“Rizzoli vittima dei giudici”: bugia di Berlusconi causò l’ illusione?
di Sergio Carli
ROMA – La sentenza sulla vendita del Corriere della Sera all’attuale compagine proprietaria, che ha visto soccombente l’ex editore Angelo Rizzoli, è anche una sconfitta giudiziaria per l’ex primo ministro Silvio Berlusconi. Per Berlusconi, Angelo Rizzoli è “l’esempio di ciò che sono capaci di fare alcuni pm della Procura di Milano”: per causa loro, “venne espropriato di tutti i suoi beni per consegnare il Corriere della Sera, che era un giornale moderato, e tutte le pubblicazioni della Rcs agli amici della sinistra”.
Rizzoli stesso si era descritto in un’intervista al Giornale del 21 febbraio 2010 con queste parole: “Editore, proprietario del gruppo Rcs, arrestato ingiustamente il 18 febbraio 1983 e ingiustamente privato di tutti i suoi averi dalla spregiudicatezza e dall’avidità dei poteri finanziari italiani, che hanno completato il disegno criminoso della P2: estromettere Rizzoli dalla Rizzoli”.
Il nome dei Rizzoli e della loro società editrice è intrecciato con quello del Corriere della Sera e con un pezzo importante della storia d’Italia degli ultimi 40 anni. La Rizzoli, fondata da Angelo Rizzoli senior, nonno dell’omonimo successore, morto nel 1971, per anni aveva accarezzato il sogno di affiancare, alla sua corona di riviste, libri e film di successo, un quotidiano nazionale.
La testata era già scelta, Oggi, quella del settimanale nave ammiraglia. A lungo sono state custodite sotto i teloni in un magazzino le rotative e senza essere nemmeno montate e anche il direttore era stato già scelto, Gianni Granzotto, volto amato dagli italiani come commentatore di successo del telegiornale unico.
Poi l’amara realtà del mercato italiano degli anni ’60, dei vincoli sindacali e contrattuali, della pubblicità ancora asfittica, avevano convinto Rizzoli a rinunciare.
Ma nel 1974 Andrea Rizzoli, successo al padre, aveva deciso che il momento era giunto e la Rizzoli, nel cui consiglio il giovane Angelo era entrato tre anni prima, appena ventottenne, decise l’acquisto della preda più ambita, il quotidiano italiano per antonomasia, il Corriere della Sera, il giornale di Milano e della ricca borghesia lombarda.
Il Corriere era maturo per la cessione: anni di cattiva gestione, di crisi economica e pubblicitaria, caos nelle relazioni industriali sommato alla sopravvivenza di norme fasciste sul lavoro domenicale, avevano messo in ginocchio l’azienda, al punto che un mese, nel 1973, non sarebbe stata in grado di pagare gli stipendi se non fosse sopravvenuta una fidejussione della Fiat.
La gestione era confusa.Lorenzo Jorio, mandato da Giovanni Giovannini, all’epoca plenipotenziario di Gianni Agnelli nell’editoria, a guardare i conti del primo giornale d’Italia mandava a Torino quasi ogni giorno rapporti strabiliati.Per uno che arrivava a Milano dalla fabbrica – caserma di Torino, il fatto che un dirigente chiudesse la porta a chiave, accendesse il segnale rosso di non disturbare e si dedicasse a pratiche yoga giustificava messaggi allarmati.
Il management, abituato agli anni d’oro del boom, non era forse preparato al clima da rivoluzione permanente che si respirava nella Milano post – 68, dove anche impiegati e impiegate di riviste come Click Fotografare si sentivano impegnati nella crociata contro i padroni e la guerra in Vietnam.
Il sindacato era nella fase di massima affermazione, cosa che nei giornali può portare a risultati disastrosi. Infatti, una volta entrati nel Corriere, Rizzoli e il suo direttore generale, Bruno Tassan Din, ottennero alti riconoscimenti verbali dai sindacati, ma, a forza di concessioni sulla parola d’ordine dello sviluppo, portarono l’azienda sull’orlo del fallimento.
Che sarebbe finita così, molti l’avevano previsto alla vigilia della cessione del Corriere ai Rizzoli. Il Corriere era ingovernabile ancor più di oggi e la crisi dei primi anni settanta, con l’inflazione oltre il 20 per cento, divorava l’Italia. La teoria del sindacato dei giornalisti era che l’editore era lì per pagare e se c’era un deficit per colmarlo. A comandare ci pensava il comitato di redazione, rigorosamente diviso fra dc, pci e psi, con poteri di veto sulle assunzioni, come sperimentò sulla sua pelle Mario Calabresi, attuale direttore della Stampa e figlio del commissario il cui nome è legato a quello dell’anarchico Pinelli e giustiziato (Calabresi) da due terroristi di Lotta Continua.
La Fiat a sua volta era entrata nella accomandita, che ancora deteneva, come nell’ottocento, la proprietà del giornale e del gruppo di riviste che gli era cresciuto attorno, perché la crisi lo aveva messo in difficoltà: accanto alla Fiat era entrata anche la famiglia Moratti e la proprietà era ripartita tra tre società scatole in quote paritetiche.
Andrea Rizzoli rilevò le quote dei tre partner della accomandita del Corriere della Sera: Giulia Maria Crespi, discendente della famiglia proprietaria storica del Corriere, Angelo Moratti e Gianni Agnelli (tramite Fiat). La versione postuma del Giornale è che “sarebbe bastato acquistare due sole quote per diventare il nuovo proprietario del Corriere, ma Rizzoli non si accontentò del pacchetto di controllo, e si prese il cento per cento della società editrice”.
La realtà è un po’ diversa. Rizzoli non aveva soldi, tant’è vero che per fare l’operazione finì poi nelle grinfie della P2 e del Banco Ambrosiano. Era intenzionato a comprare solo le quote Crespi e Moratti e il povero (si fa per dire) Agnelli era già stato messo in mezzo e destinato a condividere, senza poter contare nulla. Fu la violenza quasi fisica di Giovannini che ribaltò l’accordo già raggiunto alle spalle di Torino e piazzò anche la terza quota.
Questo spiega anche perché la quota Fiat viene rilevata attraverso una diluizione in tra anni del pagamento.
Poi è come un bollettino di guerra, di una guerra persa.
Sotto la gestione Rizzoli il Corriere della Sera arriva a perdere ogni anno 5 miliardi di lire dell’epoca. Nel 1975 la Rizzoli comunica ai sindacati che il deficit patrimoniale ammonta a 20 miliardi. Su 3.500 dipendenti, 500 sono in esubero. Ma l’editore rassicura i sindacati: il gruppo punta al consolidamento. E l’anno successivo si passa dalle parole ai fatti: nel 1976 la Rcs acquista la rete televisivaTeleMalta e il maggiore quotidiano del sud, Il Mattino. L’anno seguente, nel 1977, Rcs acquisisce anche la Gazzetta dello Sport, il primo quotidiano italiano sportivo, e il controllo azionario di due giornali locali, l’Alto Adige e Il Piccolo di Trieste.
Si trattava di acquisti in parte frutto di una strategia editoriale (Jorio era rimasto al Corriere e portava il contributo della sua competenza e esperienza) in parte frutto di indicazioni da piazza del Gesù, dove aveva sede la Democrazia Cristiana che voleva quei giornali in mani sicure. In precedenza Gazzetta, Piccolo e Alto Adige erano finite in una holding editoriale metà della famiglia Agnelli, metà di Carlo Caracciolo, editore dell’Espresso e per il capi della Dc la società era la prova che Agnelli era il padrone occulto del settimanale del divorzio, dell’aborto, dello scandalo Lockheed. La Fiat pagò cara quella alleanza: per un anno e mezzo i prezzi delle auto, i cui aumenti erano soggetti a autorizzazione governativa, furono bloccati da Roma, mentre l’inflazione correva. La cessione dei quotidiani a Rizzoli doveva essere la prova della pace, dopo il divorzio editoriale di Agnelli da Caracciolo.
Intanto, per fare fronte al pagamento della rata di quota Fiat, il cui valore, a causa dell’inflazione, era nel frattempo lievitato da 15 a oltre 22 miliardi, Rizzoli, che quei soldi non aveva, ricorse ancora a Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, arrivata grazie alla mediazione della loggia massonica P2 di Licio Gelli, presentato a Calvi nel 1975 dal banchiere siciliano, nonché mandante dell’uccisione di Giorgio Ambrosoli, Michele Sindona.
Il Banco Ambrosiano concede al gruppo 20,4 miliardi sotto forma di un aumento di capitale, che passa così da 5,1 a 25,5 miliardi. Roberto Calvi ottiene in pegno da Rizzoli l’80 per cento delle quote del gruppo. Rizzoli jr avrebbe potuto riscattare interamente il suo 80 per cento dopo tre anni, ma al valore, maggiorato, di 35 miliardi.
Nel frattempo Calvi è diventato il vero padrone della casa editrice. Grazie alla modifica dell’assetto finanziario Bruno Tassan Din, amico di Rizzoli, diventa direttore generale della società. La solidità della Rcs è nelle mani dei politici e della P2.
La P2 non è presente solo nell’azionariato della società, ma anche nella stessa direzione del giornale: nel 1977 alla testa del Corriere, al posto di Piero Ottone arriva Franco Di Bella.
Di Bella, che era un grande giornalista ed era stato capo della cronaca milanese del Corriere con Ottone, resterà al timone del quotidiano fino al 1981, quando viene scoperta nella fabbrica “Giole” a Castiglion Fibocchi, presso Arezzo, la lista Gelli. Il nome di Di Bella, insieme con quello di Rizzoli e di Tassan Din, di Berlusconi e di Maurizio Costanzo, è tra i quasi mille degli iscritti alla loggia massonica.
Nonostante il sostegno del Banco Ambrosiano, in seguito ai cospicui investimenti fatti dall’editore, i debiti si accumulano. A partire dal 1978 si abbattono sulle spalle dello stesso Angelo Rizzoli,subentrato al padre come presidente del gruppo.
Non è servito a nulla neppure la nascita del quotidiano formato tabloid L’Occhio, diretto da Maurizio Costanzo. L’esperienza dell’Occhio, tentata proprio per rilanciare il gruppo Rizzoli, dura solo due anni, dal 1979 al 1981, quando lo scandalo P2 si abbatte sul Corriere.
Il 1981 è anche l’anno in cui vengono alla luce le manovre finanziarie del gruppo, in concomitanza con l’esplosione del caso P2: la scoperta della lista Gelli e del coinvolgimento del direttore Di Bella nella loggia massonica fanno perdere parecchie copie al Corriere. Rcs viene coinvolta nel dissesto del Banco Ambrosiano. Riesce ad evitare il fallimento, ma nel 1983 viene formalizzata l’amministrazione controllata. Angelo, il fratello Alberto e Tassan Din vengono arrestatiper bancarotta patrimoniale societaria in amministrazione controllata. Angelo Rizzoli è accusato di aver “occultato, dissipato o distratto” oltre 85 miliardi di lire.
“Nel 1981 possedevo il 90,2% delle azioni, ha raccontato Angelo Rizzoli nell’intervista al Giornale del 21 febbraio 2010. L’80% di esse era temporaneamente in mano al Banco Ambrosiano presieduto da Calvi: un pegno risalente al 1977, quando mio padre Andrea era ricorso a un prestito di 20 miliardi per comprare la quota della Fiat nel Corriere. Il 29 aprile la Centrale Finanziaria, società di proprietà del gruppo Ambrosiano, acquistò il 40% delle mie azioni in cambio di 115 miliardi di lire e s’impegnò a versare altri 61 miliardi alla Rizzoli Editore, quale quota di aumento di capitale per il suo 40% appena rilevato da me. Al termine dell’operazione l’azienda doveva essere ricapitalizzata per 150 miliardi di lire, 500 milioni di euro d’oggi. Ma questa enorme somma non fu mai depositata alla Rizzoli bensì dirottata su conti bancari di Calvi, Gelli, Ortolani e Tassan Din in Irlanda e Sudamerica. Tutto puntualmente ricostruito nelle sentenze emesse in Italia, ma anche in Svizzera e in Irlanda. Né io né la Rizzoli vedemmo una lira. In compenso la casa editrice passò al Nuovo Banco Ambrosiano, poi Ambroveneto, oggi Intesa Sanpaolo”.
Nel 1984 l’Rcs, risanata, viene acquisita da una cordata di cui fanno parte la finanziaria della famiglia Agnelli Gemina (che conta, tra i propri soci, anche Montedison e Mittel) e Mediobanca.
Per quell’acquisizione, che definisce “un esproprio”, Angelo Rizzoli chiede, nel febbraio del 2010, un indennizzo di 650 milioni di euro a Giovanni Bazoli, Piergaetano Marchetti, Giuliano Zuccoli e Giovanni Arvedi, responsabili a suo avviso di averlo strangolato finanziariamente per portargli via l’azienda.
“Hanno rovinato la mia vita”, ha raccontato Rizzoli a Libero. “Ho passato 26 anni infernali. Mi hanno depredato dei miei beni. Hanno distrutto la mia reputazione. Mi hanno mandato in galera per tre volte in cinque carceri diversi. Mi hanno dipinto come un incapace che ha dilapidato il patrimonio e il buon nome della famiglia e del Gruppo Rizzoli”.
“Potete immaginare tutto il mio turbamento nel leggere l’atto di citazione in cui oggi, a trent’anni di distanza, si chiede di dichiarare la nullità di tutti quei passaggi che portarono ai nuovi assetti del Corriere della Sera”, ha risposto a distanza il presidente del gruppo Rcs, Piergaetano Marchetti alla notizia dell’intenzione di Rizzoli.
Angelo Rizzoli aveva atteso, prima di passare all’azione, di avere chiuso tutte le proprie vicende giudiziarie penali con la sentenza definitiva della Cassazione del 2009 e in seguito all’intervenuta prescrizione per il reato di falso in bilancio e per la riforma delle procedure concorsuali, ovvero delle norme fallimentari del 2006.
Rizzoli non si considera responsabile del fallimento della società, e sostiene che i soldi che la dovevano ricapitalizzare siano stati deviati nelle tasche di Licio Gelli, Umberto Ortolani (tramite fra la P2 e i Rizzoli) e Tassan Din. La Rizzoli finì in amministrazione controllata e Angelo Rizzoli, all’epoca trentenne, fu costretto a vendere le proprie azioni per nove miliardi di lire. Secondo Rizzoli un tozzo di pane.
Nel frattempo Rizzoli jr si è fatto una “seconda vita” come produttore, mentre la seconda moglie Melania è deputato del Popolo della Libertà. I due sono tanto intimamente legati a Silvio Berlusconi da essere intervenuti pubblicamente nelle vicende tra il presidente del Consiglio e dell’ormai ex moglie Veronica Lario.
In relazione alla lettera all’Ansa scritta dalla signora Lario, che scatenò lo scandalo delle giovani deputate del Pdl scelte per “doti non strettamente politiche”, Rizzoli rispose: “Veronica vive in un castello dorato, si sposta con aerei privati, non frequenta nessuno tranne quattro amiche milanesi che vanno bene giusto per lo shopping ma se chiedi chi è Obama non lo sanno. Veronica è condizionabile; e probabilmente è stata condizionata. Dicendo che il marito non sta bene ed è inaffidabile, non si è accorta di far male ai suoi figli, di destabilizzarli”.
In questa critica Rizzoli si lasciò anche scappare un particolare ignoto a chi non fosse intimo della famiglia Berlusconi: la crisi mistico-religiosa del figlio minore di Veronica e Silvio, Luigi.
Questo spiega perché Berlusconi abbia appoggiato l’iniziativa di Angelo Rizzoli: “Dopo tanti anni, dopo che suo fratello è stato lui pure arrestato e sua sorella si è suicidata perché non ha retto a tanti dolori, Angelo è stato prosciolto ed è ancora oggi incensurato. Non possiamo più sopportare e non sopporteremo la situazione. Con i mezzi della democrazia, approveremo la riforma costituzionale per la giustizia in Italia”.
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