mercoledì 4 gennaio 2012

Treviso, si suicida un altro imprenditore


Treviso, si suicida un altro imprenditore
‘Veneto Stato’ contro Equitalia: “Strozzini”
Dopo la morte di Giovanni Schiavinato, i membri dell'organizzazione separatista veneta protestano contro l'agenzia di riscossione delle tasse: "Ce l’abbiamo con i parlamentari giù a Roma. Se la situazione è diventata questa, per cui c’è gente che dopo aver lavorato una vita e che per un debito irrisorio perde addirittura la casa, la colpa è solo loro”
Al grido di “assassini” rivolto a impiegati e funzionari asserragliati all’interno, un centinaio di attivisti di ‘Veneto Stato’ ha manifestato con cartelli e striscioni (“strozzini di stato italico”) non proprio amichevoli di fronte alla sede Equitalia di Treviso. L’ultima goccia a far tracimare la protesta fiscale è stato il suicidio di Giovanni Schiavinato, imprenditore di 71 anni di Montebelluna allontanatosi martedì 27 dicembre e ritrovato morto il 30 sera a Longarone (Belluno). Schiavinato, si è gettato in un fiume di montagna con le tasche piene di pietre proprio nel giorno in cui la sua casa andava all’asta. Aver tentato la fortuna anche in Cina, seguendo gli ultimi dettami dell’imprenditoria nordestina che non  si ferma mai, non si era rivelato salvifico e i debiti e la conseguente depressione hanno fatto il resto. Anche in sua memoria ardeva uno della decina di lumini accesi di fronte all’ingresso dell’esattoria. Ma quella dei suicidi, è una macabra conta per difetto.

“Da un conto sommario abbiamo contato almeno 53 suicidi a partire dal 2008” raccontano rabbiosi i ‘venetisti’. Di questi, una ventina sono avvenuti negli ultimi dodici mesi nel solo trevigiano. E trevigiani erano tre degli ultimi quattro imprenditori che si sono tolti la vita nel corso del solo ultimo mese. Numeri da allarme sociale e come tale trattati anche dalla potente Unindustria Treviso che già mesi fa aveva diffuso un appello sui giornali locali invitando i propri associati a non nascondersi e a coinvolgere la stessa associazione nei propri problemi personali. Un’associazione artigiana ha addirittura costituito un team di supporto di psicoterapeuti, anche se “la risposta migliore rimane sempre quella di rafforzare la rete di tenuta economica attorno alle imprese con finanziamenti ad hoc”, dice Mario Pozza della Confartigianato. Nonostante gli appelli e gli aiuti è spesso il sentimento di vergogna a prevalere, anche perché il motto che “fallire nel lavoro equivale a fallire nella vita” è duro a morire nella mentalità di un’imprenditoria orgogliosa di essersi fatta da sé e che vede crollargli il mondo addosso.

“Clienti che non pagano, le banche che chiudono i rubinetti, mentre i debiti, quelli sì, corrono sempre e non dormono mai. Come Equitalia”, ammoniscono i ‘venetisti’ già organizzatori di manifestazioni alle concerie di Arzignano (Vicenza), Verona e Padova. Più che con Equitalia e i suoi uomini “che sono il braccio operativo, lo strumento e ci dicono che loro eseguono solo gli ordini”, gli indipendentisti raccontano che ce l’hanno con “i parlamentari giù a Roma. Se la situazione è diventata questa, per cui c’è gente che dopo aver lavorato una vita e che per un debito irrisorio perde addirittura la casa, la colpa è solo loro”. Colpa di aver portato gli animi all’esasperazione “massima, come la tassazione ormai insostenibile”, dichiara il segretario di ‘Veneto Stato’ Lodovico Pizzati, costruendo un castello di leggi “forti con i deboli e deboli con i forti. Per cui, se hai un debito anche solo di poche centinaia di euro, Equitalia ti porta al fallimento pignorandoti quegli stessi macchinari che ti servirebbero per rimetterti in carreggiata. E magari hai anche dei crediti che però non puoi compensare. Senza dimenticare poi che spesso è questo stesso Stato, così rigoroso e fiscale nel chiedere senza valutare le diverse situazioni, il primo ad essere inadempiente nei pagamenti”. Parole che negli ultimi mesi hanno attraversato l’Italia da Nord a Sud, isole comprese. “Sì, ma in Sicilia non c’è Equitalia. C’è Riscossione Sicilia‘ partecipata dalla Regione”. Quindi cosa cambia? “Che anche noi dobbiamo farci qui la nostra ‘Equiveneto‘”.

Credito perverso prima della nazionalizzazione delle banche


MUTUO SENZA SOCCORSO 
Paola Zanca per "Il Fatto Quotidiano"
Banca IntesaBANCA INTESA
La responsabile Mutui della filiale Cariparma si alza in piedi. Si allunga verso l'altro lato della scrivania, prende le mani di quella giovane che le sta davanti: "Mi dispiace, cara". Le ha appena detto che il prestito per comprare casa se lo può scordare. Lei era entrata lì dentro solo per farsi un'idea sull'ammontare dell'anticipo. D'altronde, che altri intoppi ci potevano essere? È una ragazza fortunata: ha 31 anni, un contratto a tempo indeterminato, guadagna 1800 euro al mese. E con il nuovo anno ha deciso: si compra una casa. Certo, vive a Roma, dove ogni metro quadrato si paga oro. Ma anche gli affitti sono esorbitanti: basta buttare via soldi, pensiamo al futuro. Se non ora quando? Mai, a quanto pare.
La dipendente di Cariparma capisce che può sbrigarsela in pochi minuti: quella che ha di fronte è una che non ha capito in che mondo siamo finiti. "Non è più come fino a due anni fa. Io lo dico a tutti che è difficile: le banche i mutui non li danno più". Insistere? "Dunque: noi finanziamo fino al 60 per cento del valore dell'immobile.
La rata non può superare il 30 per cento dello stipendio. Lei quanto guadagna? Di quanto ha bisogno? Ecco, non ci siamo proprio". Non le è servita nemmeno la calcolatrice. "Non solo non è il momento, non so se ha letto i giornali - insiste nervoso il volto di Cariparma -. Ma poi se parte con una richiesta così, deve averne già quasi la metà". La nostra 31enne, ovvio, non ha un euro di risparmi. E le sue non sono richieste esorbitanti, considerato il contesto di Roma.
monte dei paschi di sienaMONTE DEI PASCHI DI SIENA
Con 150 mila nella Capitale si possono portare a casa al massimo 35 metri quadri a Torpignattara: un bilocale a Centocelle (terzo piano senza ascensore) tocca già i 180 mila. Cinquantotto metri quadri a Trigoria (altezza Grande Raccordo Anulare) sfiorano i 220 mila euro. Se vuoi avvicinarti un po' alla città, a Garbatella ti servono 250 mila euro per un monolocale di 40 metri quadri. E arrivi a 300 mila se osi chiedere 75 metri quadri (da ristrutturare) a Cinecittà o 60 metri quadri al Pigneto con vista tangenziale. Eppure in banca se aspiri a non vivere come un criceto in gabbia chiedi "troppo". "Settanta metri? O ti trovi qualcosa di più piccoletto...". O devi avere almeno la metà, lo ha già spiegato. "Ti sarai fatta un giro nelle altre banche, no? Te l'avranno detto, no?".
Alla filiale di Banca Intesa ha parlato con una signora che l'ha guardata per tutto il tempo come fosse sua madre. Brava, una giovane che si dà da fare, eccoli qua i nostri ragazzi, altro che bamboccioni. Ma l'entusiasmo è durato poco. 200 mila euro? "In 40 anni, tasso fisso del 6,40, anticipo zero... Rata da 1156 euro al mese, non è fattibile". Variabile? "Tanto la fattibilità si calcola sul tasso del fisso..." Alternative? "Un co-intestatario o una fidejussione: con mio figlio sono intervenuta io - ammette la bancaria - altrimenti non l'avrebbe mai preso".
Bisogna rassegnarsi: se uno stipendio da 1800 euro non basta nemmeno nella banca che concede mutui al 100 per cento, figuriamoci nelle altre, dove serve un 20 per cento di anticipo.
Mamma e papà, aiutatela. "Un genitore, una zia, una sorella?", chiedono all'Unicredit. Anche qui la donna allo sportello sciorina l'albero genealogico. "Anche se lei ha un reddito alto dovrebbe co-intestare o trovarsi un garante".
contratto_di_mutuoCONTRATTO_DI_MUTUO
La nostra 31enne pensa di avere l'età per ballare da sola: "Lo capisco, ma allora deve avere una cifra iniziale più alta: noi finanziamo l'80 per cento, con il suo reddito possiamo concederle al massimo una rata da 585 euro... quindi siamo sotto i 100 mila euro di prestito: lo so, non ci compra niente". Che pessimisti. Le agenzie immobiliari dicono che con quella cifra la nostra dipendente a tempo indeterminato può intestarsi una "piccola costruzione 20 mq con pergolato" messa in piedi in una terrazza del Labaro, oppure un "seminterrato di 27 mq in via Gradoli", frequentatissima dai clienti dei transessuali romani.
Allo sportello del Monte dei Paschi di Siena il preventivo non lo provano nemmeno a fare: "Per carità, una richiesta formale si può presentare sempre, non voglio scoraggiarla. Sto solo cercando di essere realista". E il realismo dice che "siamo in una fase in cui la banca ha difficoltà a erogare il credito". In compenso, non mancano i consigli. A lunga ("Sia ottimista per il futuro") e a breve scadenza ("Cominci a mettere da parte una quota di reddito in vista di un momento migliore"). Ma nel frattempo l'affitto con che "quota di reddito" lo paga?
MUTUOMUTUO
Alla Deutsche Bank le condizioni sono più o meno le solite: finanziamento massimo dell'80 per cento, rapporto tra rata e stipendio che non può superare il 30 per cento. "Già al 30,1 ce lo bocciano" spiega la consulente per far capire come ragionano i tedeschi. Attenzione: il reddito lo calcolano sull'ultimo anno. Se il contratto te l'hanno appena fatto, non vale nemmeno la pena di mettere piede in filiale. Lei comunque parte fiduciosa: "Proviamo con 240 mila euro". Il terminale quasi esplode: con un mutuo di 25 anni, la rata inciderebbe sul 73 per cento del suo stipendio. Si ridimensiona all'istante: "Proviamo con 120 mila", la metà. Niente da fare: "711 euro al mese, non ci siamo. Il punto è che non vogliamo affamare il cliente".
"Proviamo a spalmarli su 30 anni". Macché. Quei 120 mila che dovrebbe restituire da qui al suo sessantunesimo compleanno sono ancora troppo pesanti per la sua busta paga. "Niente, dobbiamo scendere ancora: dunque, 100 mila, per 30 anni...ok, ci siamo! 541 euro, è lo 0,28". E la casa? Con quella cifra le rimane solo il seminterrato di via Gradoli... "È il massimo a cui posso aspirare?". "Eh già. Oddio, c'è sempre l'ipotesi di vincere al Superenalotto".

La rinascita dell'Argentina


Argentina, la rinascita in dieci anni
di Filippo Bovo - 03/01/2012

Fonte: statopotenza 

Il tempo vola. Sono passati ormai più di dieci anni da quando l’Argentina, per usare le grate parole di Fidel Castro, precipitò il modello economico neoliberista nelle più remote profondità del prospicente Oceano Atlantico. In due giorni, fra il 19 ed il 20 dicembre 2001, l’allora presidente Fernando De La Rua, “liberalsocialista” eletto due anni prima nelle fila dello storico Partito Radicale, se la dovette svignare dal tetto della Casa Rosada a bordo di un elicottero, dopo aver ordinato un’inutile repressione a suon di mitragliate contro la folla in piazza, con un bilancio di oltre quaranta vittime ed i cui effetti furono soprattutto quelli di gettare ulteriore benzina sul fuoco. Proprio come le sollevazioni di Caracas del 1992 contro le austerità indette dal presidente Carlos Andrés Pérez (Caracazo), di Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco in Messico nel ’68 o di Bogotà alla fine degli Anni Quaranta (Bogotazo): tutti episodi che insanguinarono la storia latinoamericana della seconda metà del Novecento con migliaia di vittime.
A causare l’insurrezione di Buenos Aires erano stati i “consigli” del FMI, culminati in una vera e propria serrata (“corralito”) dei conti correnti e dei bancomat: cosa che impedì non solo al proletariato ed al sottoproletariato ma anche al fino ad allora benestante ceto medio urbano di mantenersi da vivere, provvedendo al pagamento delle più elementari spese quotidiane. Era l’epilogo di una storia cominciata quasi cinquant’anni prima, col golpe del 1955 che aveva destituito Peròn consegnando il paese all’arbitrio ed al saccheggio da parte del FMI e del grande capitale nordamericano, in combutta con una classe politica locale neoliberale e pronamente filostatunitense. In una drammatica, caotica e “mimetica” alternanza fra tre dittature militari (di cui l’ultima, la più fatale, quella del cosiddetto “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, dal 1976 al 1983), che provocarono oltre 30.000 desaparecidos, e governi “democratici” (ma oltremodo complici, disponibili e tolleranti sia verso le altre dittature militari e reazionarie del Continente sia verso i gruppi fascisti, terroristi e paramilitari attivi nel paese, per non parlare poi dell’impunità concessa ai militari dalle mani lordate di sangue), l’Argentina cambiò completamente volto. Se sotto Peròn era una delle prime dieci economie al mondo, con una crescita robusta, piena occupazione ed enormi riserve valutarie, 46 anni più tardi l’Argentina era invece il paese dei record negativi con il 71% di bambini sottonutriti nelle province più povere, il tasso di disoccupazione al 42% ed il debito pubblico procapite più alto al mondo. A causa della parità fra peso e dollaro le attività manifatturiere erano state spazzate via dalla concorrenza dei prodotti nordamericani, mentre le massicce privatizzazioni avevano liquidato un immenso patrimonio pubblico (scandaloso, per esempio, fu il caso dell’industria petrolifera di Stato, letteralmente regalata e frammentata fra sciacalli stranieri: si veda il bellissimo documentario “Diario del saccheggio” di Fernando Solanas, del 2003). Sempre sotto il camaleontico Menem la televisione commerciale e spazzatura aveva assunto il monopolio nella vita culturale, ergendosi a formidabile arma di distrazione di massa con cui distrarre e disinteressare la popolazione dal costante peculato e dalla crescente corruzione portati avanti dall’intera classe politica. Alle classi più povere si vendevano i sogni ed i miraggi di un’irraggiungibile società dei consumi e della ricchezza, un vero e proprio stordimento culturale, mentre nelle classi medie si fomentavano le solite paure del “socialismo” così funzionali ad avvincerle e convincerle a votare perennemente le destre e le sinistre liberali e liberiste serve del FMI e del consenso di Washington. In questo modo uno dei paesi più progrediti dell’America Latina e del mondo, non solo tecnicamente ed economicamente ma anche culturalmente, era stato completamente razziato, deturpato e dilapidato.
La caduta di De La Rua e del suo superministro dell’economia Domingo Cavallo (presidente del Banco Centrale sotto la dittatura dal 1976 al 1983) consegnò dunque il paese ad una fase rivoluzionaria, che non tardò ad essere guidata da quei giovani della sinistra peronista verso cui le squadriglie neofasciste della AAA (Alianza Anticomunista Argentina) ed il Processo di Riorganizzazione Nazionale negli anni Settanta avevano dedicato molto del loro zelo omicida. Tra questi emersero rapidamente Nestor Kirchner e successivamente sua moglie Christina Fernandez, che attraverso una cauta ma ferma politica redistributiva ridussero i livelli di povertà sociale di tre quarti rispetto agli anni Novanta. Il 2 gennaio 2002 l’Argentina aveva dichiarato il default sulle sue obbligazioni internazionali, ammettendo ovvero la propria impossibilità nel far fronte a tutti gli impegni economici contratti presso gli altri Stati. Per mesi il paese si ritrovò economicamente bloccato, ma a partire dal 2003 riprese a crescere con ritmi pari al 7%, presto elevati al 10% (la più forte crescita economica al mondo dopo quella cinese).
La riscossa e la rinascita dell’Argentina (parlare solo di “ripresa” sarebbe oggettivamente riduttivo) sono indubbiamente frutto di una serie di circostanze difficilmente ripetibili, almeno in termini geopolitici e congiunturali. Pensiamo ad esempio al fortissimo aumento del costo delle materie prime, che ha permesso al paese di rilanciare il settore agricolo in tempi molto rapidi, facendone una delle principali locomotive della propria economia. Ma vi sono anche altri fattori, come l’affacciarsi della Cina quale nuovo partner di riferimento strategico in sostituzione degli Stati Uniti e la partecipazione insieme al Brasile di Lula e al Venezuela di Chavez al processo d’integrazione latinoamericana. La chiave di volta, da questo punto di vista, è stata sicuramente l’incontro di Mar del Plata del 2005, che ha visto l’asse Argentina-Brasile rifiutare sdegnosamente il Trattato di Libero Commercio fra Stati Uniti e paesi latinoamericani (ALCA). Con questo progetto, caldamente sostenuto dall’amministrazione Bush, gli Stati Uniti puntavano a trasformare l’intera America Latina nella loro manifattura a basso costo (esattamente come già avviene col Messico attraverso il NAFTA), l’ideale per arginare la competitività cinese con un secolo di nuove ingiustizie per tutti i cittadini sud e centro americani. L’anno dopo, col sostegno politico ed economico venezuelano, insieme al Brasile l’Argentina chiuse definitivamente i propri conti col FMI con la storica frase “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”. La crescente cooperazione con i nuovi governi progressisti latinoamericani (Bolivia, Nicaragua, Paraguay, Ecuador e via dicendo) e la reazione ferma contro i golpe in Honduras ed Ecuador (quest’ultimo fortunatamente fallito) hanno infine ulteriormente cementato il processo d’integrazione del Continente, restituendo all’Argentina quella statura internazionale persa ormai da decenni.
Lo Stato, smembrato, spogliato e privatizzato negli anni delle dittature e di Menem, ha recuperato il proprio ruolo nella società e soprattutto le sue responsabilità dinanzi ai cittadini. L’acqua, le poste, le linee aeree e i servizi scolastici e sociosanitari sono stati rinazionalizzati, mentre hanno visto la luce nuovi progetti in campo sociale e culturale finalzzati ad elevare il livello di vita della popolazione, anche in sinergia con gli altri paesi latinoamericani. Importanti, inoltre, i provvedimenti assunti a tutela dell’ambiente, della parità di genere e delle diversità, cosa quanto mai importante in uno dei paesi probabilmente più eterogenei e sfaccettati (culturalmente, religiosamente e socialmente) del mondo.
Il “rinascimento” argentino è passato anche attraverso una rivalorizzazione della cultura, tanto necessaria quanto irrinunciabile visto il degrado a cui i media erano giunti sotto Menem: le trasmissioni commerciali, un tempo il 100% dell’offerta “culturale” televisiva di tutto il paese, sono state ridotte ad un terzo. Per due terzi i media debbono occuparsi, com’è giusto che sia, d’argomenti sociali e culturali. Anche l’istruzione pubblica ha ricevuto un forte impulso, con gli stanziamenti più che triplicati (dal 2% al 6,5% del PIL: altro che Maria Stella Gelmini o Francesco Profumo!). Tutto ciò ha determinato un forte miglioramento del grado di senso civico, d’alfabetizzazione e di responsabilità politica e culturale di tutta la popolazione.
Questa è dunque l’Argentina di oggi: un paese che, ad onta delle tante perplessità dei media e degli intellettuali nostrani (disinformati ed in malafede, marci e malati fin nel midollo di quella cultura razzista che è l’eurocentrismo), ha saputo rialzare la testa. Un anno fa, dopo l’improvvisa morte di Nestor Kircher a seguito di un infarto, in tanti in Europa e Nord America predissero, probabilmente augurandoselo, un precoce ed incontrollabile crollo del “sogno neoperonista”. Sognavano il cedimento del mattone argentino augurandosi il crollo di tutto l’edificio latinoamericano, quindi brasiliano, boliviano, venezuelano, ecuadoriano e cubano; ed intanto, paghi della loro ignoranza che non li stimolava ad aggiornarsi e a guardare al di là delle loro strette barricate eurocentriche, continuavano a sguzzare nel cliché dell’Argentina da sfottersi in quanto stracciona. Sono rimasti, questi media, politici ed intellettuali “de noantri”, con un palmo di naso. L’Argentina ha continuato a crescere, in barba alle recrudescenze della crisi finanziaria globale che ha invece continuato a tormentare soprattutto quell’Occidente settentrionale da cui aveva avuto origine, e la “presidenta” Christina Fernandez da Kirchner è riuscita non soltanto a completare il suo mandato ma lo scorso 23 ottobre 2011 è stata persino rieletta dai suoi concittadini col 54% dei voti. Chissà se Obama, Cameron o Sarkozy potranno mai vantare una tale popolarità al prossimo giro…

Debito e sovranità: alcuni incontri per gennaio




In cantiere iniziativa a Torino per il 20 gennaio. Invitiamo chi della città e provincia sia interessato –e sia su facebook– ad iscriversi qui : http://www.facebook.com/profile.php?id=100003313628065&sk=wall

Equitalia, strozzinaggio legalizzato ?


Equitalia ha quello che si merita?
di Sara Santolini - 03/01/2012

Fonte: il ribelle 
  
   
Nonostante gli attacchi vandalici a Equitalia sembrino poco più che un maldestro tentativo di screditare la lotta dei cittadini contro quello che è ormai il suo strozzinaggio legalizzato, a (quasi) nessun italiano ha fatto veramente dispiacere venire a conoscenza delle buste sospette recapitate all’azienda più odiata d’Italia. E meno trasparente. 

Tutto il Paese sa che dietro la facciata della riscossione dei debiti si nasconde una s.p.a. che lucra clamorosamente sulla pelle dei cittadini. E, di solito, di quelli onesti e magari in difficoltà. Da Nord a Sud la protesta contro di essa non accenna ad attenuarsi, nonostante i giornali ci tengano a sottolineare un pubblico disdegno, per le buste intimidatorie, che nella realtà non esiste. 

Contro Equitalia non c’è gente che non vuole pagare quello che deve. Si tratta al contrario di cittadini che vogliono veder riconosciuti i propri diritti. L’azienda, che esercita la riscossione dei tributi sull’intero territorio nazionale, è accusata di ogni tipo di violazione delle norme inerenti il suo compito. 

Innanzitutto è affetta da una lentezza amministrativa che sembra tutt’altro che non voluta, visto che lascia regolarmente aumentare gli interessi nonostante la colpa della tardiva notifica delle cartelle dipenda solo da essa. Tale inefficienza è tale da creare una vera e propria mancanza di comunicazione col debitore, che può trovarsi ad avere un’ipoteca sulla casa senza esserne a conoscenza, e che lo priva di fatto del diritto di ricorrere a mezzi legali per risolvere il problema. In secondo luogo gli interessi che applica sono praticamente da usura, al 9%. In terzo luogo Equitalia ricorre al pignoramento dei beni mobili e immobili dei debitori con una facilità e per delle cifre talmente modeste da incorrere nella sistematica violazione delle norme europee a riguardo, oltre che di quelle nazionali. E la situazione è talmente grave e palese che lo stesso Monti ha deciso di dare un minimo di segnale di cambiamento, con l’emendamento alla manovra “Salva Italia” che prevede sia lo Stato a stabilire la percentuale che Equitalia percepirà per il suo servizio, portandola al di sotto del livello attuale.

Intanto le associazioni cercano di fare più informazione possibile, e di dare ai contribuenti vessati dalle cartelle esattoriali un sostegno. Tanto più che l’azienda, da parte sua, fa orecchie da mercante. Come sottolineato da Marco Paccagnella, presidente di Federcontribuenti Veneto che ha organizzato una protesta oggi stesso contro l’azienda, «la risposta di Equitalia ad una richiesta di civile confronto è la barricata dietro gli sportelli». Inoltre «la società sembra aver male interpretato il senso delle festività natalizie, incrementando il numero di cartelle spedite ai cittadini». Che spesso, nemmeno a dirlo, hanno un intestatario errato o sono la richiesta di pagamenti non dovuti o già effettuati, forse inviati nella speranza che chi le riceve non abbia tempo, soldi o informazioni per gestire un ricorso o ancora abbia più paura di affrontare un pignoramento o un’ipoteca che volontà di far valere i propri diritti. E intanto l’azienda continua a inviare cartelle dubbie, mostrare inefficienza amministrativa, tassi di interesse altissimi, violazioni delle norme comunitarie e nazionali riguardo le modalità di pignoramento dei beni dei debitori. Dov’è lo sdegno per tutto questo? 

Gli Stati disuniti: usurati dalle banche impunemente


Perché gli stati devono pagare 600 volte più delle banche?
di Michel Rocard e Pierre Larrouturou - 03/01/2012

Fonte: Come Don Chisciotte
 
   
Sono cifre incredibili. Si sapeva già che, alla fine del 2008, George Bush e Henry Paulson avevano messo sul tavolo 700 miliardi di dollari (540 miliardi di Euro) per salvare le banche americane. Una somma colossale. Ma un giudice americano ha recentemente dato ragione ai giornalisti di Bloomberg che domandavano alla loro banca centrale di essere trasparente sull'aiuto che essa stessa aveva dato al sistema bancario.
Dopo aver spulciato 20.000 pagine di documenti diversi, Bloomberg mostra che la Federal Reserve (FED) ha segretamente prestato alle banche in difficoltà la somma di 1.200 miliardi al tasso incredibilmente basso dello 0,01 %. 

Nello stesso momento, in molti paesi i popoli subiscono piani di austerità imposti da governi a cui i mercati finanziari non accettano di prestare miliardi a tassi di interesse inferiori al 6,7 o al 9%! Asfissiati da tali tassi di interesse, i governi sono “obbligati” a bloccare pensioni, sussidi familiari o salari dei dipendenti pubblici e di tagliare gli investimenti, e ciò fa aumentare la disoccupazione e presto ci farà sprofondare in una recessione molto grave.
É normale che in caso di crisi, le banche private, che si finanziano abitualmente all'1 % presso le banche centrali, possano beneficiare di tassi allo 0,01 % mentre certi Stati sono al contrario obbligati a pagare tassi 600 o 800 volte più elevati? “Essere governati dal denaro organizzato è tanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato”, affermava Roosevelt. Aveva ragione. Noi stiamo vivendo una crisi del capitalismo non regolamentato che può rivelarsi un suicidio per la nostra civilizzazione. Come affermano lo scrittore Edgar Morin e Stéphane Hessel in Le Chemin de l'ésperance (Fayard, 2011) [“I sentieri della speranza”, N.d.t.], le nostre società devono scegliere : la metamorfosi o la morte?
Aspetteremo che sia troppo tardi per aprire gli occhi? Aspetteremo che sia troppo tardi per capire la gravità della crisi e scegliere insieme la metamorfosi prima dello sfascio delle nostre società? Non abbiamo la possibilità qui di sviluppare le dieci o quindici riforme concrete che renderanno possibile questa metamorfosi. Vogliamo solamente dimostrare che è possibile dar torto a Paul Krugman quando spiega che l'Europa sta entrando in una “spirale negativa”. Come dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Come agire senza modificare i trattati, il che richiederà mesi di lavoro e diverrà impossibile, se l'Europa è sempre più detestata dai suoi cittadini?
Angela Merkel ha ragione nel dire che niente deve incoraggiare i governi a continuare la fuga in avanti. Ma l'essenziale delle somme che i nostri Stati prendono in prestito sui mercati finanziari riguarda vecchi debiti. Nel 2012 la Francia deve prender in prestito 400 miliardi: 100 miliardi che corrispondono al deficit del bilancio (che sarebbe quasi nullo se si annullerebbero i ribassi d'imposta concessi negli ultimi dieci anni) e 300 miliardi che corrispondono a vecchi debiti, che arrivano a scadenza e che siamo incapaci di rimborsare se non ci reindebitiamo per le stesse cifre qualche ora prima di rimborsarli.
Far pagare tassi d'interesse colossali per debiti accumulati cinque o dieci anni fa non aiuta a responsabilizzare i governi ma ad asfissiare le nostre economie facendo guadagnare le banche private; con il pretesto che ci sia un rischio, prestano a tassi molto elevati sapendo che non c'è alcun rischio reale, perché il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (ESFS) [“Fondo salva stati”, N.d.t.] garantirà la solvibilità degli Stati debitori.
Bisogna finirla con questa concezione del due pesi due misure: ispirandoci a quello che ha fatto la banca centrale americana per salvare il sistema finanziario, proponiamo che “il vecchio debito” dei nostri Stati possa essere rifinanziato a tassi vicini allo 0%.
Non c'è bisogno di modificare i trattati europei per metter in atto questa idea: certo, la Banca centrale europea (BCE) non è autorizzata a prestare agli Stati membri, ma può prestare senza limite agli organismi pubblici di credito (articolo 21.3 dello statuto del sistema europeo delle banche centrali) e alle organizzazioni internazionali (articolo 23 dello stesso statuto). Essa può dunque prestare allo 0,01 % alla Banca Europea degli Investimenti (BEI) o alla Cassa dei depositi ed esse, a loro volta, possono prestare allo 0,02 % agli Stati che si indebitano per rimborsare i loro vecchi debiti.
Niente impedisce di attuare tali finanziamenti fin da gennaio! Non lo si dice abbastanza: il bilancio dell'Italia presenta un'eccedenza primaria. Esso sarebbe dunque in equilibrio se l'Italia non dovesse pagare dei costi finanziari sempre più elevati. Bisogna lasciare che l'Italia affondi nella recessione e nella crisi politica o bisogna accettare di porre fine alle rendite bancarie private? La risposta dovrebbe essere evidente per chi agisce in favore del bene comune.
Il ruolo che i trattati attribuiscono alla BCE è di quello di vegliare sulla stabilità dei prezzi. Come può non reagire quando alcuni paesi vedono i rendimenti dei loro buoni del Tesoro raddoppiare o triplicare in qualche mese? La BCE deve anche controllare la stabilità delle nostre economie. Come può non agire quando il prezzo del debito minaccia di farci cadere in un recessione che, secondo il governatore della Banca d'Inghilterra, sarebbe “più grave di quella del 1930”?
Se ci si attiene ai trattati, niente impedisce alla BCE d'agire con forza per far abbassare il costo del debito. Non solo non ci sono ostacoli che le impediscano di agire, ma anzi, ogni elemento la spinge in questa direzione. Se la BCE fosse fedele ai trattati dovrebbe far di tutto per diminuire il costo del debito pubblico. É parere comune che l'inflazione sia la cosa più inquietante.
Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, è bastato un mese a Helmut Kohl, a François Mitterand e agli altri capi di Stato Europei per decidere di creare la moneta unica. Dopo quattro anni di crisi, cosa aspettano ancora i nostri dirigenti per dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Il meccanismo che proponiamo potrebbe applicarsi immediatamente, sia per diminuire il costo del vecchio debito che per finanziare gli investimenti fondamentali per il nostro avvenire, come ad esempio un piano europeo di risparmio energetico.
Quelli che richiedono la negoziazione di un nuovo trattato europeo hanno ragione: con i paesi che la vogliono bisogna costruire una Europa politica capace d'agire sulla globalizzazione: un'Europa veramente democratica come già la proponeva Wolfgang Schäuble e Karl Lamers nel 1994 o Joschka Fischer nel 2000. Occorre un trattato di convergenza sociale e una vera governance economica.
Tutto ciò è indispensabile. Ma nessun nuovo trattato potrà esser adottato se il nostro continente sprofonda in una “spirale negativa” e i cittadini iniziano a detestare tutto quello che viene deciso a Bruxelles. È urgente inviare ai cittadini un segnale molto chiaro : l'Europa non è nelle mani delle lobby finanziarie.
È al servizio dei suoi cittadini.
**********************************************

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da MORRO

In un anno 357 suicidi solo tra i disoccupati

CRONACA

La crisi ne ammazza 1 al dì

Ricerca Eures: in un anno 357 suicidi tra i disoccupati.


L'ultimo in ordine di tempo si chiamava Antonio Losciale. Si è tolto la vita impiccandosi nel box che utilizzava come deposito del suo piccolo negozio di climatizzatori di Trani. Gli agenti della polizia di Stato hanno cominciato a sentire persone informate sui fatti per capire in quali situazioni economiche si trovava e per accertare se aveva dovuto far ricorso a usura. In questo inizio di 2012 la lista degli italiani strangolati dalla crisi (leggi: La crisi che uccide) è sempre più lunga. Sono imprenditori, pensionati, ma anche disoccupati. Come nel caso di Tommaso, segnalatoci da un lettore. Figlio di quel Salento simbolo di divertimento e spensieratezza, 22 anni. Ha festeggiato il nuovo anno, ha ballato e salutato gli amici, poi, verso le 4 del primo giorno del 2012 si è ucciso nella campagna pugliese. Uno dei tanti giovani che l'Italia ha perso, lasciandoli senza scopo.
UN SUICIDIO AL GIORNO. E se ora queste morti hanno iniziato a fare notizia, il fenomeno è cominciato da tempo, nel silenzio. Secondo una ricerca dell'Eures, dal crollo finanziario del 2009 tra i disoccupati si è registrato un suicidio al giorno. Con un aumento quasi del 40% tra i disoccupati. L'istituto di ricerche economiche e sociali, in una ricerca relativa al 2009, già delineava un aumento record dei suicidi per motivi economici. E rilevava che a pagare questo prezzo sono sempre più gli uomini, più fragili rispetto alla perdita di ruolo determinata dal licenziamento.Sono stati 2.986 i suicidi commessi in Italia nel corso del 2009, anno in cui non era ancora evidente la portata della crisi economica, con un aumento del 5,6% rispetto all'anno precedente.
3 UOMINI OGNI DONNA. La scelta di farla finita è aumentata sia tra gli uomini che tra le donne, ma l'incidenza della componente maschile (78,5% contro il 21,5% di quella femminile) ha raggiunto già nel 2009 il valore più alto mai registrato negli ultimi decenni, con un indice di mascolinità pari a 364,4 suicidi compiuti da uomini ogni 100 femminili. Privati del lavoro, senza autonomia economica, gli uomini più facilmente sentono smarrita la loro identità, si perdono.
Il peso della componente economica, secondo l'indagine, è chiaro: sono stati infatti 357 i suicidi compiuti da disoccupati nel 2009, con una crescita del 37,3% rispetto al 2008. Nel 76% dei casi si tratta di persone espulse dal mercato del lavoro (76%). Anche in termini relativi appare evidente come il lavoro costituisca un vero e proprio discrimine: nel 2009 si sono registrati 18,4 suicidi ogni 100 mila disoccupati contro 4,1 suicidi tra gli occupati.
NEL 2009 198 VITTIME. Il numero dei suicidi per ragioni economiche hanno raggiunto nel 2009 il valore più alto degli ultimi decenni: 198 vite perse, con una crescita del 32% rispetto al 2008 e del 67,8% rispetto al 2007. In termini relativi, i suicidi per motivi economici sono arrivati a rappresentare nel 2009 il 10,3% dei casi «spiegati», nel 2000 la percentuale si fermava al 2,9%. In questa fascia  il 95% dei casi riguarda uomini. A livello generale, il suicidio è più diffuso tra gli anziani, e più al Nord che nelle altre aree del Paese, anche se nel Mezzogiorno si è registrata nel 2009 la crescita più consistente. Un altro drammatico segno: dove la crisi impatta di più, lì le vite vengono spazzate via.
Martedì, 03 Gennaio 2012