’intreccio Mps-politica-Siena – in cui, appunto, la politica stessa
c’è dentro fino al collo. Inutile dire che occorrerà davvero una visione
“laica” e soprattutto oggettiva del problema.
Carlo De Benedetti, Emma Marcegaglia, Alfio Marchini
di
pso
Camera e Senato discuteranno la richiesta che viene
dalle opposizioni (M5s a Palazzo Madama e Forza Italia a Montecitorio)
di accelerare sull'istituzione di una commissione d'inchiesta che faccia
chiarezza sulle crisi bancarie e sulle vicende che hanno portato al
salvataggio pubblico di Mps mentre la stessa banca si dice pronta, se le
norme lo permettono, a pubblicare la lista dei suoi principali debitori
insolventi. Al momento ci sarebbero infatti ostacoli normativi che
riguardano tutti gli istituti di credito a dare seguito al suggerimento
arrivato dal presidente dell'Abi, Antonio Patuelli, che già aveva
scatenato ampio dibattito. Intanto la direzione risorse umane di Mps,
proprio mentre aumenta il pressing per avere la lista dei debitori, ha
ricordato ai dipendenti gli obblighi di condotta, legati anche a
normative, per garantire uniformità e correttezza nella diffusione di
informazioni.
I nomi degli insolventi e le cifre
Se l’istituto di credito e una parte del nostro mondo politico
tentenna, la stampa italiana è da tempo alla ricerca di nomi e cifre.
Libero e La Verità sono in prima linea in questa caccia all’uomo. E
proprio queste testate hanno cominciato a fare i primi nomi eccellenti e
le cifre che costoro non avrebbero ai restituito non solo a Mps, ma
anche a Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare Etruria, Banca delle
Marche e Unicredit. I primi nomi li aveva fatti Libero il 28 dicembre
scorso in un articolo firmato Giuliano Zulin. Stando ai dati diffusi dal
giornale diretto da Vittorio Feltri, il 70% dei cattivi debitori di Mps
non sarebbero commercianti o artigiani, ma grandi gruppi industriali.
Tra questi si distinguono la Sorgenia della famiglia De Benedetti e i
Marcegaglia. La “prima tessera del Pd” ha chiesto e ottenuto senza mai
restituirli 650 milioni di euro. I secondi, lo scorso marzo hanno
beneficiato di un nuovo finanziamento da circa 500 milioni nonostante
abbiano già debiti per 1,5 miliardi di euro. Nella stessa situazione si
trovano altri importanti gruppi industriali del nostro Paese.
Il soldi prestati e mai restituiti
Uno dei casi più
significativi si insolvenza è stato quello del gruppo Sansedoni Siena
spa, cui Mps, spiega Libero, che proprio grazie ai soldi non restituiti è
divenuto “parte correlata” della Mps. La banca ha infatti trasformato
il credito vantato, 25.9 milioni, nei confronti della capogruppo nel
21.75 del capitale. La stessa cosa, ha spiegato il giornalista Franco
Bechis, è accaduto per le società controllate a valle: Marinella Spa che
non ha mai restituito 26,9 milioni. Lo stesso è accaduto con le
controllate della Sansedoni: alla Sviluppo e Interventi è stata
congelata la cifra di 48.4 milioni di euro. Lo stesso trattamento era
stato riservato alle Robinie Spa, diventata proprio per questo proprietà
Mps. Altre risorse, 20 milioni di euro, sono state inghiottite dalla
fallita NewColle srl. Così è andata anche con gli 11,3 milioni prestati
al gruppo Fenice della famiglia Fusi e alle relative controllate come
Una spa, quella degli hotel, Euro srl e Il Forte spa. Non si sa neppure
che fine faranno i soldi prestati a Menarini, per il quale è in corso
un'inchiesta.
Il settore pubblico non è da meno di quello privato
Il settore pubblico non è da meno di quello privato. A non restituire
il maltolto, fra le insolventi ci sono infatti le municipalizzate e
società regionali toscane: la Fidi Toscana spa, che lo scorso agosto ha
ricevuto un altro prestito da 98 milioni di euro, con Mps già al 27,46%
del capitale. Nella lista le Terme di Chianciano, esposte per 10
milioni, e i 4,8 dell'Interporto Toscano A. Vespucci spa. Negli elenchi
spuntano anche i nomi delle romane Atac e Metro C. Nei confronti della
società di trasporto locale il Montepaschi, che nel 2013 aveva
partecipato ad un pool di banche che concessero un finanziamento per
oltre 200 milioni, poi rischedulato a 163 milioni, rischia circa 30
milioni. Altri nomi eccellenti li ha fatti La Verità. Colpiscono in
particolare i nomi della Tassara di Romain Zalenski (un buco di 200
milioni), il Sole 24 Ore, i costruttori romani Toto, Luigi Zunino.
Ecco le altre banche frodate
La Verità ha anche fatto i nomi degli insolventi delle altre banche
in crisi. La Popolare di Vicenza, che ha bruciato dall’oggi al domani
ben 6 miliardi e mezzo, si era fidata delle imprese di Alfio Marchini
che ai vicentini aveva chiesto 76 milioni di euro. Cinquanta non li ha
invece restituiti il gruppo pugliese Fusillo, che ha anche un debito di
120 milioni con la Popolare di Bari. La Degennaro costruttori avrebbe
dovuto restituire 27.5 milioni. La Veneto Banca ha, d’altro canto,
sbagliato a fidarsi di Antonio Casale, l’immobiliarista bolognese ha
incassato 78 milioni. Altri 50 milioni li ha introitati Francesco
Bellavista Caltagirone. Somme importanti sono finite nelle tasche dei
cementifici Federici e nelle finanziarie dei fratelli Landi (crac
Eutelia). La Banca delle Marche piange i soldi versati a Davide De
Gennaro (70 milioni), il gruppo costruzioni Lanari (110 milioni),
Minardi (130), Ciccolella (80). Il capitolo Unicredit si apre con i nomi
di Rcs (54.4 milioni), Alitalia (20), Tassara (119), i costruttori
Parnasi (650 milioni di debiti). Il governo Gentiloni ha una bella gatta
da pelare.
Banche in paradiso, contribuenti all'inferno: salvate dallo Stato eludono il fisco
Dall’istituto di Siena a Intesa, da
Unicredit a Mediolanum: ecco come i grandi gruppi del credito eludono
il fisco italiano attraverso le loro controllate in Lussemburgo, a
Bermuda e nelle Cayman. Ma quando le cose vanno male, lo Stato deve
intervenire con miliardi di soldi pubblici
Hanno incassato all’estero
decine di milioni di euro. Hanno gonfiato di profitti filiali registrate
nei più aggressivi paradisi fiscali. Uffici senza nemmeno un
dipendente. Eppure, lo Stato italiano corre in loro soccorso. Le aiuta
mettendo a disposizione denaro pubblico. Soldi di chi ha pagato le tasse
in Italia usati per salvare chi le tasse le ha pagate spesso fuori dai
confini nazionali. È il paradosso di Monte dei Paschi di Siena, Veneto Banca e Popolare di Vicenza.
Too big to fail, direbbero gli americani. Troppo importanti per essere
lasciate al loro naturale destino, è l’argomentazione del governo
italiano. Fatto sta che le tre grandi banche salvate al grido di
«tuteliamo i risparmiatori» fanno parte della lista degli istituti con
il vizietto dell’offshore. Big del credito che per anni hanno dichiarato
buona parte dei propri guadagni in Stati o Staterelli dove le imposte
sono basse, bassissime, a volte addirittura inesistenti. Dai grandi
classici europei come Irlanda e Lussemburgo ai paradisi esotici a
sovranità britannica tra cui Cayman e Bermuda. Fino a Singapore ed
Emirati Arabi, le nuove piazze asiatiche tax-free.
Premessa. La tendenza a fatturare offshore non è una specificità tricolore. Lo fanno un po’ tutte le banche d’Europa.
Per dire: l’anno scorso la francese Bnp Paribas ha incassato in nazioni
a fiscalità agevolata o nulla il 12 per cento dei suoi utili, la
tedesca Deutsche Bank è arrivata a un quarto del totale. Per l’Italia,
però, la questione è oggi decisamente più rilevante. Il Fondo Atlante,
finanziato in parte con i soldi della Cassa depositi e prestiti, è
infatti diventato proprietario della Popolare di Vicenza e di Veneto
Banca. E dalle casse dello Stato arrivano direttamente anche i 20
miliardi di euro messi recentemente a disposizione dal governo di Paolo
Gentiloni per salvare le altre a rischio, prima fra tutte Mps. Con il
conseguente aumento del debito pubblico nazionale, già altissimo
rispetto a quello dei concorrenti europei. Ecco perché è importante
sapere se finora le banche hanno pagato le tasse in Italia, soprattutto
quelle che resteranno in piedi grazie al denaro dei contribuenti.
I dati emergono da un’analisi dei bilanci condotta da l’Espresso.
Un’inchiesta possibile grazie all’obbligo, imposto dall’Unione europea a
partire dal 2015, di pubblicare il rendiconto dei principali dati
finanziari relativi a tutti i Paesi in cui l’istituto ha delle attività.
Novità assoluta a livello mondiale, il cui scopo è proprio quello di
limitare il trasferimento di utili verso Paesi dove la pressione fiscale
è più bassa. Contrastare l’elusione fiscale, insomma, fenomeno che
toglie alle finanze pubbliche del Vecchio Continente dai 50 ai 70
miliardi di euro ogni anno, secondo le stime della stessa Commissione.
I risultati dell’indagine dell’Espresso dimostrano che l’obbligo di
trasparenza ha portato alla chiusura di alcune filiali offshore, ma il
ricorso ai paradisi fiscali rimane fondamentale per i protagonisti della
finanza nostrana. «Una situazione preoccupante soprattutto adesso che
vengono usati soldi pubblici per aiutare le banche», sottolinea Tommaso
Faccio, esperto di fiscalità internazionale e docente di Economia
aziendale alla Nottingham University Business School, in Inghilterra. Il
timore del professore «è che questi fondi possano essere spostati
all’estero invece che tornare nelle casse dello Stato, tramite utili
tassati in Italia, una volta che le banche si saranno rimesse in
carreggiata».
Partiamo da Mps, la grande malata d’Europa. I bilanci dimostrano che fra
il 2014 e il 2015 il gruppo ha chiuso due società in Irlanda e una in
Olanda. Offshore, però, ne rimangono aperte ancora parecchie: due
controllate in Lussemburgo, una in Irlanda e ben otto nel Delaware,
rifugio tax-free a stelle e strisce. Risultato? Gli utili pre-tasse
registrati in paradisi fiscali l’anno scorso sono stati 107 milioni di
euro. Equivalenti a quasi un terzo del totale: il 27,9 per cento. Che
una grande azienda abbia filiali in tutto il mondo, e paghi perciò una
fetta delle imposte all’estero, è più che normale. A sorprendere, però, è
la sproporzione fra attività economica e numero di lavoratori.
Prendiamo la Mps Preferred Capital I Llc, società del gruppo con base
fiscale nel Delaware. L’anno scorso ha fatto 44,9 milioni di euro di
utili. Con zero dipendenti. Praticamente un miracolo.
Più limitato il ricorso ai paradisi da parte della Popolare di Vicenza.
L’istituto per anni presieduto da Gianni Zonin, ora finito sotto il
cappello del Fondo Atlante, a fine 2015 aveva una sola filiale
all’estero, in Irlanda. È la Bpv Finance International Plc, cinque
impiegati in tutto. Dopo aver macinato utili per anni, ha chiuso
l’ultimo bilancio con un rosso di 99,8 milioni di euro. «Cesserà di
esistere definitivamente all’inizio del 2017», assicurano da Vicenza.
Clamoroso il caso dell’altro istituto salvato dal Fondo Atlante: Veneto
Banca. A differenza dei cugini vicentini, l’istituto guidato per anni da
Vincenzo Consoli ha aperto filiali in diverse nazioni. Albania,
Croazia, Romania, Moldavia. Un tentativo di allargarsi nei promettenti
mercati nell’Est Europa, dove sono state assunte oltre 600 persone. Al
contempo sono state aperte succursali anche in mercati non proprio
emergenti: Svizzera e Irlanda. E dalla patria di James Joyce sono
arrivati gli unici guadagni consistenti incamerati negli ultimi due
anni: 103 milioni di euro in totale, incassati grazie ai soli sei
dipendenti della filiale. Gli irlandesi, evidentemente, sono dei gran
lavoratori.
A fatturare offshore sono però soprattutto i grandi istituti italiani,
quelli più in salute. Le prime tre banche commerciali convogliano nei
paradisi fiscali quote dei loro guadagni che variano da un sesto fino
alla metà del totale. Per un totale, nel solo 2015, di quasi 2 miliardi
di euro. Intesa Sanpaolo, il principale istituto del nostro Paese per
capitalizzazione di Borsa, ha registrato in Paesi a fiscalità agevolata
il 23 per cento degli utili pre-tasse del gruppo. Eppure in quei posti è
impiegato solo lo 0,5 per cento dei dipendenti totali. Emblematico il
caso di Dubai. Nell’Emirato più famoso al mondo, il gruppo guidato da
Carlo Messina ha fatturato 49 milioni di euro (senza versare un euro di
tasse) con solo 18 dipendenti. Una produttività da record. Significa che
ogni lavoratore in media ha fatto incassare alla banca 2,7 milioni. In
Italia, per capirci, la media fatturata da ogni impiegato è di 315 mila
euro. Quasi nove volte meno.
Ancora più evidente la sproporzione in casa Unicredit. Le controllate di
Bermuda, Cayman e Jersey non hanno nemmeno un dipendente all’attivo.
Stesso discorso per le succursali domiciliate a Malta e nel Regno Unito,
altre nazioni in cui il carico fiscale per le imprese può arrivare a
livelli minimi. A cosa servono allora delle società in quei luoghi?
Attività finanziarie, è la generica spiegazione fornita nel documento
ufficiale. Di certo c’è un dato. Nei Paesi a fiscalità agevolata
Unicredit ha incassato l’anno scorso circa il 15 per cento dei suoi
utili pre-tasse. La fetta più grande appartiene a Irlanda e Lussemburgo,
paradisi nel cuore del Vecchio Continente. Una tendenza valida per
quasi tutte le banche italiane, comprese Ubi e Banca Generali, che nei
due Stati europei piazzano spesso le società che gestiscono obbligazioni
e fondi comuni.
Proprio cavalcando questo fenomeno Mediolanum è diventata già da anni,
come raccontato più volte dall’Espresso, la regina italiana
dell’offshore. Il gruppo controllato da Ennio Doris e Silvio Berlusconi
non ha filiali a Panama o alle British Virgin Islands. La “banca
costruita intorno a te”, come si presenta negli spot pubblicitari, punta
tutto sugli evergreen europei: Irlanda e Lussemburgo, appunto. Da qui
l’anno scorso è arrivato infatti il 52,5 per cento degli utili pre-tasse
del gruppo. Vuol dire che oltre la metà dei guadagni di Mediolanum non è
stato tassato in Italia. Come succede all’irlandese Mediolanum
International Funds Ltd, che si occupa di gestione di fondi
d’investimento ed è la vera gallina dalle uova d’oro del gruppo. Con
soli 26 lavoratori a tempo pieno, la succursale di Dublino ha un
fatturato di 531 milioni di euro e un utile pre imposte di 527 milioni.
Nessun costo, in pratica. E grazie al regime fiscale locale, che tassa
normalmente le imprese al 12,5 per cento contro il 30 per cento
italiano, la finanziaria dei Doris a fine anno ha guadagnato 461,9
milioni di euro netti. Una redditività da record. Con tanti saluti
all’Agenzia delle Entrate.