venerdì 13 gennaio 2012

Unicredit e le banche, Mario Draghi è preoccupato


Unicredit e le banche, Mario Draghi è preoccupato per l’Ungheria, noi ci preoccupiamo dei nostri soldi

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Buongiorno a tutti, oggi pare si faccia a spintoni per entrare. Quanto vale davvero Unicredit? La volatilità di un titolo esprimere proprio la difficoltà che trova il mercato nello stabilire un  che, per questo, fluttua in maniera significativa. Un’operazione straordinaria come un aumento di capitale, andando a scombussolare gli assetti patrimoniali, ed a cascata anche quelli economici dell’, non fa che rendere ancora più difficile queste “valutazione” e da ciò si spiegano queste forti oscillazioni di prezzo.
Negli ultimi tre giorni, infatti, dal punto di vista economico/patrimoniale all’azienda non è accaduto nulla, eppure le quotazioni del titolo sono aumentate del 27% e quelle dei diritti del 264% quindi è drasticamente mutato il “sentiment”.
Ora possiamo fare delle considerazioni oggettive sui mutamenti che inevitabilmente porterà all’azienda questo aumento di capitale.
Certo, la risposta è senz’altro sì, perché immediatamente dopo che sono state rese note le condizioni che regolavano l’operazione di  alcune cose, che prima si potevano solo supporre o prevedere, sono diventate certe. l’azienda vedrà incrementare il proprio capitale di 7,5 miliardi. Buona notizia, senza dubbio è un importo ingente, la capitalizzazione dell’azienda, drasticamente scesa per il crollo di Borsa susseguente all’ufficializzazione delle condizioni alle quali sarebbe avvenuta l’operazione, in questo modo praticamente raddoppia. Ora, chiediamoci quanto sarà la reddtività di Unicredit e che impatto avrà sull’economia dell’azienda. E’ fuori discussione che avere una maggior patrimonializzazione permetterà all’azienda di eseguire operazioni a condizioni senz’altro più favorevoli, ma gli aspetti reddituali saranno certamente più dipendenti da una situazione economica generale, certamente un fatto esogeno all’azienda. Di sicuro i maggiori benefici al conto economico di Unicredit arriveranno da un miglioramento delle condizioni dell’economia reale e della finanza pubblica. la cosa certa è che le azioni dopo la conclusione dell’operazione di  triplicheranno, e questa non è una buona notizia per gli azionisti. In pratica ciò che prima andava ad uno ora sarà diviso per tre, insomma ci sarà una diluizione. la conclusione è che l’azienda azienda, completamente ristrutturata,  può certamente porsi ancora obiettivi ambiziosi, ma senza dubbio, ponderatamente, più limitati. Ora parliamo del presidente della BCE,  si dice molto preoccupato per l’Ungheria.
LE DECISIONI del nuovo capo del governo  eletto con il 70% dei suffragi, non viene ben visto dai poteri forti europei e americani in particolareL’Ungheria galleggia a vista sull’orlo del crack. Il nuovo governo ha varato una nuova costituzione limitando la casta giuridica e altre cose fino ad arrivare amettere la BANCA CENTRALE sotto il controllo del parlamento. Il presidente dell’unione europea Barroso, ha dichiarato che Budapest non avrà un euro di aiuti se non cambia la costituzione appena fatta. Beh certo, si và ad intaccare un argomento tabu’ quello che non si puo’ dire: un eventuale controllo governativo sulla banca centrale significa eventualmente emettere una moneta priva di debito in quanto stampata e di proprietà dello stato. IL SIGNORAGGIO BANCARIO..cosi’ verrebbe annullato da un paese membro dell’unione europeo ma non di area euro. Perche’ cosi tanti timori? Se l’esempio dell’Ungheria di emettere una moneta a sovranità popolare senza l’idipendenza della sistema delle banche centrali, che stampano in pratica solo moneta, indebitando gli stati guadagnando enormi profitti, venisse seguito da altri stati sarebbe la fine che i poteri forti che stampano solo carta a costo irrisorio e mettendo su di essa un valore nominale a piacimento (una banconota da 100 euro e’ un pezzo di carta colorata il costo della stampa e’ 1 euro a stare larghi) creando il signoraggio bancario. L’UNGHERIA portando il controllo della banca centrale sotto il parlamento, potrebbe stampare tutta la moneta che vuole priva di debito perche’ non pagherebbe nessun interessi lauti alla casta delle banche centrali e avrebbe la sovranità popolare sulla moneta. In pratica quello che avviene in quasi tutto il mondo tranne pochi paesi come Russia, Cina e SVIZZERA..
SE GLI STATI stampassero moneta con la sovranità popolare verrebbe emessa moneta priva di debito e crollerebbe questa storia contorta del debito pubblico in quanto lo stato non pagherebbe nessun interesse al sistema delle bancheQuindi l’ingerenza dei poteri forti dei banchieri stanno facendo pressioni affinche’ lUngheria cambi la costituzione appena varata…chissà perchè?Le politiche non cristiane del nuovo dittatore ungherese va scongiurata per togliere il pensiero ai paesi indebitati la tentazione di seguire un esempio di sovranità. Quindi i poteri forti stanno cercando di agire per scongiurare una pericolosa rivolta contro il pensiero Unico e politicamente corretto dei banchieri.Tipo il ministro dell’economia francese ha tuonato contro questi principi di indipendenza scritti nell’unione europea. Cosi’ una volta per tutte e chiaro quando un governante europeo difende i principi di indipendenza, non si riferisce a quello popolare ma a quello dei banchieri…..
Vi consiglio la lettura di questo articolo, per una panoramica sul bund, eurofx, fib, e oil
Per quanto riguarda il Bio, ecco l’interessante articolo di gooser e CK

A bordo del Titanic euro

A bordo del Titanic euro
http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&view=article&id=72542:a-bordo-del-titanic-euro&catid=35:worldwide&Itemid=152


La finanza è il virus che, inseritosi nei circuiti della moneta, ha trovato i suoi territori favorevoli di coltura nelle economie capitalistiche di mercato. All’abbattimento delle resistenze immunitarie del mercato hanno contributo la mercificazione della produzione e del consumo e, in parallelo, la loro crescente monetizzazione. I cambiamenti istituzionali che hanno accompagnato questi processi nella forma dell’impresa e dello Stato, sono la spia del cambiamento dei rapporti di potere e dei gruppi che hanno pilotato nelle varie epoche storiche queste trasformazioni. Non aver tenuto sufficientemente conto di questa interazione – tra finanza e potere, tra economia e politica – è la ragione sia del determinismo strutturale prevalente nelle correnti critiche, sia del volontarismo panglossiano di parte del riformismo e istituzionalismo nostrano. Quando, ovviamente, sia l`uno che l`altro non siano invece espressione, come accade di sovente, di furbizie opportunistiche. Questo libro offre una vasta panoramica di questi fenomeni. Ridando una dimensione storica sia alla riflessione teorica sia alla politica. Un’operazione utile in un momento in cui le urgenze – vere e allarmistiche dell’economia – sono dettate dal nuovo connubio realizzatosi tra economie europee e poteri finanziari internazionali. Pertanto, nel rinviare il lettore alla lettura dei testi che qui fanno seguito, questa prefazione mette al centro i fenomeni in corso della crisi delle economie di mercato e dei sistemi monetari europei determinati dalla introduzione dell’euro.

La crisi economica in corso da circa tre anni ha messo in evidenza che l’Unione Monetaria Europea (UME) non è priva di difetti. Aumenta inoltre la sensazione che il disastro si vada delineando in un futuro prossimo, anche se consapevoli che gli studi sociali non sono spesso in grado di prevedere gli eventi, e che la storia non si ripete in modo meccanico. Ma pur con queste precauzioni non si può fare a meno di sottolineare i numerosi paralleli che esistono tra l`atmosfera politica di ottimismo e di garanzia che accompagnò l’istituzione dell’euro 10 anni fa e il varo del transatlantico «inaffondabile» Titanic 100 anni fa. È impressionante rileggere le dichiarazioni sull’assenza di rischi per la sua navigazione fatte al momento del varo e la stessa carenza nell`ammissione dei rischi relativi all’euro.

Nonostante le ben note debolezze strutturali e politiche dell’UME, il capitano della nave persiste nell’ordine di procedere a tutta velocità, mentre le maggiori autorità a bordo continuano nelle loro danze frenetiche come se nulla di drammatico stesse avvenendo. A condurre le danze è la coppia Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, seguita nel frenetico valzer dagli altri capi di Stato dei Paesi dell’euro accompagnati dagli applausi degli invitati speciali e dei sobri banchieri. La sicurezza a bordo e la forza dei motori sono affidati al capitano Mario Draghi, un ex impiegato della Goldman Sachs. Questa nave di lusso, ribattezzata «euro», è considerata invincibile e nessuno ha il coraggio di associarla al destino dell’altra costruzione invincibile tragicamente inabissatasi. Ogni ipotesi di disastro monetario è considerata sulla pista da ballo di cattivo gusto e inappropriata. Le oscillazioni pericolose dei lampadari rendono qualche coppia di danzatori nervosa, ma ogni riferimento al funzionamento della nave è subito negato. Ovviamente uno sguardo dall’oblò mostrerebbe un oceano artico pieno di iceberg che minacciano la nave di collisione; ma come nella favola sui «vestiti nuovi dellImperatore» nessuno ha il coraggio di dire la verità fino a quando è troppo tardi.

Tuttavia le osservazioni fatte dall’equipaggio e registrate dagli strumenti di bordo dovrebbero aver prodotto preoccupazione. I dati economici dei Paesi della zona-euro mostrano da lungo tempo che il meccanismo macroeconomico non funziona nel modo in cui gli economisti dell’euro dicevano avrebbe funzionato dentro l`unione monetaria. La crescita resta inferiore a quella dei Paesi fuori dell’UME. La ragione principale di ciò è una frattura all`interno della zona-euro tra i Paesi dell’Europa del nord e quelli dell’Europa del sud, con la Francia in posizione intermedia. La zona-euro si sta dissolvendo a causa del modello tedesco export-led basato su tagli ai salari e restrizione del mercato interno. Questa politica fortemente unilaterale della Germania, un vero e proprio dumping economico e sociale, crea tensioni all’interno della zona-euro, producendo il crescente indebitamento dei Paesi più deboli verso le banche tedesche e francesi e altri Paesi della zona-euro con un surplus della bilancia commerciale. Queste differenze tendono ad aggravarsi anno dopo anno e non esiste alcun meccanismo dentro il sistema dell`UME che possa fermare questo corso disastroso verso l’aumento del debito dei Paesi dell’Europa del Sud.

I dati della bilancia dei pagamenti hanno per anni illustrato e confermato la distribuzione ineguale di queste tendenze tra i Paesi della zona-euro. Il deficit crescente della bilancia dei pagamenti è divenuto un problema comune ai Paesi dell’Europa del sud con un peso particolare all’interno dell’area monetaria comune. L’indebolimento delle industrie di esportazione in Grecia, Spagna e Portogallo ha generato un «circolo vizioso». Assistiamo infatti in questi Paesi alla crescita della disoccupazione seguita congiuntamente dalla diminuzione delle entrate fiscali, l’aumento del deficit di bilancio con l’aumento del debito pubblico e del tasso d`interesse.

Tuttavia, l’orchestra suona indisturbata e, con piccole modifiche alle regole del gioco, il ballo continua. Ma nella stiva sottostante al ponte si può vedere la falla dalla quale la nave sta immettendo acqua, e l’equipaggio ha attivato le pompe e si interroga: é l’ammiraglia «euro» veramente inaffondabile? Sono le proposte fatte dagli economisti della Commissione Europea veramente sufficienti a evitare la collisione con l’iceberg? E se questo non è possibile come facciamo a spiegarlo al capitano?

Alle origini, ci si pose questioni ipotetiche sui vantaggi e svantaggi per i passeggeri di imbarcarsi su questa nuova e non ancora sperimentata imbarcazione. Salire a bordo avrebbe dato alcuni vantaggi immediati: riduzione dei costi di transazione, rimozione delle incertezze dovute alle variazioni dei tassi nominali di cambio, e un tasso di interesse pari a quello tedesco. Mai Paesi della zona-euro devono rinunciare ad alcuni dei loro strumenti macro-economici; e i governi devono rinunciare al diritto privilegiato di stampare moneta. Nel caso di una crisi finanziaria nell’UME i governi dei Paesi in deficit potrebbero rischiare di sospendere il pagamento dei salari ai dipendenti pubblici e le pensioni di vecchiaia a causa della mancanza di moneta. Un Paese membro potrebbe vedersi negata la liquidità in euro necessaria e venir spinto al fallimento se non accetta le condizioni poste dall’FMI e dagli altri Stati membri. Questa mancanza di accesso alla liquidità in euro potrebbe quindi impedire ai Paesi in deficit di riavviare il processo di crescita.

Il problema fondamentale nell’UME è che i Paesi membri hanno preferenze diverse rispetto alla crescita, occupazione e inflazione. I governi dei Paesi relativamente più poveri dell’Europa dell’Est e del Sud considerano la crescita economica l`obiettivo prioritario per poter aumentare l`occupazione e il reddito reale. La Germania e alcuni altri Paesi danno maggiore priorità alla stabilità dei prezzi, mentre la crescita è considerata meno importante. La coppia leader sulla pista da ballo non ha dubbi: proclama che i Paesi della zona-euro dovrebbero fare quello che la Germania ha fatto molti anni fa imponendo restrizioni salariali e la disciplina del settore pubblico. Il problema che lo squilibrio delle bilance dei pagamenti sia la causa sottostante delle difficoltà dell’UME non viene affrontato. L’attenzione si concentra esclusivamente sul deficit e il debito del settore pubblico. Nessuno sembra dare attenzione al fatto che i tagli al settore pubblico sono la più sicura ricetta per l’aumento della disoccupazione e la caduta della crescita, che rinforzano il «circolo vizioso» messo in moto dall’indebolimento della posizione competitiva delle imprese private. In tal modo si fissa la linea per la crescita della disoccupazione nell’Europa del Sud, seguita dalla riduzione delle entrate fiscali, dal rafforzamento del deficit della bilancia dei pagamenti, dall’aumento dell`indebitamento con le banche straniere, dall’indebolimento del settore finanziario con una crescita insostenibile dei tassi di interesse di lungo periodo. Un tasso d’interesse maggiore di quello della crescita economica reale è noto come «la trappola dell’interesse che finisce con lo spingere le economie verso il collasso finanziario». Questi fenomeni non sono gli inevitabili risultati della attuale crisi economica, ma sono dovuti all’incomprensione del fatto che una singola moneta per Paesi con aspirazioni e bisogni così diversi è una scelta prematura. I dirigenti politici dovrebbero ammettere che non possono ballare allo stesso ritmo degli altri. I Paesi dell’Europa del Sud preferiscono probabilmente un passo rapido invece del valzer classico e per far ciò devono abbandonare la pista da ballo se vogliono riprendere il loro corso in direzione delle loro priorità, riattivando il motore della crescita, riacquistando una posizione forte sui mercati internazionali e rapidamente riequilibrare la loro bilancia dei pagamenti.

D’altronde non è troppo tardi per modificare il corso dell’UME. Di fatto esiste una via di uscita dalla crisi. Molte persone fuori dalla sala da ballo sono consapevoli del fatto che la moneta unica è divenuta il problema invece di essere la soluzione. La Germania e i suoi Paesi associati hanno un vantaggio competitivo del 30% in termini di costo, che dà alle merci tedesche una posizione dominante a spese dei Paesi dell’Europa del Sud. L’egemonia dei Paesi del Nord Europa è possibile perché i Paesi del Sud sono paralizzati dalla camicia di forza della moneta unica e perciò incapaci di migliorare le capacità produttive delle loro imprese private sui mercati esteri. L’Europa del Sud è chiusa in una trappola di alta disoccupazione e di crescita continua del debito pubblico ed estero dalla quale non può uscire come hanno invece fatto la Gran Bretagna, la Svezia e la Polonia mediante la riduzione del tasso d’interesse. Il paradosso è che i Paesi che generano questi squilibri nel sistema economico europeo (Germania) esportando disoccupazione e deficit in altri Paesi minacciano oggi i Paesi più deboli di espulsione dalla «sala da ballo» se non accettano di pensare come i tedeschi e di effettuare tagli dragoniani di bilancio.

Nel mezzo di una profonda recessione ha senso tentare di implementare questo «modello tedesco» in altri Paesi dell’euro, come chiedono Merkel con il plauso di Sarkozy? È veramente una buona politica perseguire il dogma classico del pareggio di bilancio in tutti i Paesi dell’euro prima del 2015 nel tentativo di «salvare l’euro»? Pareggiare il bilancio potrebbe essere un compito abbastanza facile per la Germania, i Paesi Bassi e l’Austria con disoccupazione in diminuzione; ma cosa fare in quei Paesi la cui posizione competitiva è deteriorata a un livello tale che la disoccupazione è in continua crescita, le entrate fiscali decrescono e la bilancia dei pagamenti è in forte deficit? Come sappiamo dal sistema di contabilità nazionale, il surplus di un Paese ha sempre il corrispettivo nel deficit di esattamente la stessa grandezza di uno o più Paesi. Quindi, fino a quando la Germania perseguirà la sua politica neo-mercatile di realizzare un enorme surplus nella bilancia dei pagamenti, i Paesi con un corrispondente deficit non avranno alcuna possibilità di rompere il circolo vizioso di crescente indebitamento, alti tassi d’interesse e bassa o assente crescita economica. Il cambiamento di questa situazione richiede cooperazione tra tutti i Paesi partecipanti, di quelli con surplus in particolare. Fin quando la Germania negherà che la condivisione di questa responsabilità dovrebbe essere parte del piano di «salvare l’euro» è difficile vedere come una catastrofe economica nei prossimi anni possa essere evitata.

In questa situazione esistono alternative al patto finanziario tra Merkel e Sarkozy? Fortunatamente sì, poiché non è troppo tardi per cambiare il corso degli eventi. Molti piani costruttivi sono stati presentati da accademici e politici situati fuori dai centri del potere della sala da ballo. La soluzione preferita è quella cooperazione basata sulla solidarietà europea. Questo modello richiede che i Paesi con il surplus nella bilancia dei pagamenti dovrebbero aumentare i loro consumi domestici e praticare politiche salariali meno restrittive. Inoltre, i Paesi con surplus dovrebbero condividere una quota del rischio relativo al finanziamento del debito dei Paesi in deficit. Questo processo di comune assunzione del rischio potrebbe essere organizzato mediante l`emissione di Eurobond con una assunzione in comune della garanzia per, ad esempio, il 60% del debito pubblico totale di ogni Paese membro. Infine, la tanto invocata e necessaria ripresa del processo di crescita potrebbe essere avviata con un «Piano Marshall» europeo dove i Paesi con surplus paghino, ad esempio, il 10% del loro benessere estero ad una Banca di Compensazione Europea (European Clearing Bank) con l`obiettivo preciso di utilizzare questi fondi per progetti rivolti a migliorare il potenziale produttivo dei Paesi in deficit.

Se i capi di Stato, impegnati nel loro valzer, non possono accordarsi su un cambio di corso su queste linee di cooperazione, la sola opzione che resta ai Paesi in deficit è quella di uscire dalla sala da ballo. Ed è consigliabile che lo facciano il più presto possibile per entrare nelle scialuppe di salvataggio fin quando il Titanic ancora si tiene a galla. I Paesi dell’UME con forte disoccupazione e una posizione competitiva debole non avranno altra scelta per evitare il fallimento: questo perché ulteriori tagli alla spesa pubblica sono autodistruttivi.

Nella situazione qui delineata di Paesi membri che salgono sulle scialuppe di salvataggio si tornerebbe alla situazione pre-UME, con un numero di monete europee corrispondente all`incirca a quella dei Paesi membri dell`UE. Dobbiamo sperare che non sia troppo tardi per ristabilire il vecchio Sistema Monetario Europeo (European Monetary System - EMS) nel quale le reintrodotte monete nazionali (potrebbero chiamarsi euro-italiano, euro-greco, ecc.) (1) potrebbero istituire un sistema di tassi di cambio fissi, ma con una fascia di variazione concordata. Di fatto questo sistema ha funzionato abbastanza bene durante il periodo 1993-1999 (lo SME (II) con margini di variazione del +/- 15 percento) senza alcuna significativa crisi monetaria.

Nel riassumere la situazione attuale una sola opzione appare certa: l’Unione Monetaria Europea non può continuare nel suo corso intrapreso. Se ciò avviene, la temuta collisione sarà inevitabile. Nel contempo perseguire il modello tedesco non sarebbe una soluzione utile, poiché produrrebbe la prosecuzione di un periodo prolungato di stagnazione senza ridurre in modo significativo l`ammontare del debito. Ci sono buone ragioni per non insistere troppo sulla metafora del parallelo tra il corso dell` «euro» e il destino del «Titanic». Tuttavia è un fatto storicamente accertato che il Titanic si inabissò il 15 aprile 1912, e solo quattro ore dopo la collisione con l’iceberg la nave giaceva sul fondo dell`oceano. Solo un terzo dei passeggeri e dell`equipaggio si salvarono. Tradotto nelle norme dell`Unione Monetaria Europea questo significherebbe che solo sei Paesi manterranno l’euro (Germania, Belgio, Paesi Bassi e Austria, forse Finlandia e Francia).

Per evitare questa catastrofe imminente dobbiamo sperare che i capi di governo che danzano sulla pista interrompano la musica, vadano dal capitano, gli chiedano di fermare la nave e inizino a negoziare insieme un cambio di corso cooperativo. Questo potrebbe concludersi con una riduzione del numero dei membri della zona-euro, il che non sarebbe una catastrofe se fosse una soluzione concordata. La storia fornisce un numero consistente di esempi che mostrano come la dissoluzione dell`unione monetaria può aver luogo in modo ordinato. Nella situazione attuale i Paesi che abbandonino la zona-euro dovrebbero ricevere un compenso generoso per i danni che questa partecipazione ha prodotto alle loro economie.

Quindi esiste una via di uscita che consentirebbe la ripresa della crescita economica in Europa: questo è possibile abbandonando l’orgoglio politico e il pregiudizio a vantaggio del realismo economico. Ma il tempo è scarso perché l’iceberg è ormai visibile a vista d`occhio.

Bruno Amoroso e Jesper Jespersen, Roskilde University, DK



1
Questo scioglimento delle Unioni Monetarie ha una lunga tradizione. L’Unione Monetaria Scandinava fu sciolta nel 1914 e la corona svedese, la corona danese, e la corona norvegese ne furono il risultato. L’Unione Monetaria Latina, con il franco come moneta comune, fu sciolta nel periodo tra le due guerre, dove la Francia, il Belgio e la Svizzera mantennero ciascuno il «franco» ma con il prefisso nazionale.

EURO MACHT FREI


EURO MACHT FREI: PERCHE’ NON E’ TRADIMENTO
di Marco Della Luna
Non si è semplicemente gridato alla democrazia sospesa, o interrotta, e al colpo di stato. Media nazionali ed esteri hanno raccolto molti elementi indizi che l’impennata dello spread, la deposizione di Berlusconi, la nomina di Monti, l’instaurazione del suo governo etc. siano l’esecuzione di un piano internazionale preordinato,verticistico-antidemocratico-occulto, in cui la Germania ha giocato un ruolo chiave, da un lato mettendosi a vendere massicciamente i btp per farne impennare il rendimento, e dall’altro esigendo la sostituzione di governo mediante  un colpo di palazzo. Un’estorsione politica internazionale, insomma. Molti vanno accusando Monti, e talvolta anche Napolitano come suo mentore e spalla, di tradire gli interessi nazionali perché fa una politica recessiva, diretta all’avvitamento fiscale, insostenibile già nel medio termine, e di tutto favore della Germania.  Mi giunge persino voce che qualcuno abbia sporto denunce penali contro Monti e forse anche contro Napolitano, vagheggiando addirittura l’alto tradimento.
Vorrei qui chiarire le ragioni per le quali non ho mai aderito a tali accuse né a tale prospettazione dei fatti, che reputo insieme ingenue e ingiuste, perché non tengono conto dei reali (sia pur non pubblicamente riconoscibili) rapporti di forza internazionali, tra paesi "amici". E dell’assenza di libertà di scelta. E del ruolo obbligato che il capo dello stato di un paese a sovranità limitata (perché vinto e occupato da 130 basi militari) svolge, nell’ordinamento internazionale, soprattutto in quello militare e finanziario, ossia quello di assicurare che il paese a sovranità limitata ottemperi ai suoi doveri verso paesi e potentati finanziari gerarchicamente sovrastanti. Un ruolo che va svolto per garantire l’unica forma realmente possibile di relativa autonomia e relativo benessere o non malessere. E soprattutto per  preservare la pace, la stabilità in primis rispetto al rischio di  una destabilizzazione interna.
In effetti la Germania è ben contenta che l’Italia resti nell’Euro, che si sveni per raggiungere i parametri che essa stessa le pone come condizione per restare nell’Euro. “Restate nell’Euro, poveri maccaroni, e per farlo tagliatevi i redditi, colpitevi il risparmio, svenatevi l’economia reale, andate in recessione, come gli altri popoli inferiori, mentre noi alle nostre imprese diamo credito a basso costo per fare investimenti, espansione, innovazione, occupazione, e prenderci le fette di mercato che le vostre imprese lasciano libere, cessando l’attività per eccesso di tasse, di insoluti, di interessi passivi. La Germania resterà l’unica potenza industriale del continente, controllando anche l’industria francese che essa finanzia col suo attivo commerciale. Bravo Monti, hai fatto fare all’Italia salti mortali, torna presto a Berlino, quando tutto sarà finito ti daremo la Croce di Ferro. Intanto ti diamo un poco di ossigeno per il Fondo Salvastati, ti abbassiamo un poco lo spread, ti esoneriamo dall’obbligo di ridurre del 20% l’anno la quota di debito pubblico eccedente il 60% del pil, così resti in sella e porti avanti l’opera di risanamento; però in cambio le nostre banche, finanziandosi all’1% presso la BCE, comperano i btp che rendono a noi, e costano a voi, il 5,6, 7 %, così vi dreniamo tutto il reddito che altrimenti potreste usare per risollevare la testa, voi popolo inferiore, negri bianchi! Però tu continua a dire agli italiani che devono diventare come noi .”
La virtuosità di bilancio è appunto questo: pagare ai tedeschi alti interessi salassando l’Italia e, insieme, cedere loro i mercati – cioè il Lebensaraum , lo spazio vitale – deindustrializzandola . Per finanziare questa virtuosità leggermente contraddittoria, non c’è altro mezzo che prendere il risparmio dei cittadini e vendere i beni pubblici. Euro macht frei: la logica dell’Euro è la medesima dei campi di lavoro del Terzo Reich, kapò inclusi: ti fanno lavorare a consumazione, finché c’è qualcosa da spremere, ti tengono a stecchetto, e tu dimagrisci, dimagrisci…
Eh già, proprio questo è il risultato dell’incontro berlinese Monti-Merkel: il Nostro, con la sua manovra, ha tagliato i garretti all’economia italiana, così che la Germania è rassicurata che essa non possa risollevarsi e farle concorrenza o semplicemente recuperare una qualche autonomia strategica. Ottenuto ciò, la Merkel concede  fondi per sostenere il btp, e insieme solleva la mannaia del vincolo di riduzione forzata del debito. In questo modo tiene in vita il governo italiano, evita che la situazione precipiti, per l’Italia, ossia che lo spread rimanga troppo alto, insostenibile,  e che Monti debba fare manovre da 40 – 45 miliardi l’anno per ottemperare all’obbligo di riduzione del debito.  La Merkel non ha concesso un aiuto all’Italia, ma ha semplicemente dato ossigeno al governo per consentirgli di portare a termine una politica che, col pretesto del rigore di bilancio, sta deindustrializzando l’Italia e così facendo gioco alle mire di Berlino. E presto, per far cassa, dovrà aggredire ulteriormente i risparmi delle categorie non forti. Perché l'Italia in recessione potrà tirare avanti entro l'Euro solo mangiandosi il risparmio con le tasse, e vendendo i beni e le aziende di pubblica proprietà.
 Se si fosse andati avanti con lo spread in salita nonostante i tagli e le tasse, e in più con un’ulteriore manovra di 40 – 45 miliardi, in fase già recessiva, il paese si troverebbe, in pochi mesi, sottoposto a tali traumi e a tali minacce, che potrebbe svegliarsi, insorgere ed esigere l’uscita dall’euro prima che sia ultimato il processo di eliminazione dell’industria nazionale, esigere il ritorno alla sovranità monetaria nazionale nel senso di una Banca d’Italia come era prima del 1982, ossia tenuta a comperare il debito pubblico a rendimenti modici e sostenibili, proteggendoci sia dall’aggiotaggio (speculazione ribassista) internazionale, come quello fatto da banche tedesche per scatenare l’impennata dello spread, che dal peso di tassi come quelli che paghiamo adesso. E potrebbe spingersi a pretendere che la banca centrale nazionale fosse pubblica, anziché privata. E poi naturalmente potrebbe fare come gli islandesi, ossia imporre di non pagare i debiti verso gli speculatori stranieri. Islanda e Argentina sono in forte ripresa economica... si parla dell'8% di pil. Al contrario, le nostre imprese stanno chiudendo a raffica, mandano una pioggia denunce di cessazione ai Comuni… dall’Euro usciremo in ogni caso, ma se usciamo adesso, usciamo con una struttura produttiva abbastanza consistente, mentre se ci sottoponiamo alla chemioterapia di Monti per restare nell’Euro, tireremo avanti ancora per qualche anno, poi ne cadremo fuori senza più un tessuto produttivo decente e vitale.
Ma lo sapete quale sarebbe la rata annuale di pagamento (ammortamento) del debito pubblico di 2.000 miliardi in 20 anni al tasso del 5%? Sarebbe di circa 160 miliardi! E se volessimo ammortare solo la metà del debito, sarebbe 130 miliardi. Cercate nel web un sito che faccia il calcolo del piano di ammortamento di un mutuo, e fate la prova. E' questo che non i media e le istituzioni non dicono MAI: che rimborsare il debito pubblico è impossibile - a meno di una brutale svalutazione dell'Euro. Il debito sovrano dell'eurozona non può essere ridotto, ma solo trasferito su paesi più deboli, che dovranno dar fondo ai loro redditi e ai loro risparmi per pagare non il capitale, ma gli interessi - per far quadrare i conti. Fino ad esaurimento. L'unica via di uscita è il ripudio del debito pubblico (e privato) detenuto dagli speculatori, in quanto ingiusto.  Tutte le pompose storie di virtuosità, di rigore di bilancio, di tasse eque, vanno in pezzi, come frottole, davanti alla verità matematica. E con essa va in pezzi la credibilità delle "Autorità" che le gabellano.
Monti potrebbe fare altro da ciò che sta facendo? Napolitano poteva fare altro? Semplicemente, no. Il vertice della piramide dei poteri aveva già deciso e pianificato: la Fed (vedi audit GAO) aveva già messo a disposizione delle banche che ne sono proprietarie molte migliaia di miliardi di dollari a tasso pressoché nullo e senza scadenza di rimborso, in modo da consentire loro di comperare a costo zero gli asset (anche) europei, (anche) italiani, come confermava che stanno facendo il N.Y. Times del 26.12.11. Ossia, possono comperare a costo zero beni reali, redditizi, come aziende, impianti, immobili, btp, che a noi sono costati lavoro e tasse. E poi ne ricavano un reddito, in parte pagato da noi. Comperano a costo zero, per esempio, i nostri btp che rendono il 7%. Quindi si prendono una parte del nostro reddito nazionale. La Germania domina le istituzioni comunitarie, in cui ab origine la maggioranza assoluta dei funzionari sono tedeschi. Le sue banche sono in grado di mettere in ginocchio e ricattare ogni governo italiano alzandogli i rendimenti e agendo via BCE. Ecco: di fronte a questi evidenti rapporto di forza, del tutto impari e irresistibile, e di fronte a tali volumi di fuoco monetario, a simili piani di potenza e – diciamolo pure – di imperialismo, come si può pensare che un governo o un capo dello stato italiano abbia la possibilità di opporsi, o abbia un’autonomia? Al massimo potrà cercare di ottenere un minimo.  Un paese come la Germania può ottenere qualcosa di più, ossia di collocarsi, nella catena alimentare, uno scalino sopra paesi come l’Italia, la Grecia e la stessa Francia. Ed è quello che succede.
Certo, in teoria Monti poteva tagliare i grandi sprechi della spesa pubblica, i carrozzoni inutili, l’assistenzialismo, le 25.000 poltrone di amministratori di società partecipate, gli sprechi della politica, di grande elusione fiscale, etc.; poteva destinare una parte del recuperato a ridurre lo stock di debito, e una parte a finanziare la ripresa, lanciando in tal modo un segnale forte e strutturale – ma nella realtà ciò non si può fare perché altrimenti si perde il consenso, il sostegno e il voto di milioni di elettori e della partitocrazia, tutta o quasi.  Potrebbe farlo soltanto un vero dittatore, che non avesse bisogno del consenso o non-dissenso partitico, clericale, mafioso, e che si appoggiasse direttamente al popolo e alle forze armate. Ma questo è impensabile che avvenga. Nella morsa dei due vincoli – quello dei potentati stranieri dominanti, e quello delle caste interne condizionanti – l’Italia e i suoi governanti non hanno scelta, e il paese, irriformabile, è destinato al marasma e alla liquidazione.
12.01.12
Marco Della Luna

DALLA CRISI ECONOMICA ALLA MONETA DI POPOLO


4 GENNAIO 2012


CONFERENZA FORZA NUOVA A CREMONA 

"DALLA CRISI ECONOMICA ALLA MONETA DI POPOLO"

Forza Nuova Cremona organizza Sabato 14 dicembre, alle ore 15.00, presso Sala Palazzo Cittanova a Cremona (C.so Garibaldi 120), una Conferenza sul tema "DALLA CRISI ECONOMICA ALLA MONETA DI POPOLO".

Interverranno: 
* Dott. Enrico Grossi, membro Accademia della Consulenza Indipendente Investimenti Finanziari;
* Marco Saba, economista e Responsabile Centro Studi Monetari;
* Luca Castellini, Coordinatore Nord Italia FN;
* Salvatore Ferrara, Coordinatore Nord Italia FN;
* Avv. Gianni Correggiari, Vice Segretario FN;
* On. Roberto Fiore, Segretario Nazionale FN

L'incontro sarà l'occasione per una attenta e profonda riflessione sul drammatico momento che la nostra Nazione, e non solo, sta vivendo, per analizzarne le cause, ma soprattutto per illustrare le vie d'uscita alternative alle nefaste alchimie economico-finanziarie propinateci dai demiurghi dell'unione europea.

Tutta la Cittadinanza è invitata a partecipare, a prescindere da appartenenze politiche ed ideologiche.

Il sistema del “clearing” nella Germania del 1930-1940


Tratto da. H.W. Arndt 1949. Gli insegnamenti economici del decennio 1930-1940. Giulio Einaudi editore. Torino. 510 p.

Capitolo settimo: Germania: politica economica estera.

3. Il sistema del “clearing”

Il sistema del clearing, come il controllo dei cambi, non fu una premeditata invenzione dei nazisti, ma sorse attraverso i tentativi, prima dei commercianti privati e poi del governo stesso, per sfuggire al dilemma dei cambi esteri. Il primo impulso nacque dagli sforzi delle ditte importatrici tedesche impossibilitate a ottenere valuta estera, per ricorrere all’aiuto degli esportatori tedeschi e combinare baratti diretti con i loro rispettivi contraenti di un paese straniero. Le compensazioni private di questo tipo, che godettero di una breve boga durante il 1932-33, resero possibile una certa quantità di scambi internazionali che altrimenti non avrebbero avuto luogo per mancanza delle possibilità di pagamento. Ma dal momento che simili contrattazioni erano limitate allo scambio di quantità definite di merci, e raramente richiedevano l’intervento di meno di quattro parti contraenti, questo sistema rimase limitato e assai complicato.

Una forma di baratto più generalizzato si sviluppò durante il 1933 attraverso i cosiddetti “conti Aski”, aperti presso banche tedesche a favore di esportatori stranieri. I conti Aski operavano in effetti come compensazioni private continuamente rinnovatisi: l’esportatore straniero commisurava esattamente le sue vendite alla Germania (per le quali riceveva marchi Aski) al volume delle merci tedesche (che lui stesso o un altro importatore del suo paese acquistava con marchi Aski) delle quali egli disponeva all’estero. Questo sistema allargò molto il campo dei baratti, ma subito diede origine in forma acuta a un problema che già si era presentato nel caso delle compensazioni private. In seguito alla sopravvalutazione del marco, le esportazioni tedesche erano seriamente ostacolate dai loro prezzi sui mercati esteri, col risultato che l’offerta di marchi Aski (derivanti dalle importazioni tedesche) tendeva sempre a superare la domanda. Gli esportatori esteri riuscivano a vendere le loro disponibilità di marchi Aski ai potenziali importatori soltanto ad uno sconto sufficiente a compensare il potenziale importatore di merci tedesche della differenza di prezzo; gli esportatori a loro volta aggiungevano il premio al prezzo delle merci vendute in Germania. Il risultato fu che il sistema Aski tendeva automaticamente a compensare la sopravvalutazione del marco attraverso gli sconti variabili ai quali i marchi Aski erano venduti all’estero, a spese dei consumatori tedeschi di merci importate. All’inizio il governo tedesco tentò di limitare la portata di questa svalutazione del marco, permettendo scambi compensati solo per le cosiddette esportazioni “supplementari”, cioè per quelle esportazioni che non sarebbe stato possibile effettuare al corso ufficiale del cambio. Ma via via che il premio cresceva, gli esportatori tedeschi erano sempre più tentati di spostare le esportazioni dal campo del commercio libero a quello degli scambi compensati. La difficoltà di definire quali erano le esportazioni supplementari e di sopprimere le evasioni, portò a crescenti restrizioni e alla graduale abolizione del commercio in compensazione Aski, dopo il 1935[1].  La forma tecnicamente più perfetta di commercio basato sul baratto, che gradualmente soppiantò i primi sistemi e divenne la struttura di quasi il 65% del commercio estero tedesco, fu il sistema del clearing. Invece di lasciare ai commercianti privati il compito di trovare possibilità di baratti, il governo concluse degli accordi generali di compensazione, o accordi di clearing con interi paesi. L’essenza di un accordo di clearing consisteva nella istituzione in entrambi i paesi contraenti di un conto nel quale gli importatori (e gli altri debitori) pagavano, nella loro moneta, le somme che dovevano ai loro creditori dell’altro paese, e dal quale gli esportatori verso l’altro paese (e gli altri creditori di esso) erano pagati, anch’essi nella loro moneta. Questo sistema aveva il vantaggio, sia sulle compensazioni private che sul sistema Aki, di poter essere esteso fino a comprendere non solo le transazioni commerciali, ma tutti i tipi di transazioni internazionali, come pagamento di debiti ecc.[2]. d’altra parte, il clearing dava origine a un nuovo problema che non si era presentato nel caso di baratto diretto o del sistema Aski, il problema dei saldi scoperti. Mentre i commercianti privati effettuavano un baratto solo dopo essersi accertati che gli ordini complementari erano stati passati e i pagamenti concordati, non era affatto certo che il commercio totale fra due paesi si sarebbe automaticamente compensato. Un metodo per raggiungere il necessario bilancio era quello di permettere che il corso del cambio di ogni conto di clearing oscillasse liberamente. In pratica, tali violente oscillazioni dei cambi aumentavano a tal punto l’elemento rischio nel commercio estero, che questo metodo fu raramente seguito. Però, in mancanza di un corso del cambio oscillante liberamente, l’equilibrio si poteva conseguire soltanto col controllo diretto del commercio. Pertanto, in pratica il sistema del clearing presupponeva un grado considerevole di controllo statale sul commercio estero in entrambi i paesi contraenti[3].

D’altra parte, il sistema di clearing per se stesso rafforzava i poteri di controllo dei governi interessati. Il fatto che ogni clearing costituiva un sistema chiuso provocava la fissazione di tanti diversi corsi del cambio tra le rispettive monete, così che erano sovente fissati ex novo per ogni importante transazione. Quantunque il corso dei cambi fosse in teoria fissato per via di accordi, questa possibilità conferiva al governo dotato di una più favorevole posizione commerciale un docile strumento, con cui controllare il volume e le condizioni del proprio commercio estero.

Il vantaggio più notevole del commercio basato su sistemi di baratto compreso il clearing, era che esso eliminava i mezzi di pagamento internazionali, oro e valute estere. Fu questo vantaggio che spinse la Germania e gli altri paesi, le cui riserve auree e di valute estere erano state esaurite dalla fuga dei capitali e dalle avverse bilance dei pagamenti, ad adottare questo sistema di commercio. È importante vedere cosa significa realmente questo vantaggio. Certamente, non significava che la Germania, per esempio, non dovesse più pagare le proprie importazioni[4]; essa ancora doveva acquistare le importazioni con esportazioni,, quantunque queste ultime, invece di darle la disponibilità di valuta estera libera, aumentassero il saldo a suo favore nel conto di clearing nell’altro paese. Sotto questo riguardo, la sola vera differenza tra il commercio di clearing e quello a cambio libero era che, mentre secondo quest’ultimo un paese le cui riserve di valute estere fossero esaurite, non poteva importare fino a che non avesse ottenuto le necessarie divise estere, per mezzo di maggiori esportazioni, - spesso rese impossibili dalle barriere doganali e dalle difficoltà di trovare mercati esteri, il sistema di clearing metteva in grado di un paese di prendere l’iniziativa aumentando le importazioni[5]. Per un paese che, come la Germania nel 1933, aveva urgente bisogno importazioni estere, ma il cui commercio di esportazione era ostacolato sia da una sopravvalutazione della moneta sia da restrizioni commerciali internazionali, questo era in se stesso un importante vantaggio. Ma questa differenza fra il sistema dei cambi liberi e il sistema di clearing aveva un’ulteriore importante conseguenza. Essa significava che, in base al sistema di clearing, l’obbligo di ristabilire il necessario equilibrio nel conto di clearing generalmente incombeva sul paese che aveva una (temporanea) eccedenza di esportazione. Infatti, siccome un paese che comperava più di quanto vendeva in effetti riceveva merci senza pagarle e aumentava semplicemente il suo debito di clearing verso l’altro paese, era quest’ultimo che doveva garantire il pagamento ai suoi esportatori, sia assumendo a sua volta i suoi acquisti dall0altro paese, o, se era il caso, riducendo le sue esportazioni. In quanto questa caratteristica del commercio di clearing veniva in se stessa a stabilire un premio all’espansione del commercio internazionale – e, in certi casi, questo fu senza dubbio il risultato – essa costituiva un indubbio pregio del sistema. Ma essa costituiva anche una potente arma in mano di un paese che, come la Germania nazista, fosse il solo bramoso di comperare in un mondo preoccupato di vendere; e specialmente se quel paese era il primo a usare l’arma di accumulare debiti sui conti di clearing con paesi che erano ontani da ogni sospetto. Le possibilità di manipolare il corso dei cambi e di accumulare saldi scoperti sui clearing, trasformarono questo sistema in una potente arma della quale il governo nazista fece pieno uso nella sua politica del commercio estero.

Tutti questi vantaggi dei sistemi di compensazione privata e di clearing, alcuni dei quali – ma non tutti – erano assai dubbi, dal punto di vista dell’ordine economico internazionale erano controbilanciati da uno svantaggio molto grave. L’essenza del sistema di clearing consisteva nel pareggiare i debiti e i crediti della bilancia commerciale (o, se altre transazioni, non riguardanti merci, erano incluse, della bilancia dei pagamenti) del paese interessato, in modo da evitare i pagamenti internazionali per liquidare – a lungo andare – le differenze. Ma questo in pratica significava che il clearing limitava il commercio internazionale a scambi bilaterali di merci tra coppie di paesi. Quantunque, in linea di principio, non esista ragione perché tre o più paesi non possano sistemare il loro commercio estero in modo che, fino a quando non esiste alcun saldo tra due qualsiasi di loro, le loro reciproche obbligazioni si annullino, le difficoltà sorte in un clearing anche solo triangolare, a suo tempo risultarono insormontabili[6]. Perciò, in pratica, la riorganizzazione del commercio tedesco sulla base del clearing implicava l’abbandono di alcuni dei vantaggi del commercio internazionale e in particolare la perdita della maggiore parte dei benefici, in termini di costi comparati, che la Germania aveva tradizionalmente ricavato dal suo commercio plurilaterale basato sulle sue vendite di manufatti ai paesi industriali europei, e sui suoi acquisti di materie prime e di prodotti alimentari dai marcati d’oltremare. Esamineremo in seguito fino a che punto i nazisti, riuscirono a ridurre questa perdita sfruttando le possibilità di monopoli discriminanti consentiti dal sistema del commercio estero controllato.

Il controllo dei cambi e il sistema di clearing fornirono ai nazisti gli strumenti di una politica pianificata del commercio estero. Come furono impiegati questi strumenti?

4. La politica nazista del commercio estero.

Il “Nuovo Piano”, nello stabilire la politica di restringere le importazioni all’ammontare disponibile di valuta estera, metteva naturalmente in evidenza il fatto che le crescenti esigenze d’imporazioni sarebbero state soddisfatte soltanto attraverso una espansione delle esportazioni. Ma queste erano ostacolate dalla sopravvalutazione del marco che manteneva i prezzi tedeschi di esportazione considerevolmente al di sopra dei prezzi della concorrenza sui mercati internazionali. Perciò, per quanto ci risulta, la politica nazista per il commercio estero fu dominata, dopo il 1934, dagli sforzi del governo per sormontare questo ostacolo artificiale e che la Germania, in gran parte, si creava da sé.

I metodi che vennero usati per stimolare le esportazioni differiscono considerevolmente. In linea generale, è possibile distinguere quattro tipi di politiche adottate alla Germania rispettivamente verso quattro gruppi di paesi: a) paesi con i quali la Germania commerciava sulla base di cambi liberi (o di accordi di pagamento); b) paesi creditori con i quali si erano conclusi accordi di clearing; c) paesi a controllo dei cambi dell’Eruopa sud-orientale; d) paesi sud-americani. 299-307

b) Clearing con paesi creditori: Un certo numero di paesi creditori dell’Europa occidentale, compresi la Franca, la Svizzera e l’Olanda, avevano concluso accordi di clearing con la Germania, nel 1932, allo scopo di accantonare i ricavati delle eccedenze delle esportazioni tedesche per il pagamento dei debiti verso i loro cittadini. Ma, come abbiamo visto, il sistema del clearing consentiva di accrescere liberamente le importazioni senza immediato pagamento. Perciò al 1933 in avanti, la Germania aumentò i suoi acquisti da questi paesi in modo tale (e i loro esportatori erano ben lieti di vendere), che non soltanto scomparvero le eccedenze di esportazioni tedesche, ma la Germania accumulò debiti per cifre considerevoli nei suoi conti di clearing con i paesi in questione. Pertanto, quando questi ultimi si resero conto che in realtà essi stavano vendendo merci alla Germania senza alcuna immediata prospettiva di pagamento sotto forma di esportazioni tedesche, reagirono riducendo le loro esportazioni verso la Germania e, nel caso della Francia, sostituendo un accordo di pagamento all’’accordo di clearing, in modo da rendere impossibile la ripetizione dell’esperimento. Razionando le esportazioni, questi paesi riuscirono a obbligare la Germania a ridurre a poco a poco i suoi debiti di clearing. D’altra parte, per la Germania il commercio a queste condizioni era svantaggioso come quello con i paesi a libero cambio, e durante gli anni seguenti il commercio tedesco con questi paesi ristagnò o declinò.

c) Europa sud-orientale: L’espansione del commercio nazista nell’Europa sud-orientale si spiega col fatto che la Germania era il solo paese disposto ad acquistare le derrate e le materie prime di quelle regioni a prezzi remunerativi. Tutti quei paesi erano esportatori di prodotti agricoli, specialmente di grano e di altri cereali, di suini e di tabacco , per l’importazione dei manufatti loro occorrenti, dipendevano dalla vendita delle loro eccedenze agricole. Però, per varie ragioni – scarsa adattabilità del terreno, sovrappopolazione, cattiva organizzazione e soprattutto mancanza di capitali – questi paesi non erano riusciti a seguire i miglioramenti della tecnica agricola che erano stati applicati durante il primo trentennio del secolo nei grandi paesi produttori dell’emisfero occidentale e dei Dominions britannici. Col collasso dei prezzi agricoli durante la grande depressione essi non furono più assolutamente in grado di competere con i produttori d’oltremare sui mercati internazionali. In pari tempo, la maggiore parte dei loro antichi mercati europei chiudevano le porte ai loro prodotti. In questa disperata situazione, la Germania apparve come il loro salvatore.

Come abbiamo visto, la Germania era disposta a comperare il grano romeno, il granoturco ungherese, I maiali jugoslavi e il tabacco Greco a prezzi più alti di quelli mondiali non soltanto perché gli acquisti da questi paesi (che erano stati tutti obbligati dalla situazione della loro bilancia dei pagamenti ad adottare il controllo dei cambi e a concludere accordi di clearing con la Germania) non richiedevano pagamenti in valuta libera, ma perché i nazisti miravano a ottenere il controllo politico ed economico su tutta quella zona, nell’eventualità di una guerra. È importante rendersi conto del fatto che l’incapacità dei produttori balcanici di praticare prezzi di concorrenza sui mercati internazionali e il rifiuto degli altri paesi, come la Gran Bretagna, di assisterli nella loro critica situazione davano alla Germania la partita giù vinca a metà. In pratica essa ricorse a innumerevoli stratagemmi per stringere sempre più nella sua mora le economie balcaniche.

Il metodo più semplice ed efficace era l’accumulazione dei debiti di clearing. Nel 1935-36 la Germania continuò ad aumentare i propri acquisti da questi paesi attraverso i clearing. Via via che i saldi attivi nei clearing si accumulavano, gli esportatori balcanici non riuscivano a essere pagati; e, al fine di ridurre questi saldi congelati, i governi dei paesi balcanici dovettero spingere i loro importatori ad acquistare prodotti in Germania piuttosto che altrove. Dove esisteva parità di potenza commerciale, questa forma di ricatto funzionò una sola volta con ogni vittima[7]. Francia, Olanda e Svizzera, come già vedemmo, vi misero facilmente termine, riducendo le loro esportazioni in Germania. Ma i paesi balcanici non erano in grado di fare altrettanto. La maggiore parte tentarono di espandere il loro commercio con altri paesi,, quando si resero conto del pericolo di una eccessiva dipendenza dalla Germania, sia riducendo le loro esportazioni verso la Germania (un metodo che la Turchia usò con discreto successo), sia insistendo per avere pagamenti in valute libere per una parte delle loro esportazioni. Ma entrambi questi metodi presupponevano la possibilità di vendere su altri mercati e questo punto rimase decisivo[8]. Impossibilitati a vendere altrove le loro eccedenze a prezzi rimunerativi, essi non potevano fare altro che continuare a vendere alla Germania, e perciò anche a comperare da lei[9].

Altri sistemi con i quali i nazisti accentuarono la dipendenza economica dei paesi balcanici dalla Germania furono il dumping dei prodotti balcanici su mercati stranieri (che offriva il doppio vantaggio di togliere questi mercati esteri agli esportatori balcanici diretti e di procurare valute libere alla Germania); e specialmente durante gli ultimi due anni che precedettero la guerra, la generosa concessione ei crediti a lunga scadenza (che, effettivamente, non costavano nulla alla Germania, perché il differimento dei pagamenti da parte degli importatori balcanici determinava una mancanza di fondi nei conti di clearing col risultato che le banche centrali dei paesi balcanici dovevano anticipare i pagamenti ai loro esportatori, per cui i crediti erano in effetti finanziati non dalla Germania, ma dai governi balcanici); accordi per il baratto di determinati prodotti, sulla base di analoghi crediti su larga scala[10]; la disposizione tedesca a vendere armamenti (di seconda qualità), spesso a credito, il che determinava anche l’importazione dalla Germania delle relative munizioni, delle parti di riserva e di ricambio; infine, ma non meno importante, il sistema della diretta pressione politica e militare.

Già nel 1935 o nel 1936 la Germania era riuscita a rafforzare il suo dominio economico sui paesi bacanici al punto che essa poteva volgere a proprio favore la posizione commerciale nei loro confronti, insistendo su un più alto cambio del marco nei conti di clearing, poteva vendere a più alti prezzi le proprie esportazioni, consegnare merci di qualità inferiore o anche merci che questi paesi non volevano, poteva rifiutare di consegnare merci che potevano essere vendute in altri paesi contro valuta libera, e così via. Fino a qual punto la Germania abbia spinto lo sfruttamento della propria potenza commerciale, è controverso. Non c’è dubbio che essa usò, prima o poi, tutti questi metodi, con tutti i paesi balcanici. Ma prove rilevanti sono state addotte per dimostrare che, fino al 1939, la Germania non si valse pienamente di tutte le possibilità di sfruttamento offerte dal suo dominio economico sopra i paesi balcanici[11]. Non è difficile scoprirne la ragione. L’assunto principale dell’espansione commerciale tedesca nell’Europa sud-orientale non era quello di ottenere importazioni a buon mercato con cui soddisfare i propri fabbisogni normali, ma di assicurarsi una zona di dipendenza economica in caso di guerra. In vista di questo obiettivo, era una sana politica rinunciare a qualche immediato profitto economico per quei vantaggi economici e specialmente strategici che sarebbero più tardi derivati da una completa dominazione politica ed economica. La politica stessa e la misura del suo successo ebbero una significativa illustrazione, anche prima dello scoppio della guerra, nell’accordo commerciale tra la Germania e la Romania del marzo 1939, che andò ben oltre la portata di un normale accordo commerciale, perché stabilì un vasto piano di riorganizzazione di tutta l’economia romena in modo da adattarla ai bisogni d’importazione della Germania[12]. Il puto realmente significativo è che la Germania non fece uso del suo evidente predominio per scopi che avrebbero potuto essere immediatamente definiti di “sfruttamento” e come tali scartati, ma per ottenere un adattamento dell’economia romena alle necessità tedesche, il che, nel complesso, non era necessariamente svantaggioso per la Romania dal punto di vista economico. Naturalmente ben diverso è il modo col quale la Germania trattò i paesi balcanici dolo lo scoppio della guerra. p. 309-315

L’intero sistema nazista della politica del commercio estero era così basato sull’esercizio di quello che è tecnicamente “monopolio discriminante”. Dove la sua posizione di unico sbocco alle eccedenze di un dato paese o il successo del sistema ricattatorio di accumulare dei saldi sui clearing, o finalmente la pressione politica diretta, misero la Germania in una forte posizione, essa riuscì sempre a ottenere le materie prime o quelle altre importazioni di cui abbisognava a prezzi relativamente migliori di quelli che doveva pagare, dove quelle possibilità non esistevano e dove si trovava in concorrenza, sia per i mercati che per le merci con altri paesi.

5. I risultati

come nel caso della politica economica interna del regime nazista, non è possibile valutare i risultati della politica nazista del commercio estero con i normali criteri economici. La politica commerciale nazista perseguì due obiettivi politico-economici: primo, quello di assicurare alla Germania le importazioni necessarie per gli armamenti, per i bisogni fondamentali dei consumatori tedeschi, e per la costituzione di riserve di guerra; secondo, quello di creare per la Germania, nell’Europa sud-orientale, una zona di dominio politico-economico che doveva agire anzitutto come ulteriore salvaguardia contro il pericolo di blocco in caso di guerra. Non si può negare che questi due obiettivi siano stati raggiunti.

Sebbene, dal 1934 fino allo scoppio della guerra, la deficienza di materie prime costituisse uno dei maggiori, se non il massimo problema economico per i nazisti, la politica di acquistare le importazioni necessarie ovunque fosse possibile, quasi senza tenere conto del prezzo e sacrificando inesorabilmente le importazioni “non essenziali” di beni di consumo a favore delle materie prime indispensabili[13] mise la Germania in grado non solo di soddisfare i bisogni normali dell’industria, ma anche di accumulare una massa sconosciuta, ma certamente considerevole, di riserve di guerra.  p. 318-319

Nella sua qualità di acquirente di metà delle eccedenze dei loro prodotti e di fornitrice di metà delle eccedenze dei loro prodotti e di fornitrice di metà delle loro importazioni , la Germania si era assicurata un predominio economico su questi paesi dal quale essi non potevano liberarsi, tanto più che, almeno fino al 1938, i concorrenti della Germania non furono in grado di dare loro alcuna assistenza concreta sotto forma di mercati, di crediti e di armamenti. La controffensiva economica britannica, quando giunse, nel 1938, conseguì un certo successo solo nei confronti della Turchia. In Romania, in Ungheria e in Bulgaria – e in misura minore in Jugoslavia e in Grecia – la penetrazione economica, abbinata con la pressione politica e militare, allo scoppio della guerra, mise in grado la Germania di adattare le economie di questi paesi alle proprie esigenze, sia economiche che politiche. P.319-320

E questo non è tutto: la deviazione degli acquisti di certi particolari prodotti verso nuove fonti di rifornimento significò che la Germania dovette accettare prodotti di qualità peggiore o migliore di quella di cui essa effettivamente aveva bisogno e materiali che richiedevano un costoso adattamento da parte del macchinario tedesco. Entrambi questi fattori devono essere tenuti presenti nel valutare il costo del bilateralismo[14].

Come abbiamo visto, i nazisti si sforzarono di ridurre questo costo al minimo, impostando l’intero commercio estero tedesco sulla base di un monopolio discriminatorio. Sfruttando ogni occasione offerta dalla sua maggiore potenza contrattuale sostenuta dalla pressione politica, per ottenere le migliori condizioni possibili, in ogni singola transazione o nel commercio interno con qualsiasi paese, e compensando le perdite in un campo con i guadagni in un altro, la Germania fu certamente in grado di ridurre il “costo” del bilateralismo e di migliorare considerevolmente le proprie condizioni commerciali. Però qualsiasi valutazione quantitativa è impossibile non solo per l’incredibile intrico di un sistema basato su molteplici e differenti corsi di cambio, su prezzi differenziali, su sussidi e su centinaia di altri espedienti, ma anche perché è impossibile conoscere e praticamente impossibile calcolare quali sarebbero state le condizioni se la Germania non avesse fatto uso della discriminazione. Si può pensare che i guadagni tratti dalla discriminazione abbiano effettivamente superato i costi del bilateralismo. Un giudizio più attendibile è che quella discriminazione abbia semplicemente ridotto questi costi in misura considerevole. p. 325-326

Note:

[1] Il termine Aski fu conservato per gli accordi tedeschi di clearing con le repubbliche sud-americane. Però questi accordi erano veri accordi di clearing, in base ai quali, il corso dei cambi era fissato contrattualmente e saldi considerevoli non di rado si accumulavano.

[2] I primi accordi tedeschi di clearing nacquero in effetti, da un lato, dagli sfori della Germania stessa durante il 1932 per ottenere il pagamento dei debiti commerciali accumulati in favore dei suoi esportatori dai paesi dell’Europa sud-orientale operanti sotto ilo controllo dei cambi; e dall’altro, dagli sforzi dei paesi creditori dell’Europa occidentale durante il 1934 diretti a salvaguardare gli interessi dei loro cittadini contro la minaccia dell’inadempienza della Germania rispetto ai debiti esteri, istituendo conti di clearing e accantonando una porzione del ricavato delle esportazioni germaniche per il pagamento dei debiti. Perciò entrambi i tipi ebbero la loro ragione d’esser, originariamente, in considerazioni più finanziarie che commerciali.

[3] Fu questo dilemma, violente oscillazioni di cambio o controllo diretto del commercio, che indusse un certo numero di paesi a commercio libero, come la Gran Bretagna, a insistere su una forma modificata di accordi di clearing, definita accordi di pagamento, la quale richiedeva il controllo di Stato sul commercio in uno solo dei due paesi. In base all’accordo di pagamento anglo-tedesco, la Germania si impegnò a regolare le sue importazioni dalla Gran Bretagna di mese in mese, sulle importazioni britanniche dalla Germania. Questo sistema rese possibile di provvedere alle importazioni britanniche sulla base del libero scambio, quantunque significasse che il volume del commercio anglo-tedesco veniva esclusivamente determinato dall’iniziativa inglese, che la Germania si limitava a seguire. Inoltre, come notammo precedentemente, l’accordo di pagamento anglo-tedesco non stabiliva la proporzione 1 a 1 tra le importazioni britanniche e quelle tedesche, ma una considerevole eccedenza delle seconde, il ricavato delle quali in parte era accantonato per il pagamento dei debiti, e in parte concesso alla Germania sotto la forma di cambio libero.

[4] Né, d’altra parte, come è stato qualche volta affermato, significava che il commercio di clearing escludesse la possibilità di eccedenze di esportazioni o di importazioni e rendesse così impossibile il pagamento dei debiti. Come abbiamo visto, molti accordi di clearing prevedevano che il pagamento dei debiti fosse finanziato con eccedenze di esportazioni.

[5] Effettivamente un accordo di clearing equivaleva alla reciproca concessione, da parte dei due contraenti, di prestiti o piuttosto di tratte allo scoperto, soggette a essere rimborsate sotto forma di esportazioni.

[6] Qualche tentativo di clearing a tre fu fatto, per es., nel 1939 tra Germania, Romania e Jugoslavia e, in forma più ristretta, tra Germania, Giappone e Grecia. Ma furono casi isolati che non assunsero mai grande importanza durante il quarto decennio del 1900.

[7] I debiti tedeschi di clearing verso i paesi balcanici effettivamente non furono mai molto grandi. Escludendo la Turchia, l’insieme dei saldi dei conti di clearing dei 5 paesi raramente superarono i 150 milioni di marchi, cioè il 10% del valore totale delle loro esportazioni. Ciò nonostante essi permisero alla Germania di conquistare un punto d’appoggio.

[8] L’importanza di avere almeno un altro mercato di sbocco è illustrata dagli effetti diretti che l’applicazione e l’abolizione delle sanzioni contro l’Italia ebbe sulle relazioni commerciali della Jugoslavia con la Germania. Nel 1935 le sanzioni contro l’Italia chiusero alla Jugoslavia il suo più importante mercato alternativo e la obbligarono ad aprire le porte alla prima offensiva commerciale tedesca. Quando nel 1936 le sanzioni furono ritirate, la Jugoslavia fu nuovamente in grado di insistere per un fiu favorevole corso del cambio nel suo accordo di clearing colla Germania (H.S. Hellis, op. cit. pp. 262 ss.)

[9] Un elemento di una certa importanza che favorì l’espansione commerciale della Germania fu il fatto che, data la distribuzione dei poteri politici in quasi tutti gli Stati balcanici, gli interessi dei produttori agricoli, che erano quelli che avevano maggiore bisogno di trovare mercati su cui collocare le loro eccedenze, generalmente prevalsero sui più deboli interessi degli industriali, i quali dovettero piegarsi.

[10] Così, nell’ottobre 1938, alla Turchia fu concesso un credito di 150 milioni di marchi, che doveva essere rimborsato con prodotti del suolo turchi ; analoghi grandi crediti furono concessi nel 1938 e nel 1939 alla Polonia, ala Bolivia e all’Argentina (H.C. Hillmann, Analysis of Germany’s Foreign trade and the War, Economica, febbraio 1940, p. 79).

[11] Nel 1939 un osservatore indipendente arrivò alle seguenti conclusioni che possono sostanzialmente essere accettate. “È vero che la Germania è stata riluttante ad aiutare l’industrializzazione di questi paesi fornendoli di macchine che non potevano ottenere altrove. Ma questo non è stata in effetti la cosa di maggiore importanza. È anche vero che occasionalmente ci sono stati lunghi ritardi da parte della Germania nell’eseguire le ordinazioni (per es. di alluminio o di impianti elettrici), e che la qualità dei tessili germanici, delle macchine e di altre merci è venuta peggiorando durante gli ultimi anni – tendenza che equivale a un aumento dei prezzi. Ma, considerando le cose nell’insieme, la Germania, fino a questo punto, ha praticato prezzi di concorrenza per i suoi prodotti, a parità di qualità, - tanto che in certi casi ha lasciato supporre un dumping sovvenzionato, - e non ha molto ridotto i generi di merci che è disposta a vendere“ (R.I.I.A., South-Eastern Europe, pp. 196 ss.).

[12] Questo accordo contemplava piani dettagliati per la riorganizzazione dell’economia romena, l’intensificazione della produzione dei foraggi, dell’olio di semi e delle piante tessili, della cultura di nuovi raccolti, lo sfruttamento scientifico delle foreste romene, miglioramenti tecnici nelle miniere, nelle comunicazioni e nei servizi pubblici, tutto da eseguirsi e finanziarsi da società germano-romene, sotto la guida di esperti tedeschi. Come si vede, uno schema di sviluppo coloniale scientifico a lunga portata.

[13] Il punto fino al quale questa politica fu condotta è riflesso nello scarto tra il volume delle importazioni tedesche di prodotti finiti e quello delle importazioni di materie prime e di prodotti semi-lavorati. Tra il 1932 e il 1938 la quota dei primi si ridusse dall’8.3% al 5.6%; mentre la quota degli altri salì dal 47.2% al 52%. Un interessante riflesso sulla politica agraria nazista è il fatto (in parte giustificato però dall’importazione di riserve di guerra) che la quota dell’importazione di prodotti alimentari aumentò tra il 1933 e il 1938 dal 38.7% al 41.2% (H. S. Ellis, op. cit., p. 381).

[14] Per citare ancora l’esempio del cotone, il fatto che i cotoni egiziano e brasiliano erano di qualità differente dal cotone americano, fece aumentare i costi della produzione tessile tedesca. L’alta qualità del cotone egiziano lo rendeva più caro e quindi aumentava direttamente i costi: mentre il più ordinario cotone brasiliano faceva aumentare i costi perché richiedeva cambiamenti del macchinario tessile tedesco e abbassava la qualità dei prodotti finiti.