martedì 6 agosto 2013

Adriano Celentano: perché non cambierà mai ...

Adriano Celentano sul Fatto Quotidiano: “La precarietà generale”

Pubblicato il 6 agosto 2013 08.30 | Ultimo aggiornamento: 6 agosto 2013 08.30





ROMA – Torna a farsi sentire Adriano Celentano, questa volta lo fa con un articolo (“La precarietà generale“) dalle pagine del Fatto Quotidiano. “Quanti hanno ucciso o non si sono fermati a soccorrere chi è stato investito e dopo qualche anno viaggiano liberi? Ormai anche la punizione è diventata un optional – scrive Celentano – È come se gli italiani fossero investiti da un senso di precarietà generale non solo nel lavoro, ma anche nei rapporti fra padre e figlio, marito, moglie e amante, quasi come se non ci fidassimo l’uno dell’altro.”
Ecco uno stralcio dell’articolo:
Avete visto cosa è successo a Venezia? Uno spettacolo grandioso che non poteva che succedere nella città più bella del mondo, considerata per altro PATRIMONIO dell’Umanità. La Carnival Sunshine, così si chiama la nave, ha voluto fare l’inchino a Micky Arison, Presidente della Carnival Corporation che nel frattempo, mentre il mostro si avvicinava a soli 20 metri dalle fondamenta, non ha resistito alla tentazione di mandare un tweet con tanto di foto allegata raffigurante il passaggio della sua “creatura”. Non posso non pensare che i responsabili di questo lento e inesorabile ASSASSINIO perpetrato alla città di Venezia non siano prima di tutti Luca Zaia, Presidente della Regione veneta, e l’ex sindaco Paolo Costa, ora Presidente delle autorità portuali che, pur di non rinunciare a sfasciare del tutto Venezia, vorrebbe addirittura escavare il fondo di uno dei canali circostanti.
È questa la nuova Lega di Maroni? Ma ora mi viene spontaneo un consiglio ai due ministri di Infrastrutture e Ambiente: Cari Lupi e Orlando, se per caso non siete in grado di fermare questo SACRILEGIO UMANITARIO, ditelo a qualcuno che vi aiuti prima che il governo cada, perché quelli che verranno dopo di voi potrebbero essere peggio di voi. Fatelo presto, altrimenti il governo INCIAMPERÀ molto prima di quanto voi pensiate. Le plateali gesta condotte dalla Carnival Sunshine Corporation nella Laguna di Venezia non sono altro che le prove generali di un imminente DISASTRO che potrebbe abbattersi sulla città più bella del mondo. Dove persino le pietre, arricchite dall’ARTE dei grandi maestri nel corso dei secoli, non ne possono più. Sono stanche di essere continuamente minacciate.
Ora dalla pubblicità degli stilisti in Piazza San Marco; ora addirittura, come qualche anno fa, dai giganteschi cartelloni raffiguranti le automobili che oscurarono per mesi il Ponte dei Sospiri, nascondendolo alla vista di migliaia di turisti; ora, peggio ancora, dai folli architetti che propongono torri velenose alte 250 metri all’insegna del più basso e becero consumismo. Ma la minaccia più grande e insidiosa viene dai sindaci. Capaci di strangolare non soltanto i sospiri del leggendario ponte, ma di tutto ciò che dalla natura si respira. Quei sindaci che via via, senza vergogna, si sono succeduti non per governare Venezia, ma per affondarla. Sono le PIETRE, quindi, le più arrabbiate. Queste “creature” smussate da una bellezza ANTICA apparentemente sono ferme e silenziose, ma a guardarle più da vicino si percepisce un lamento che viene da lontano: l’ODIO che esse sprigionano contro questa classe politica. E non solo questa, ma tutte quelle che si sono succedute dalla fine della guerra in poi.
Qualcuno si domanderà come dovrebbe essere la NUOVA classe politica. Io lo so e sarebbe anche facile da spiegare, ma non sono in grado di competere contro l’OMERTÀ di coloro che per non perdere il posto, come ad esempio quello di “direttore di un giornale”, ti censurano spudoratamente. Mentre invece sarebbe ora di cominciare a perderlo, il posto. Altrimenti, come ho scritto in un SMS mandato all’interessato: “Fino a quando ci saranno persone come te a guidare posti di comando come può essere quello di un giornale, che per sua natura impone il NOBILE compito di informare e non di CENSURARE come fai tu, l’Italia non cambierà mai.”

Le banche rubano i tuoi soldi | Mister O | Bonsai TV

lunedì 5 agosto 2013

La rovina dell'Italia non è la spesa pubblica...

La grande menzogna di chi ci governa: la rovina dell'Italia non è la spesa pubblica ma l'interesse sul debito pagato alle banche

di Stefano Di Francesco
05/08/2013
 16:19:04
http://www.ioamolitalia.it/blogs/vivere-senza-l-euro/la-grande-menzogna-di-chi-ci-governa-la-rovina-dell-italia-non-e-la-spesa-pubblica-ma-l-interesse-sul-debito-pagato-alle-banche.html

Abbiamo un debito totale di quasi 4.000 miliardi di euro, distribuito equamente tra settore pubblico e settore privato. Come si è potuti arrivare ad una simile dimensione?  La tabella che segue ci permette di riflettere su alcune  situazioni.

Indubbiamente la cosa più sconcertante è verificare l’entità degli interessi pagati dallo Stato italiano sul proprio stock di debito: più di 3.000 miliardi di euro dal 1980 ad oggi!!!direi che i creditori sono stati ben pagati… forse troppo ben pagati!!
Altra considerazione è da fare sull’entità del saldo primario di bilancio,che nel corso di questi ultimi  anni, ha prodotto un valore positivo di 740 miliardi di euro che però, a causa della spesa per interessi sul debito, ha fatto si che i deficit reali divenissero sempre più considerevoli. Insomma nonostante una serie di politiche improntate ai tagli di spesa e risanamento dei conti pubblici, i risultati ottenuti sono  pari a ZERO!! Nulla!! Il debito non si riduce di una virgola!!!Anzi.
Se infatti consideriamo anche la dinamica del debito privato (famiglia, imprese, banche), oggi abbiamo un livello di debito complessivo di circa 4.000 miliardi, sul quale gravano interessi annuali di circa 160 miliardi di euro ( interessi sul debito pubblico => 2000 x 4% = 80 miliardi)+ (interessi sul debito privato =>2000 x4%=80 miliardi) = 160 miliardi di euro l’anno
Sono praticamente oggi  il 10% del PIL!!
Quanto alla spesa pubblica, erroneamente considerata la principale causa della crescita del debito, credo sia utile osservare il seguente grafico:

Si osserva che il rapporto Spesa Pubblica / PIL è salito vertiginosamente negli anni 70 per poi stabilizzarsi a partire dagli  anni 80 in un range di variazione compreso tra il 46 ed il 53% del PIL. Ma il debito pubblico invece è passato nello stesso arco temporale dal  56,1 al 130% del PIL!!!! Come si può dire dunque che è la spesa pubblica la principale responsabile del debito pubblico? Perché non dicono la verità, ovvero che sono gli interessi passivi sul debito che lo Stato paga ai creditori (principalmente banche, fondi hedge, istituzioni finanziarie,…) la ragione della nostra rovina finanziaria?
 Possiamo dunque affermare che le cause che han determinato la crescita del debito pubblico, sono sostanzialmente  tre:
-  l’abolizione degli accordi di Bretton Woods del 1971,  con cui il Dollaro si sganciò dalla convertibilità in oro e da quel momento ne furono stampati troppi; le valute iniziarono a fluttuare tra loro passando da un sistema a cambi fissi ad uno a cambi flessibili. Questo cambiamento del sistema monetario è quello che ha permesso questa  Globalizzazione basata sul mantenimento di colossali deficit esteri cronici. Ovviamente anche la Lira fu agganciata al Dollaro dal 1949 al 1971, come tutte le altre valute occidentali; i cambi erano fissi rispetto al dollaro che a sua volta era fisso rispetto all'Oro e in questo modo era impossibile avere disavanzi esteri sistematici (come hanno gli USA oggi) e nessuno poteva stampare dollari in eccesso, perchè le riserve di oro erano limitate .
Quando si realizzava un deficit estero,  l'oro usciva dal Paese ed si era  costretti a dare una stretta monetaria alzando i tassi d’interesse, creando una recessione, limitando i consumi, facendo così scendere i salari e i prezzi. In questo modo il valore delle monete rimaneva sempre "allineato" e nessuno era sopravvalutato o sottovalutato. Questo era un meccanismo "duro", automatico, che disciplinava sempre tutti e impediva l'inflazione.
Il seguente grafico mostra come il debito sia cresciuto esponenzialmente da tale data:

– l’abolizione della legge della preferenza comunitaria nel 1973, secondo la  quale, l'80% degli scambi commerciali ( prodotti agricoli e beni di consumo)dovevano avvenire dentro la Comunità Europea, ha segnato il punto di svolta per l’avvio di una progressiva deregolamentazione negli scambi internazionali. Anche per i lavoratori, oltre che per le imprese, fintanto che resse il protezionismo,   vissero in una sorta di paradiso, perchè non soffrivano la concorrenza di centinaia di milioni di turchi, polacchi, cinesi, indiani, egiziani, messicani, giapponesi, coreani, taiwanesi.
Dal 1973 in poi, le cose cambiarono notevolmente come testimoniano anche i numerosi lavori del più grande economista del secolo scorso,il premio Nobel Maurice Allais che ha scritto invano libri su libri e articoli su articoli  per mostrare che dal 1973 in poi  la disoccupazione in Europa è raddoppiata ; fino ad allora era stata sul 5% per 20 anni, ma una volta aperto il mercato europeo ad importazioni a basso costo l'occupazione e i salari europei ovviamente hanno sofferto.
Il seguente grafico mostra l’andamento dell’occupazione in Francia dai primi anni 50 fino agli anni 90 ed evidenzia gli effetti della globalizzazione sulla forza lavoro:
3 – il divorzio tra la Banca d’Italia ed il Governo del 1981, con il quale si impediva alla Banca Centrale di sottoscrivere i titoli del debito pubblico obbligando lo Stato ad indebitarsi verso il mercato a tassi d’interesse maggiori del tasso d’inflazione. Fin dal 1950 lo Stato si finanziava stampando moneta e tenendo dei controlli ai capitali per cui quando si emettevano titoli di stato questi  rendevano meno dell'inflazione  (repressione finanziaria come la definisce il FMI) e non li voleva quasi nessuno. Se la gente però non li comprava, la Banca d'Italia finanziava lei il governo; se si  esagerava si creava inflazione e pressione sul cambio, le riserve di oro diminuivano, si alzavano i tassi, si riduceva il credito disponibile,l'economia rallentava ecc..ed il sistema si stabilizzava di nuovo.
Quando nel 1971, il dollaro si sganciò dall'oro, la Banca d'Italia era ancora nella condizione di poter finanziare lei il governo, questo era libero di stampare moneta senza il vincolo esterno dell'oro. Cosa successe, il cambio andò a picco ? No, si svalutò contro dollaro, ma non molto.
Questo fino al 1981 quando si "tagliò" il legame tra Bankitalia e Governo vietando alla prima di finanziare il secondo e obbligando lo Stato ad andare ad indebitarsi sul mercato vendendo BTP e remunerando gli investitori con tassi ben superiori all’inflazione.. Questo rese il cambio della lira più stabile ? No,esattamente produsse l’effetto contrario come si vede dal grafico seguente.
In altre parole oggi abbiamo invertito tutti e tre gli elementi del sistema monetario che avevano fatto ricca l'Italia durante il miracolo economico. Attualmente ci troviamo dunque in una situazione in cui:
a – la Moneta elettronica e cartacea viene emessa dalle Banche Centrali e dal sistema bancario senza alcuna riserva di valore;( creata dal nulla)
b – tale emissione di Moneta è volta al finanziamento di crescenti deficit sia di bilancio che esteri, come nel caso degli USA favorendo la formazione di debiti colossali;
c – la Globalizzazione selvaggia ed indiscriminata ha travolto sia le imprese che i lavoratori dei paesi occidentali a vantaggio di quelli asiatici e sudamericani.
Una conclusiva osservazione va fatta a proposito del confronto tra il debito pubblico italiano e quello di paesi come l’Inghilterra; osservando il grafico si nota come i due valori tendano a divergere nel tempo, cioè mentre il debito pubblico italiano sale, quello inglese scende. Perchè?
Il motivo è piuttosto semplice: laddove non è lo Stato ad indebitarsi, a farlo debbono essere i privati come accade in UK e  negli Usa.
Infatti se andiamo ad analizzare il livello d’indebitamento delle famiglie ed imprese (debito privato) osserviamo che questo assume valori di assoluto rilievo in tutti quei paesi che non hanno invece un elevato debito pubblico, come si nota dal seguente grafico :
 Ma a che punto siamo oggi?
Il PIL è praticamente fermo al livello del 2007 , mentre il debito rispetto al 2007, è aumentato di  400 miliardi di euro!!
La spesa per interessi sul PIL è in crescita sia in termini percentuali che assoluti, il che significa maggiori tasse , minori servizi e riduzione della spesa pubblica.
Tutto questo nonostante lo Stato italiano abbia negli ultimi 20 anni realizzato avanzi primari di bilancio per una cifra di 740 miliardi di euro, che non ha eguali in Europa. Ma non è servito a nulla e non serviranno a nulla i sacrifici futuri, i decreti del “Fare”, i provvedimenti tardivi per pagare i debiti della pubblica amministrazione, la caccia all’evasore condotta sui media come se di tutto sto macello l’evasione e l’economia sommersa  fossero  i principali responsabili!!
Ora tornano alla carica per vendere, ops… svendere i gioielli di Stato a qualche Fondo Sovrano, qualche banca cinese,araba,americana impoverendoci ancor di più e privando il Paese di asset strategici. Sono una manica di somarelli che non capiscono il mondo in cui vivono e quel che è peggio è che le nostre esistenze dipendono dal loro operato. Siamo messi male. Molto male.
La chiave di tutto è capire come funziona  l’economia, cosa è la moneta, chi la emette,perché siamo giunti a questo livello di debito globale colossale,come si spiegano i 640.000 miliardi di operazioni in derivati rispetto al PIL mondiale di 70.000 miliardi (addirittura il PIL globale è inferiore alla cifra di  100.000 miliardi che ogni anno si pagano per gli interessi sul  debito mondiale).
La moneta è la chiave di tutto ed  uscire dall’euro non basta. Bisogna avere un piano, semplice,realizzabile e che porti immediati benefici all’economia reale. Quel piano ora c’è. Devono darci la forza per realizzarlo, ora, subito, prima che sia tardi.
L’Unione Europea, la tecnocrazia, il sistema bancario ( banche centrali e banche commerciali), la burocrazia, l’Euro  sono la nostra prigione. Dobbiamo uno ad uno, aprire dei varchi nelle menti delle persone, perché è possibile tornare a crescere,perché è possibile vivere degnamente, perché la speranza possa nuovamente trovar posto in questa nostra splendida, meravigliosa,inestimabile  Italia.  

GRAN SACCHEGGIO ITALIA

GRAN SACCHEGGIO ITALIA - IL 40% DELLE SPA QUOTATE IN BORSA SONO IN MANO AGLI STRANIERI

Nonostante la crisi, il valore delle nostre imprese è cresciuto di 26,2 mld € ma è aumentato l'azionariato estero: il 40% delle Spa quotate a Piazza Affari è nelle mani degli stranieri - Tra un po’ ci vengono a sfilare anche Eni, Enel, Finmeccanica e dopo anche le mutande…

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/gran-saccheggio-italia-il-40-delle-spa-quotate-in-borsa-sono-in-mano-agli-60739.htm

(Adnkronos) - Le grandi imprese italiane valgono di più, ma sono sempre più in mano agli stranieri. Negli ultimi dodici mesi, nonostante la crisi, il valore delle società per azioni del nostro Paese è cresciuto di 26,2 miliardi (+1,27%) di euro da 2.066,9 miliardi a 2.093,1 miliardi, ma è in aumento di 5,6 miliardi (+1,76%) la quota di possesso detenuta da soggetti esteri che complessivamente ora hanno 327,2 miliardi rispetto ai 321,5 miliardi di un anno fa.

ITALIA CRAC BUCOITALIA CRAC BUCO
Risultato negativo per le spa quotate in Borsa che hanno bruciato 14,2 miliardi (-3,86%) di capitalizzazione calando da 368,6 miliardi a 354,4 miliardi. Questi i dati principali di un rapporto del Centro studi Unimpresa che ha analizzato l'andamento del valore delle spa della Penisola dal primo trimestre 2012 al primo trimestre 2013.
Secondo la ricerca, basata su dati della Banca d'Italia, le società per azioni italiane ora valgono in totale 2.093,1 miliardi in aumento di 26,2 miliardi rispetto ai 2.066,9 miliardi dei dodici mesi precedenti. Un bacino in cui rientrano anche le imprese quotate sui listini di piazza Affari che hanno registrato un andamento negativo anche se nel 2012 i mercati finanziari hanno invertito la rotta rispetto al periodo più nero della crisi internazionale. A marzo 2013 le spa quotate capitalizzavano 354,4 miliardi di euro, 14,2 miliardi in meno rispetto ai 368,6 miliardi di marzo 2012.
Italia CracITALIA CRAC
Gli stranieri hanno il 40% delle spa quotate a piazza Affari. Nel periodo sotto osservazione, le quote di spa in mano a soggetti esteri è aumentato di 5,6 miliardi da 321,5 miliardi a 327,2 miliardi. Un aumento del peso proporzionalmente più forte nel recinto delle quotate: le azioni detenute dagli stranieri sono passate da 136,6 miliardi a 139,5 miliardi con una crescita di 2,8 miliardi (+2,10%).
In termini percentuali, gli stranieri ora posseggono il 39,36% delle azioni di imprese quotate, rispetto al 37,06% di marzo 2012. Guardando all'intero bacino delle società per azioni tale percentuale è assai più bassa: a marzo 2012 era il 15,55% e dodici mesi più tardi era sostanzialmente stabile al 15,63%.
BANCA D'ITALIABANCA D'ITALIA
"La ricerca - commenta il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi - consente due riflessioni: anzitutto che la crisi italiana è nelle piccole e medie imprese e che proprio su questa categoria vanno concentrati gli sforzi da parte di Governo e Parlamento. Quanto alle quote di possesso, la crescita degli stranieri mostra un forte interesse per il made in Italy, che ha sempre una grande forza, ma allo stesso tempo deve essere fonte di preoccupazione forte per il sistema Passe: si lanciano segnali d'allarme rosso quando i player internazionali vogliono acquistare grandi nomi, quelli conosciuti. Mentre sotto traccia, e nel silenzio più assordante, stiamo perdendo tutto".

La matematica sputtana l'economia neoclassica

Navigando nella follia dei mercati finanziari

Francesco Sylos Labini

Fabio Scacciavillani, proseguendo una discussione iniziata in seguito a dei miei interventi sulla capacità di produrre previsioni in economia e sull’incapacità di aver previsto la più drammatica crisi economica dell’ultimo secolo, argomenta che uno (o il) motivo per cui i mercati finanziari sono diventati ingestibili è dovuto al fatto che molti più fisici che economisti lavorano a Wall Street. Posso testimoniare che alcuni miei ex studenti ed ex colleghi sono effettivamente andati a lavorare presso istituzioni finanziarie. Tipicamente gli è richiesta una conoscenza avanzata di tecniche matematiche, come saper risolvere sistemi d’equazioni differenziali stocastiche. Ho domandato una volta a un mio ex collegacosmologo, che ha studiato per una ventina d’anni leequazioni di campo di Einstein, di cosa si occupasse. La risposta è stata sorprendente: “più o meno della stessa cosa di prima”. E’ dunque possibile che molti ex fisici(ma anche ex matematici ed ex informatici) che lavorano nel mondo finanziario siano esperti di tecniche raffinate senza avere alcuna conoscenza o percezione del contesto in cui stanno operando. Come ha notato Jean-Philippe Bouchaud, che oltre ad essere un noto fisico teorico francese è anche presidente di uno dei più grandihedge fund d’oltralpe, “Anche se un certo numero di fisici è stato assunto dalle istituzioni finanziarie nel corso degli ultimi decenni, questi fisici sembrano avere dimenticatola metodologia delle scienze naturali per assorbire e rigurgitare le abitudini economiche in vigore, senza il tempo o la libertà di metterne in discussione le loro fondamenta”.
E’ indubbio che anche coloro che usano tecniche sofisticate farebbero bene a considerare il significato del proprio lavoro proprio per non essere tacciati un giorno di essere dei buoi che “tirano l’aratro placidamente e dissodano la dabbenaggine dove qualcun’altro seminerà per raccogliere messi copiose.”
Tuttavia, ogni studente di fisica del primo anno impara che il limite fondamentale d’ogni modello fisico è proprio nelle assunzioni su cui questo è basato. Il filosofo della scienza Thomas Kuhn ha definito paradigmaquell’insieme d’assunzioni teoriche sotto le quali procede la “scienza normale”. Il paradigma per eccellenza è stato, per più di mille anni, quello secondo il quale il Sole e i pianeti seguono delle orbite circolari intorno alla Terra. Questo paradigma ha retto al confronto con i dati osservativi non solo perché riusciva a ben spiegare le osservazioni dall’esperienza immediata, ma anche e soprattutto perché gli astronomi – di fronte a dati contradditori – non lo mettevano in dubbio, preferendo aggiungere nuove e sempre più complicate assunzioni, come i famosi epicicli, che svolgevano la funzione d’ipotesi ad hoc.  Quando Copernico presentò i suoi calcoli capaci di meglio spiegare  le osservazioni perché  basati su un nuovo paradigma, il Sole al centro e la Terra ed i pianeti che gli orbitano intorno, il modello Tolemaico era un complesso marchingegno composto da 16 livelli di epicicli. In breve, secondo Kuhn, la rivoluzione copernicana è stata un epocale cambio di paradigma.
I fisici hanno dunque imparato a considerare criticamente ogni teoria entro dei limiti ben precisi che sono dettati dalle assunzioni usate e dagli esperimenti disponibili: hanno perciò da tempo appreso a non scambiare ciò che avviene nel modello con ciò che invece accade nellarealtà. Come ho avuto modo di ricordare in fisica i modelli si confrontano con le osservazioni per provare se sono in grado di fornire spiegazioni precise, come ad esempio la processione del perielio di Mercurio che con la Teoria della Relatività Generale può essere calcolata di circa 0,019 gradi per secolo in accordo entro 0,0005 gradi per secolo con le misure sperimentali, oppure di fornireprevisioni di successo, come ad esempio le onde elettromagnetiche postulate da Maxwell nel 1873 e generate da Hertz nel 1887. Similmente, si può asserire che l’uso della matematica nell’economia (neoclassica) serva ad un tale scopo? Oppure questo uso si riduce ad un puro esercizio retorico in cui si fa sfoggio di usare uno strumento (relativamente) sofisticato per calcolareprecisamente cose irrilevanti come capita in astrologia? Ad esempio, secondo il filosofo della scienza Donald Gillies, “l’uso della matematica in economia neoclassica non ha prodotto alcun spiegazione precisa o previsione di successo”.
Per dipanare la questione si deve rispondere a questa domanda: gli assiomi fondamentali usati in economia sono sottoposti a test empirici? Ad esempio: i mercati liberi sono efficienti o sono selvaggi? La risposta a questa domanda viene dalle osservazioni o è un’assunzione indiscutibile? Questo è un punto cruciale in quanto chi pensa che i mercati liberi siano efficienti e si auto-regolino verso una situazione di equilibrio stabile sarà portato a proporre un ruolo dei mercati sempre più importante e ad “affamare la bestia”, lo Stato corrotto e clientelare. Chi pensa che i mercati liberi siano invece dominati da fluttuazioni selvagge e intrinsecamente lontani da un equilibrio stabilegenerando invece pericolosi squilibri e disuguaglianze, sarà indotto a proporre un maggiore intervento dello Stato, cercando di migliorare l’efficienza di quest’ultimo.
La posizione espressa da Robert Lucas, premio “Nobel” e professore a Chicago, è chiaramente del primo tipo: “La mia tesi in questa conferenza è che la macroeconomia, nel suo senso originario, ha avuto successo: il suo problema centrale della prevenzione di depressioni è stato risolto, per tutti gli scopi pratici, ed è infatti stato risolto per molti decenni”. Chi sostiene questa tesi è ovviamente portato a considerare ogni fluttuazione nei mercati finanziari come una perturbazione ininfluente rispetto alla situazione di equilibrio: una crisi devastante non si può prevedere perché non è contemplata nel fantastico mondo dei mercati efficienti. Argomentava, infatti, nel 2007 lo stesso Lucas che una crisi economica non sarebbe potuta accadere poiché: “Se abbiamo imparato qualcosa dai passati 20 anni è che c’èparecchia stabilità incorporata nell’economia reale”.
Quando un paradigma diventa così forte da sostituire qualsiasi osservazione empirica si tramuta in un dogma e lo studioso finisce per vivere nel modello, senza più accorgersi di quello che accade nel mondo reale. Come ben sperimentiamo oggi, non c’è, infatti, nessuna stabilità nell’economia reale. Questa situazione è dovuta principalmente al ruolo dominante dellafinanziariazzazione dell’economia. Basti pensare che il volume dei prodotti finanziari derivati è dell’ordine di 10 volte il PIL mondiale, e che, come rileva anche Scacciavillani, nessuno è più in grado di capire o controllare quello che sta avvenendo. Purtroppo, è stato proprio nel nome del dogma della stabilità e razionalità dell’economia che si è pianificata, osannata e pompata scientemente la finanziarizzazione dell’economia come volano per la crescita, senza rendersi conto dei rischi incontrollabili che si stavano immettendo nel sistema.
Aveva dunque tutte le regioni, la Regina Elisabettaquando, durante la visita alla London School of Economics nel novembre del 2008, chiese perché non era stato previsto dagli economisti che la crisi economica stesse per avvenire. Due noti economisti inglesi hanno poi redatto una lettera alla Regina riassumendo le posizioni emerse nel corso di un forum promosso dallaBritish Academy per rispondere alla “Queen’s question”. Scrivono: “Quindi, in sintesi, Vostra Maestà, l’incapacità di prevedere i tempi, la grandezza e la gravità della crisi e di prevenirla, pur avendo molte cause, è stato principalmente un fallimento dell’immaginazione collettiva di molte persone brillanti, sia in questo paese e internazionale, per comprendere i rischi per il sistema nel suo complesso”. Più esplicitamente un altro gruppo di economisti britannici sottolinea “che negli ultimi anni l’economia si è trasformata quasi in un ramo dellamatematica applicata, ed è diventata distaccata dalle istituzioni del mondo reale e dagli eventi”.
Dunque, non è chi sta in sala macchine che ha perso la bussola (che forse non ha mai avuto), ma sono proprio gliufficiali in plancia di comando che stanno navigando nella follia più assoluta guidati – come dei Simplicioreincarnati – da dogmi screditati dall’osservazione empirica. Non per niente proprio l’Economist  ha pubblicato, in copertina (giugno 2009), l’immagine di un libro, dal titolo “Modern Economic Theory”, inliquefazione: aveva le sue ragioni Sua Maestà a preoccuparsi! Ed ha oggi ottime ragioni chi denuncia che la crisi economica è presentata quasi esclusivamente come una crisi del debito pubblico e non crisi delle banche, che hanno accumulato quintali di prodotti finanziari tossici, proprio dai soliti cultori del dio mercato e seguaci delle le dottrine neoliberali che, facendo passare per soluzioni tecniche scelte ideologiche, “hanno goduto di un monopolio dei cervelli che non ha precedenti nella storia”.

Grecia: Atene batte moneta

Grecia: Atene batte la moneta complementare Ela

banca grecia 110622120642 medium Grecia: Atene batte la moneta complementare Ela

Ormai non solo economisti senza cariche istituzionali, nè interessi di vario tipo, hanno capito che l’attuale sistema economico basato sulla “superfinanziarizzazione”, sulla “superspeculazione” e sul “superindebitamento” non funziona, non funzionerà ed è destinato al fallimento, senza riserve.
La Banca centrale greca non può che arrendersi all’unica soluzione sostenibile per uscire dalla crisisenza causare stragi e dissanguamenti: una moneta complementare all’Euro. Si chiamerà ELA (Emergency Liquidity Assistance), praticamente un fondo di liquidità di emergenza, concesso dalla BCE ad Atene nella speranza di salvare e rilanciare l’economia del Paese Ellenico. Ma la Grecia non è stata la prima a ricevere un simile trattamento; è avvenuta la stessa cosa in Irlanda, dove la BCE ha permesso la stampa di moneta liquida per dare respiro alle misere casse irlandesi.
Cosa sta accadendo? Semplice: i portafogli di lavoratori e imprenditori sono vuoti! I primi non possono comprare beni e servizi offerti dai secondi; i secondi non possono dare lavoro ai primi. Questo circolo vizioso continua e peggiora poichè la moneta, che dovrebbe servire a creare lavoro e circolazione di beni e servizi diminuisce a causa del pagamento di interessi sul debito sempre maggiori, che si trasformano in maggiori tasse, peggiori servizi, minori agevolazioni dallo stato.Cosa fare?
Ancora più semplice: dato che i responsabili di questa situazione non rientrano nella popolazione di lavoratori e imprenditori è sufficiente promuovere l’utilizzo della monete complementari e/o locali. In questo modo le famiglie avrebbero la liquidità in più necessaria ad arrivare a fine mese con il frigorifero pieno e gli imprenditori avrebbero la liquidità in più necessaria ad assumere nuovi lavoratori e investire nello sviluppo della propria impresa.
Come fare?
Informare, promuovere e divulgare i temi della moneta complementare e dei suoi effetti benefici all’economia collettiva.

sabato 3 agosto 2013

Uscita dall'euro e ripudio del debito.

Sganciamento

A proposito di alcune discussioni sul debito e l'euro

di Leonardo Mazzei

Ripudiare il debito ed uscire dall'euro: per noi due facce della stessa medaglia, i primi due punti del programma per la riconquista della sovranità nazionale e popolare; per altri, invece, due strade alternative fra loro. Ecco un nodo degno di essere affrontato. Prima di entrare nel merito è bene però fare alcune osservazioni. La prima, è che le forze che hanno maturato la consapevolezza dell'assoluta centralità di queste due questioni (debito e moneta unica) sono ancora troppo deboli. La seconda, è che saranno invece i fatti a mettere questi due temi al centro della scena. La terza è che, come conseguenza di tutto ciò, quando verrà il momento il grosso delle realtà potenzialmente anticapitaliste ed alternative si troverà del tutto impreparato.

Un'impreparazione che, sommata alla profonda spoliticizzazione di massa figlia di un trentennio letargico, non potrà che favorire la gestione oligarchica di questi decisivi passaggi.

Sia chiaro, il blocco dominante non intende rinunciare all'euro. E, data la sua compenetrazione e subalternità al sistema di dominio della finanza euro-atlantica, esso non ha alcuna intenzione di intervenire, ristrutturandolo, sul debito. Il dogma di queste sanguisughe è che il debito va pagato. E, considerato anche che loro sono dalla parte dei creditori, va pagato in euro.

Questa è, ancora oggi, la linea prevalente. Quella che ha imposto il Napolitano bis al Quirinale e Letta il giovane a Palazzo Chigi. E' la linea che prevede nuovi e devastanti sacrifici per la stragrande maggioranza della popolazione italiana. Ma è anche una linea che fa acqua da tutte le parti e che, dunque, ad un certo punto potrebbe essere parzialmente abbandonata almeno da un settore della classe dominante.

Come avverrà questo cambio non possiamo ancora saperlo. Quel che è certo è che le forze sistemiche faranno di tutto per poterlo gestire, con il minimo di contraccolpi sociali e politici e con il massimo dei vantaggi per se stesse.

Che una cancellazione parziale del debito sia possibile all'interno di precisi vincoli sistemici ce lo ha dimostrato il caso greco. Lì, sotto l'egida della Troika, una significativa ristrutturazione è già avvenuta, ed un'altra sembra ormai all'orizzonte. Ma tutto ciò è stato possibile solo in cambio di nuove misure draconiane e della riduzione del Paese ad uno stato di dipendenza assoluta dalle direttive del trio Ue-Bce-Fmi.

Perché ciò sia avvenuto è abbastanza chiaro: il debito era comunque inesigibile, ma mentre un default incontrollato avrebbe messo in discussione l'euro, una «sforbiciata» controllata ha consentito di salvare, per ora, la moneta unica. Che tutto questo sia servito a ben poco, dal punto di vista dei fondamentali dell'economia greca, è un altro discorso. Quel che qui giova rilevare è invece lo stretto legame tra le questioni del debito e dell'euro.

Nel caso greco si è intervenuti sul debito per mantenere in vita l'euro. Una scelta che potrebbe ripetersi anche in altri paesi. Ma niente esclude, almeno in linea di principio, che in altri casi le stesse forze sistemiche possano optare per una temporanea uscita dall'euro, magari all'interno di un sistema di cambi flessibili, onde garantirsi il pagamento del debito e (almeno questo è il loro obiettivo) il futuro rientro nella gabbia della moneta unica.

Quel che vogliamo dire, in sostanza, è che il blocco dominante è certamente ostinato nella difesa della moneta unica e dei vincoli che ne discendono, ma ben presto gli interessi sistemici potrebbero imporre delle «soluzioni» meno rigide e meno ortodosse. L'attuale ostinazione infatti non determina soltanto una macelleria sociale senza sosta, produce anche una recessione (o quantomeno una stagnazione) senza sbocchi.

Ma un capitalismo senza crescita è come un ciclista che non è più in grado di pedalare: alla fine cade. Per salvarsi le forze sistemiche potranno dunque rinunciare - almeno temporaneamente, almeno parzialmente - ai loro dogmi attuali. Il compito delle forze anti-sistemiche - sia che si verifichi l'ipotesi di cui sopra, sia che prevalga la linea dell'ostinata difesa dello status quo -  dovrà essere invece quello della costruzione di un blocco e di un fronte politico-sociale capace di travolgere integralmente quei dogmi e quelle forze, per avviare un processo di sganciamento dal sistema che abbiamo definitocapitalismo-casinò.

Uno sganciamento che implica sia il ripudio del debito, che l'uscita dalla moneta unica. Avendo chiaro che l'obiettivo di fondo è proprio lo sganciamento, mentre le scelte su debito e moneta sono «solo» due strumenti per perseguire questo obiettivo. Al tempo stesso, repetita iuvant, nel cuore di una crisi epocale come quella che viviamo, nello specifico delle odierne condizioni dell'Italia e dell'Europa, non esiste alcuna ipotesi di sganciamento che non affronti con decisione entrambi i nodi del debito e dell'euro. 

E qui torniamo al punto da cui siamo partiti. Mentre infatti buona parte della sinistra pare ancora in tutt'altre faccende affaccendata, anche tra chi ha compreso la centralità di queste questioni regna una certa confusione. Abbiamo chi pone da tempo la necessità di ripudiare il debito, ma guardandosi bene da affrontare il nodo dell'euro (chiameremo questa posizione linea 1). Abbiamo, viceversa, chi mette al centro l'uscita dall'euro, pensando che sia sufficiente da sola a far rientrare in limiti fisiologici (e dunque gestibili) il problema del debito (la chiameremo linea 2).

Cosa hanno in comune, e in cosa differiscono, queste due posizioni?

Certo, al loro interno possono esservi - ed in effetti vi sono - tante sfaccettature, ma volendo andare al sodo la differenza sta nel fatto che la linea 1 piace di più negli ambienti della sinistra che ha il terrore del concetto stesso di sovranità, mentre la linea 2 può catturare consensi anche in un'area liberista ma non eurista. Mentre i primi provano una sorta di sacro terrore nel mettere seriamente in discussione il processo di globalizzazione, i secondi intendono sì collocarvisi, ma in posizione meno subalterna. Se i primi si proclamano anti-liberisti, rifiutandosi però di rompere davvero con gli strumenti decisivi della politica liberista; i secondi quegli strumenti li vorrebbero mettere in discussione, ma solo per riaffermare a modo loro il liberismo e tutto quel che ne consegue.

Fin qui le differenze. Ma quali sono, invece, le comunanze?

Anche in questo caso, andando all'essenziale, la comunanza è una. Ed essa consiste nel fatto che nessuna delle due linee punta davvero ad uno sganciamento dal capitalismo-casinò, cioè dalla forma concreta assunta dal sistema capitalistico nella nostra epoca. Che sia così per chi persegue un'uscita dall'euro solo per ridare competitività alle imprese attraverso la svalutazione è scontato. Ma è così anche per chi, su posizioni anti-capitaliste, vorrebbe affrontare la questione del debito solo per riconquistare qualche margine alwelfare, senza andare alla radice del problema, e cioè al fatto che l'euro non è solo una moneta ma anche un preciso sistema di dominio di classe. Ed è così anche per chi sostiene che non si possono fare le due cose insieme perché altrimenti «i mercati si arrabbiano».

Certo che si «arrabbierebbero». Che pensiamo, di imporre una svolta radicale alla politica del paese, senza che l'attuale classe dominante e le oligarchie internazionali reagiscano? Ovvio che nessuno può pensarlo. Ma credere di poter uscire dalla catastrofe in corso senza un programma di misure urgenti, incentrato sull'uscita dall'euro e l'abbattimento del debito, sarebbe altrettanto irresponsabile. Dunque non c'è altro da fare che prepararsi a sostenere uno scontro senza esclusione di colpi.

Qui, a costo di ripetersi, si impone una precisazione. Il ragionamento che stiamo svolgendo riguarda un percorso di sganciamento dal capitalismo-casinò, frutto di una sollevazione popolare. Naturalmente tutto ciò richiede almeno tre cose: un vero risveglio del popolo lavoratore, un fronte in grado di guidare la sollevazione, un programma d'emergenza forte e condiviso tra le masse. Tre condizioni oggi assenti, tre condizioni da costruire se non si vuol continuare a subire passivamente il massacro sociale in atto.

Abbiamo già detto che lo stesso blocco dominante potrebbe, ad un certo punto, essere costretto ad intervenire sul debito o sulla moneta, ma non è di questo che qui parliamo. Casomai, il fatto che questa eventualità non sia da scartare è un'altra conferma di quanto questi temi siano quelli oggi decisivi e centrali. Ma mentre il blocco dominante opererebbe quelle scelte solo per necessità, con la precisa volontà di restare dentro la cornice del capitalismo-casinò, il nostro obiettivo dovrà essere proprio quello di sganciarsi da questo sistema.

Che questa nostra impostazione sia del tutto alternativa a quella delle forze sistemiche è naturalmente un'ovvietà. Un'ovvietà che merita però di essere segnalata, dato che anche i settori dichiaratamente anti-sistemici che non colgono la centralità ed il nesso indissolubile tra debito e moneta finiscono - più o meno consapevolmente - per escludere un vero progetto di sganciamento.

Giunti a questo punto è doveroso precisare cosa intendiamo per sganciamento.

Abbiamo già visto che la mera uscita dall'euro, se non accompagnata da un programma di politica economica alternativa (includente l'intervento sul debito, ma non solo), non configura da sola un percorso di sganciamento. Idem per una ristrutturazione del debito alla «greca», teleguidata dalla Troika dentro precisi vincoli sistemici.

Lo sganciamento richiede anzitutto analisi, volontà e lucidità politica. La crisi non è solo crisi europea. Essa ha anzi preso le mosse dagli USA. La crisi non è semplicemente crisi del sistema capitalistico, essa è innanzitutto crisi della specifica forma che il sistema ha assunto in epoca più recente, ed in misura più accentuata nell'area occidentale.

E' qui che il sistema ha fatto crac, ed è qui che può essere attaccato. Oggi, a causa dell'intreccio tra l'iper-finanziarizzazione e le contraddizioni prodotte dalla folle costruzione europea (moneta unica in primis) il cuore della crisi è  in Europa, ed in particolare nella sua periferia sud.

Sganciarsi da questo sistema (il capitalismo-casinò), e dalla forma concreta che ha assunto nell'Unione Europea, non è dunque solo un obiettivo razionale, ma anche un progetto potenzialmente condivisibile da un blocco sociale assai ampio. Un blocco sociale guidato da forze anticapitaliste, includente però anche settori non immediatamente anticapitalistici ma giunti alla consapevolezza dell'insostenibilità del sistema attuale.

Ma da che cosa bisogna concretamente sganciarsi? Ed in che misura sarà possibile farlo?

La nostra è l'epoca del dominio dell'economia su ogni altra dimensione del vivere associato. Da qui la crisi della politica e la morte (altro che crisi!) della democrazia. Da qui bisogna partire, dalla necessità di sganciarsi da un sistema che è arrivato a determinare il valore delle pensioni (cioè la qualità della vita degli anziani) come variabile dipendente dall'andamento dei mercati finanziari. Il primo passo dovrà essere dunque quello di uscire dalla schiavitù imposta dal dominio della finanza.

A questo serve la riconquista della sovranità monetaria,conditio sine qua non per impostare una qualsiasi politica economica, condizione imprescindibile per qualsiasi politica orientata alla difesa degli interessi delle classi popolari. A questo serve l'abbattimento del debito pubblico, senza il quale i piranha della finanza internazionale continuerebbero a strangolare il Paese. A questo serve la nazionalizzazione dell'intero sistema bancario, da sottrarre integralmente ai meccanismi della speculazione. A questo serve la nazionalizzazione dei settori strategici dell'economia (energia, trasporti, telecomunicazioni), che devono essere chiamati a rispondere alle esigenze sociali, non agli appetiti degli azionisti. A questo serve un Piano del lavoro, a generare un'offerta di occupazione svincolata dai meri criteri di competitività.

Questo è lo sganciamento. A questo serve l'uscita dall'Unione Europea. Mentre, su un altro piano, solo con l'uscita dalla Nato si potrà infine parlare di riconquista della sovranità nazionale, condizione imprescindibile affinché possa darsi una concreta sovranità popolare.

Attenzione! Sganciamento non è isolamento. Così come si dovranno recidere gli attuali legami, nuove relazioni solidaristiche si potranno creare con i paesi ed i popoli che si incammineranno sulla  stessa strada della liberazione da un sistema opprimente. Non solo. Siccome oltre che la strategia esiste anche la tattica, sarà assolutamente necessario giocare sulle tipiche contraddizioni intercapitalistiche. Giusto per fare un esempio, non è affatto detto che eventuali ritorsioni economiche decretate dal duo UE-USA debbano essere appoggiate da altre potenze come i Brics. E si potrebbe continuare.

Ma, ci siamo già chiesti, in quale misura sarà possibile sganciarsi?

Prima di rispondere a questa domanda è opportuna una precisazione: lo sganciamento è una politica che, come tale, non può prescindere da un sano realismo. Non immaginiamo dunque uno sganciamento totale. Esso sarebbe possibile solo con il trasferimento su un altro pianeta. Ma tra un viaggio nel cosmo e l'accettazione della schiavitù della cosiddetta «globalizzazione» c'è evidentemente tutto uno spazio da disegnare.

Un disegno frutto dell'azione cosciente di una soggettività ancora da costruire. E che dovrà tenere conto dei concreti rapporti di forza, interni ed esterni. Un disegno, dunque, che potrà assumere una forma precisa solo nel vivo della lotta. Ma un disegno possibile. Anzi, l'unico realistico. Perché francamente non abbiamo ancora capito cosa propongano gli altri.

Non è più tempo di limitarsi ad obiettivi giusti, senza misurarsi sul percorso per raggiungerli. E non è tempo (non lo è mai stato) di illudersi sui limiti alla capacità distruttiva delle oligarchie dominanti. Non è tempo per le mezze misure, nell'incoffessata speranza di limitare i danni.

E' tempo di immaginare, prefigurare, costruire un'alternativa. Sganciamento è in questo senso il concetto decisivo. Un concetto che contiene i singoli obiettivi, compresi quelli per noi decisivi - e non separabili l'uno dall'altro - dell'uscita dall'euro e del ripudio del debito.

Pimpini: Auriti e le battaglie sul signoraggio