COME
RISOLVERE LA CRISI ITALIANA
UNA
PALUDE
da
bonificare
di Filippo Giannini
Per
uscire dalla crisi che ci attanaglia dobbiamo ripartire dall’aprile
1945. Lo storico Rutilio Sermonti, ne L’Italia nel XX Secolo,
scrive: «La risposta poteva essere una sola. Perché le
democrazie volevano un generale conflitto europeo, quale unica
risorsa per liberarsi della Germania - formidabile concorrente
economico - e soprattutto dell’Italia. Questo è necessario
comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto
dell’Italia». Perché Sermonti attesta questo? Ce lo spiega il
grande scrittore irlandese Bernhard Shaw, che nel 1937 così si
esprimeva: «Le cose da Mussolini già fatte lo condurranno, prima
o poi, ad un serio conflitto con il capitalismo». Bernhard Shaw
non dovette attendere molto per la conferma di quanto attestato.
Infatti, i Paesi capitalisti dovevano far presto: le idee di
Mussolini si stavano espandendo e minacciavano il potere mondiale dei
Rockefeller, dei Rothschild e degli altri 250-300 in parte oscuri
personaggi in grado di fissare e imporre le linee guida in politica
e, quindi, nell’economia di tutti i Paesi del mondo: la politica
guidi l’economia, non viceversa.
Zeev
Sternhell, ebreo, professore di Scienze Politiche presso l’Università
di Gerusalemme, col saggio La terza via fascista (Mulino,
1990), afferma: «Il Fascismo fu una dottrina politica, un
fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni
originali ad alcune grandi questioni, che dominarono i primi
anni del secolo». Sono proprio le soluzioni sociali ad
attrarre maggiormente il giudizio del professore di Scienze
Politiche: «Il corporativismo riuscì a dare la sensazione a
larghi strati della popolazione che la vita fosse cambiata, che si
fossero dischiuse delle possibilità completamente
nuove di mobilità verso l’alto e di partecipazione». In
queste ultime osservazioni possiamo intravedere le cause che
portarono, da lì a pochi anni, alla «svolta» drammatica.
La
cosa appare più chiara leggendo un’altra considerazione sempre di
Sternhell: «Il potere dello Stato incide sulla mobilitazione
dell’economia nazionale, sulle possibilità di programmazione
economica su larga scala e favorisce l’unità morale e l’unanimità
spirituale delle masse». La lotta politica a livello
mondiale si sposta sul binomio: civiltà del lavoro e civiltà del
denaro. E fu la Seconda guerra mondiale.
La
risposta italiana alla grande crisi economica mondiale del 1929
fu che, nel giro di poco tempo, l’Italia di quegli anni realizzò
una tale mole di lavori pubblici, come non avvenne in nessun altro
Paese; e senza ruberie.
Giorgio
De Angelis scrive: «L’onda d’urto provocata dal risanamento
monetario non colse affatto di sorpresa la compagine governativa e
provvedimenti di varia natura attenuarono, ove possibile, i
conseguenti effetti negativi soprattutto nel mondo della produzione
(...). L’opera di risanamento monetario, accompagnata da un primo
riordino del sistema bancario, permise comunque al nostro Paese di
affrontare in condizione di sanità generale la grande depressione
mondiale sul finire del 1929 (...)».
Il
professor Gaetano Trupiano, ha affermato: «Nel 1929, al momento
della crisi mondiale, l’Italia presentava una situazione della
finanza pubblica in gran parte risanata; erano stati sistemati i
debiti di guerra, si era proceduto al consolidamento del debito
fluttuante con una riduzione degli oneri per interessi e le
assicurazioni sociali avevano registrato un sensibile sviluppo».
I
ministri finanziari del Governo Mussolini e, ultimo in ordine di
tempo fra questi, Antonio Mosconi, riuscirono a far sì, che negli
anni fra il ‘25 e il ‘30, i conti nazionali registrassero attivi
da primato. Vennero intraprese iniziative che ancor oggi non mancano
di stupire per la quantità e la qualità dei meccanismi messi in
opera e per il successo da esse ottenute. Oggi, sembra una menzogna;
ma fu realtà.
Lo
Stato affrontò la crisi congiunturale spaziando «dalla politica
monetaria alla politica creditizia, dalla politica finanziaria alla
politica valutaria, dalla politica agricola alla politica
industriale, dalla politica dei prezzi alla politica dei redditi,
dalla politica fiscale alla politica del commercio
estero, dalla politica previdenziale alla politica assistenziale»
(Sabino Cassese). In conseguenza di ciò, lo Stato italiano divenne
titolare di una parte delle attività industriali.
Seguendo
questa impostazione, la cura fu quella più appropriata per il
superamento della crisi, anche se comportò sacrifici: per sostenere
le industrie a fine 1930 si rese necessaria una riduzione dei salari
dell’8 per cento circa per gli operai; per gli impiegati la
riduzione variò, a seconda dell’entità delle retribuzioni, dall’8
al 10 per cento. Il sacrificio venne, però, quasi subito compensato
dalla contrazione dei prezzi delle merci, per cui il valore reale
d’acquisto ammortizzò in breve tempo l’entità del taglio.
Sacrifici affrontati dal popolo con disciplina e partecipazione.
Nel
periodo di maggior ristagno l’attività del Governo si svolse con
due diversi interventi. Uno, immediato, indirizzato ad assistere le
famiglie più colpite dalla grande crisi: taglio degli
stipendi e dei salari; riduzione delle ore lavorative per evitare, il
più possibile, il licenziamento; l’introduzione della settimana
lavorativa a 40 ore (operazione che comportò il riassorbimento di
220 mila lavoratori); la diminuzione dei fitti; una forte riduzione
delle spese nei bilanci militari; opere di assistenza diretta, come
distribuzione di buoni viveri e centri di distribuzione di pasti.
Il
secondo, tendente ad incrementare gli investimenti statali nelle
grandi opere. Ci riferiamo alle Fiere e attività similari.
Non ultima, quella di Napoli, la Mostra Triennale delle Terre
Italiane d’Oltremare: concepita per far sì che ogni tre anni
Napoli fosse al centro degli scambi economici e culturali fra
l’Africa e l’Europa, una iniziativa che oggi sarebbe ancor più
valida per fronteggiare il fenomeno della migrazione. Per rimanere a
Napoli, ricordiamo la realizzazione degli ospedali collinari (il
XXIII Marzo, poi intitolato a Cardarelli; il Principe
di Piemonte, ribattezzato Monaldi; la Stazione
Marittima; la Stazione di Margellina; il nuovo rione
Carità con i palazzi delle Poste, delle Finanze,
della Provincia e dei Mutilati; il Collegio Costanzo
Ciano per 3 mila ragazzi; la nuova sede del Banco di Napoli;
il palazzo dell’INA, e numerosi rioni di case popolari.
Mussolini
e i suoi collaboratori erano consapevoli dell’importanza che queste
istituzioni potevano esercitare nel settore commerciale: negli
scambi, nelle contrattazioni e nel rilevante stimolo che tutto ciò
poteva esercitare per la produzione e acquisto di beni, anche di
origine lontana o di lontana destinazione.
«Sotto
il dominio fascista, ci viene detto, l’Italia subì un rapido
sviluppo con l’elettrificazione dell’intero Paese, lo sviluppo e
il fiorire delle industrie dell’automobile e della seta, la
creazione di un moderno sistema bancario, la prosperità
dell’agricoltura, la bonifica di notevoli aree agricole (...), la
costruzione di una larga rete di autostrade ecc. (...). Il rapido
progresso dell’Italia dopo la Seconda guerra mondiale e il fatto
che oggi è già in marcia verso uno sviluppo intensivo capitalistico
sarebbe impensabile senza i processi sociali iniziati durante
il periodo fascista». Così Mihaly
Vajda scrive in The Rise of Fascism in
Italy and Germany.
Sembra
incredibile, ma l’ulteriore sferzata di dinamismo alla politica
mussoliniana venne impartita proprio per battere la grande crisi.
Così, mentre negli anni Trenta tutto il mondo era soggiogato dalla
crisi economica, in Italia iniziò un’attività, con interventi in
tutti settori della vita economica, sociale, urbanistica e
produttiva. I benefici si proietteranno nei decenni a venire.
Dalla
politica agraria, ispirata e pilotata da Arrigo Serpieri, nacquero le
leggi sulla bonifica e le trasformazioni agrarie. Queste opere furono
affidate all’Opera Nazionale Combattenti (ONC),
creata nel 1917 per il reinserimento dei reduci nella vita civile.
Grazie
ai reduci ed alle loro famiglie, l’Operazione Bonifica, iniziata
nel basso Veneto ed in Emilia, si allargò alle altre zone d’Italia
interessate: dalle Paludi Pontine a Maccarese, l’Isola Sacra,
Acilia, Ardea, la Sardegna, Metaponto, Campania, Puglie, Calabria,
Lucania, Sicilia, Dalmazia. La terra strappata alle paludi portò a
nuovi posti di lavoro: strade, acquedotti, reti elettriche, borghi
rurali ed ogni genere di infrastrutture. La bonifica di Serpieri
diventò strumento di progresso economico.
Questi
miracoli venivano seguiti e apprezzati anche all’estero,
tanto da muovere l’ammirazione e la curiosità di tecnici europei,
americani e sovietici. Le Corbusier, il maestro francese del
movimento moderno d’architettura, venne a Roma e in una conferenza
tenuta all’Accademia d’Italia, elogiò i pregi delle nuove città.
Non
dimentichiamo le grandi opere realizzate in Somalia, Eritrea e in
Libia. Si devono alla instancabile attività di Carlo Lattanzi la
bonifica e la messa a coltura, in Libia, di ampie aree a grano,
oliveti, vigneti, frutteti ecc. su oltre 2.600 ettari di terreni
aridi e sabbiosi.
Armando
Casillo (dal cui lavoro abbiamo attinto alcuni dati) riporta i
risultati delle bonifiche e delle leggi rurali: 5.886.796 ettari
bonificati, tra il 1923 e il 1938. E un confronto è necessario fra
il periodo pre-fascista, quando in 52 anni nell’intera Penisola
furono bonificati appena 1.390.361 ettari. Né va dimenticata la
sconfitta della malaria, causa di centinaia di morti ogni anno.
Un
altro dato significativo sulla qualità tecnica raggiunta nel settore
agricolo dal nostro Paese è la comparazione fra i 16,1 quintali di
frumento per ettaro prodotti nelle terre bonificate e la produzione
statunitense, considerata la migliore, ferma a 8,9 quintali/ettaro.
«L’attribuzione ai braccianti di poderi nelle zone di bonifica
è il fiore all’occhiello della politica rurale fascista. Come si
vede, traguardi che cambiarono il volto dell’Italia» (Armando
Casillo).
La
spinta impressa da Mussolini alle opere del Regime si
indirizza sempre a nuove mete. Si può ben dire che negli anni della
bonifica integrale «tutto il territorio italiano era un’enorme,
bruciante, palpitante, esaltante fucina di opere, azionata da
braccia, da idee, da inesauribile volontà di cambiare il volto a
un’Italia rurale che aveva dormito per secoli» (Armando
Casillo).
In
piena congiuntura economica mondiale la fantasia produttiva
italiana era riconosciuta ovunque. Il 22 dicembre 1932, il deputato
laburista inglese Lloyd George rimproverava il suo Governo di inerzia
e lo spronava a risolvere i problemi della disoccupazione, proponendo
di «fare come Mussolini nell’Agro Pontino».
Ancora
più incisivamente il giornale Noradni Novnij di Brno, il 15
dicembre 1933, scriveva: «Con successo infinitamente superiore a
quello annunciato per il suo piano da Stalin, in Russia si è fatta
un’opera di costruzione, ma in Italia si è compiuta un’opera di
redenzione, di occupazione. All’altra estremità dell’Europa si
costruiscono enormi aziende, città gigantesche, centinaia di
migliaia di operai sono spinti con folle velocità a creare
un’azienda colossale per il dumping [rifiuti, N.d.R.]
che dovrà portare la miseria a milioni di altri Paesi europei.
Mentre invece in Italia il piano Mussolini rende una popolazione
felice e nuove città sorgono in mezzo a terre redente, coperte
ovunque di biondi cereali».
I
consensi non riguardavano soltanto i metodi usati dal Governo
italiano per superare la crisi congiunturale, ma
partivano dagli anni precedenti.
Lo
svedese Goteborgs Handels il 22 marzo 1928 scriveva: «Non
si può davvero non restare altamente sorpresi di fronte al lavoro
colossale che il Governo fascista viene svolgendo con una incredibile
intensità di energia: amministrazione pubblica radicalmente
cambiata, ordinamento sociale posto sulla nuova base della
organizzazione sindacalista, trasformazione dei Codici, riforma
profonda della istituzione e un tipo di rappresentanza nazionale
affatto nuovo negli annali del mondo».
Il
londinese Morning Post del 29 ottobre 1928: «L’opera del
fascismo è poco meno che un miracolo». Il prestigioso
Daily Telegraph del 16 gennaio 1928: «II fascismo non è
soltanto uno sforzo verso un nuovo sistema politico, ma un nuovo
metodo di vita. Esso è perciò il più grande esperimento compiuto
dall’umanità dei nostri tempi».
Altri
dati rivelano che quanto si scriveva nel mondo era ben meritato. Nel
1922 i braccianti erano oltre 2 milioni: nei primi anni del ‘40 il
loro numero si ridusse a soli 700 mila unità, gli altri erano
divenuti proprietari, mezzadri o compartecipi di piccole o grandi
aziende. Nella sola Sicilia i proprietari terrieri passarono dai
54.760 del 1911 a 222.612 del 1926. Questo è un ulteriore dato che
può far meglio comprendere lo sforzo compiuto in quegli anni.
Possiamo
quindi dire che l’obiettivo politico fu, in gran parte, centrato.
Questo avveniva mentre nel mito marxista la collettivizzazione delle
terre risultava fallimentare e affogata nel sangue e nella
disperazione. Mussolini al contadino del kolchoz di Lenin o
Stalin contrapponeva il contadino italiano compartecipe della
produzione.
Nacquero
così, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, nuovi ceti di piccoli
proprietari, superando i motivi della lotta di classe e
creando lo «strumento di pace e di giustizia sociale».
Attratto
dal grande rumore sollevato dal miracolo italiano, il
Mahatma Gandhi, dopo essersi fermato nel corso di un viaggio a
Parigi e in Svizzera, volle passare per l’Italia. Sostò a Milano,
quindi a Roma, dove si fermerà l’11 e il 12 dicembre 1930. In
quest’ultimo giorno Gandhi fu ospite, a Villa Torlonia, del Duce,
appagando, così, il desiderio di incontrare il capo del Fascismo.
Intervistato poi dal Grande Oriente, organo della comunità
italiana al Cairo, (9 settembre 1931), rilasciò le seguenti
dichiarazioni: «Tra tutte le Nazioni che dopo la guerra, tendono
con sforzi vigorosi, ad affermarsi e a creare una realtà, l’Italia
occupa un posto privilegiato e distinto. Perciò Mussolini che è
l’animatore di questo risveglio, ha tutta la mia ammirazione».
Per concludere; dato che da decenni siamo colpiti da
coma cerebrale, porrò una semplice domanda: Dato che i
principi dell’economia non cambiano nel corso degli anni (ho
scritto i principi dell’economia), e dato che negli anni ’30 dell
precedente secolo l’allora crisi congiunturale fu superata con
grande successo, per vincere la crisi che ci attanaglia in questi
anni, perché non utilizzare gli stessi principi oggi? Qualora ci
fossero dei vincoli, sorti in questi anni, non si potrebbe trovare il
modo di sospendere, anche temporaneamente detti vincoli per
riesaminarli, eventualmente più avanti?
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