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lunedì 8 agosto 2011

I radicali scoprono il signoraggio...

Crisi finanziaria. I Radicali, il diritto, le riforme. Tre passaggi necessari
Agenzia Radicale, 07 agosto 2011

bertolini.jpgdi DANIELE BERTOLINI (*)

Come mai proprio in questa fase di acuta e clamorosa crisi politica, economica e finanziaria, a fronte del riproporsi di vecchie e inadeguate adunate consociative, i Radicali stentano a innervare una lotta politica ispirata ad una reale alterità di concezione, di metodi e di contenuti? Penso che le ragioni siano in gran parte da ricercare all'interno della vicenda radicale, in una soggettiva inadeguatezza del movimento, delle sue forme, del suo funzionamento.

La crisi finanziaria che si abbatte sul nostro Paese, come punto acuto della crisi di debito sovrano dell'Eurozona, impone oggi alla classe politica lo sforzo di elaborare risposte al fine di arginare la crisi e guadagnare lo spazio necessario ad un vasto programma di riforme economiche e sociali. Il riflesso automatico del regime dei partiti è quello di riproporre vecchi schemi consociativi che da sempre sono la via maestra adottata dal sistema dei partiti per scongiurare la approvazione di quelle riforme capacidi produrre importanti, diffusi e duraturi effetti benefici sull'economia italiana.

I Radicali, al contrario, sono da sempre portatori di una visione liberale del "conflitto",quale fermento sano della politica, attivatore di progetti politici alternativi e, sopratutto, come necessario antidoto alle tradizionali prassi trasformistiche che svuotano di contentuto riformatore le politiche economiche e sociali. Oggi, come ieri, di fronte alla radicalità oggettiva delle sfide che il sistema dei partiti e, diremmo,la democrazia si trova a dover governare, la risposta su cui pare convergere la politica italiana è quella della "solidarieta' nazionale", del "compromesso storico" delle formule del tipo "centro-sinistra".

Diversamente, nell'Italia della c.d. Prima Repubblica i radicali - da sempre storici avversari della tendenza politica verso un modello di società organicisitico - hanno saputo realizzare, tramite nuovi metodi di lotta politica e sulla base di una forte cultura maggioritaria, momenti alti di politica alternativa attraverso la pratica del conflitto nonviolento, referendario e su precise proposte di riforma legislativa.

A partire dagli anni ottanta la situazione italiana è caratterizzata dal peculiare connubio diuna profonda crisi dei canali di mediazione politica (e conseguente paralisi decisionale del sistema politico) e di un basso tasso di effettiva applicazione delle regole del diritto. In questo contesto, l'acellerarsi del declino economico è originato e alimentato da tre fattori dinamici: inefficienza della spesa pubblica, scarsa concorrenza nel settore dei servizi, insostenibilità dell'abnormestockdi debito pubblico.

Può sembrare una affermazione ardita, ma lo spazio politico dei radicali in questa situazione è oggettivamente assai ampio. Spesso è stato giocato con spregiudicata tenacia e inventiva capace di rompere regolarmente la chiusura oligarchica del regime di informazione. Su molti terreni siamo stati e continuiamo a essere di fatto i monopolisti dell'inizitiva politica liberale. Oggi di fronte ad una situazione per certi versi simile a quella vissuta nel 1992 i radicali possono e debbono interpretare un ruolo importate.

Dalla nostra parte milita la tradizione politica e di pensiero vincente, quella ernestorossiana, spinelliana, einaudiana e, ancor prima, della scuola pre-giolittiana di scienza delle finanze, che il regime dei partiti hamesso sistematicamente in minoranza negli assetti decisionali, di informazione e di potere, ma a cui la storia ha dato ragione a fronte delmanifesto collassopolitico ed economico dell'Italia post-partitocratica. Debito pubblico, Stati Uniti d'Europa, lotta ai monopoli e alle corporazioni sono iscritti con urgenza nell'agenda politica del Paese non più rinviabile.

Eppure il movimento pare non sempre capace di proporre al Paese una idendita' politica detonatrice di quell'alternativa liberale sul terreno economico e sociale che sola pare in grado di salvare il Paese dal baratro. Penso che la ragione vada ricercata in alcuni tratti salienti dei più recenti profili di iniziativa politiva. Penso che per dare continuità a quel filone politico riformatore, innervando puntuali e rigorose battaglie di diritto e libertà,occorre essere disponibili a considerare alcuni passaggi fondamentali.

È necessario passare da una concezione troppo spesso "statica" della legalita', appuntata sul riscontro e la denuncia delle infinite e gravi ipotesi di violazioni di legge ad opera dei pubblici poteri, ad una concezione "dinamica" della legalita', quale leva strategica per la riscossa politica ed economica della societa' italiana. In un contesto di concorrenza tra ordinamenti giuridici è vitale che la politica imprima un superamentodel divorzio tra le ragioni del diritto e quelle dell'economiaa livello legislativo, giurisprudenziale e costituzionale.

È infatti noto come i margini di operatività a livello nazionale di molti strumenti tradizionali di politica economica (cambio, spesa pubblica, tassi di interesse, moneta) si sono fortemente ristretti. In questo contesto la cornice normativa diviene sempre più uno strumento di politica economica. La concorrenza opera non piu' solo a livello di mercato dei fattori e dei prodotti, ma anche e in modo sempre più decisivo sul terreno delle regole che disciplinano l'interazione tra i soggetti ecconomici. Regole efficienti determinano vantaggi in termini di minori costi di transazione e di massima valorizzazione delle ragioni dello scambio.

I radicali ad oggi rappresentano l'unico soggetto capace di essere interprete e stimolatore politicodi questa nuova concezione del diritto. Sia chiaro rimane intatto e piu' che mai essenziale il ruolo del diritto quale strumento di garanzia delle libertà individuali, della vita delle persone e delle istituzioni,ma ad esso si affianca oggi una nuova dimensione, quella della regola quale fattore propulsivo di crescita economica.

La battaglia su carceri e amnistia condotta oggi da Marco Pannella insiemi a molti dirigenti radicali e' la solida rappresentazione di quanto la negazione del diritto non è mai mera violazione formale, ma e' destinata a incidere sulla carne viva delle vite individuali. Tuttavia, questo schema di nobile lotta politica rimane confinato nell'ambito della promozione di riforme prive di quella radicalità di cui il nostro sitema giudiziario ha necessita' per svegliarsi dal coma permanenente in cui versa.

L'amnistia è una soluzione emergenziale, di quelle con le quali non puo' risolversi ne' il problema carcere, ne' il problema giustizia. Del tutto fuori raggio rimane uno dei principali ostacoli alla internazionalizzaione della nostra economia: lo sfascio della giusitzia civile. È infine legittimo dubitare che l'amnistia costitutisca nei fatti il detonatore o la precondizione politica di una riforma strutturale della giusitiza penale e del sistema di esecuzione penale. Tendo a vedere l'opposto: prima le riforme poi l'amnistia e l'indulto come necessario disboscamento al fine di consentire l'avvio della applicazione di nuove regole.

Mentre il Paese sprofonda nel vortice di una pressione speculativa internazionale e di una crisi impressionante di produttività dei fattori e di competivita' delle imprese, il linguaggio degli economisti si arrichisce del concetto di "vulnerabilita" economica, inteso come la probabilita' di sperimentare episodi di poverta'. Secondo recenti proiezioni economiche, il 60% dei non-poveri del nostro paese, ha elevate probabilita' di sperimentare periodi piu' o meno prolungati di attraversamento della "zona" della povertà.

In questo contesto è compito dei radicali quello di imprimere un nuovo passo alle battaglia di libertà concentrandosi sull'unico obiettivo adeguato alla drammaticità della congiuntura storica: abolire la miseria, riformare radicalmente le strutture del capitalismo italiano. Su questo la voce e la forza politica dei radicali ernestorossiani è una risorsa di cui il Paese non può fare a meno, in questi giorni, in queste ore.

Il secondo passaggio di cui vedo l'urgenza, strettamente collegato a quanto precede, e' quello del superamento della retorica della "rivolta" che trova complemento necessario nella oramai assorbente pratica della "denuncia". La funzione storica dei radicali non è mai stata quella di agitare focolai di "rivolta, che finiscono per collocarci e confinarcisul trespolo dei "denunciatori" delle innumerevoli ipotesi di violazioni di legalità, come nobili e instancabili cercatori "a valle" dei detriti di un regime in via di sgretolamento.

Il carattere alternativo della politica radicale risiede nell'articolazione di un progetto di riforma che affronti i punti di massima crisi del problema istituzionale del nostro paese indicando come via di uscita un percorso riformatore nuovo e radicalmente alternativo rispetto alla sostanza oligarchica che avvelena la vita economica e civile italiana.

Il mutamento del quadro istituzionale è la premessa e lo strumento per il superamento dell'assetto oligarchico del sistema economico e si coniuga con una forte consapevolezza che ogni intervento di spesa approvato dal parlamento può, se non adeguatamente monitorato dalle istituzioni rappresentative, generare le premesse per la creazione di quell'area grigia tra politica ed economia che oggi garantisce inefficienti monopoli e privilegi che ostacolano la crescita economica delle nostre imprese.

Il nesso economia-istituzioni e' da sempre la cifra della proposta politica radicale. Già i radicali-liberisti di fine ottocento individuavano come condizione essenziale per il risanamento della vita pubblica una radicale riforma degli ordinamenti istituzionali.De Viti de Marco immaginava una riforma che cambiasse radicalmente la natura e ledinamiche del rapporto tra governo e governati, attraverso una trasformazione profonda del sistema di finanza pubblica e dei principi ispiratori del bilancio dello stato.

Maffeo Pantaleoni affermava che ogni intervento di spesapubblica, lasciando immutata la quantita'complessiva di mezzi disponibili, pone il problema di valutare non solo l'utilità intrinseca di quella spesa, ma la sua utilità comparata alla utilità' di altre egualmente possibili. In altre parole, il fine dell'intervento pubblico non è quello di avvantaggiare alcuni particolari gruppi sociali, ma di realizzare il ben del "maggior numero".

Il concetto benthamita di di maggior numero appare oggi ingenuo ma spiega la forte tensione morale che animava la tensione liberista contro il trasformismo politico della sinistra storica allora al governo. L'idea costitutiva del programma politco della scuola libersita di fine ottocento non era dunque un atteggiamento aprioristicamennte contrario all'intervento pubblico in economia.

Al contrario, il criterio politico di riferimento era quello della lotta contro il privilegio e della corretta definzione dellabase stessa di ogni politica di intervento pubblico. Ripristinare il funzionamento delle istituzioni rappresentative era la premessa perilsuperamento di una politica fiscale che opprimeva le classi piu' povere. In particolare, al centro delle polemiche radicali v'era un sitema di prelievo fiscale incentrato sull'imposizione indiretta che gravava per lo piu' sui consumi popolari e una ptotezionismo economico che imponeva l'odioso dazio sul grano.

Il terzo passaggio non più rinviabile riguarda la formazione della classe dirigente. Come regola generale, penso che i partiti dovrebbero far di tutto per potenziare la competizioneal loro interno. La concorrenza interna ai partiti è il presupposto su cui fondare l'apertura dei soggetti politici e, soprattutto, l'efficacia degli attori nel formulare un'offerta politica adeguata ad intercettare le numerose e continuamente mutevoli domande di governo delle nuove complessità.

È quindi illusorio pensare che soggetti politici che funzionano al loro interno secondo modelli di tipo oligarchico, o che adottano schemi di selezione e legittimazione della classe dirigente modellati sul tipo della cooptazione, possano contribuire a porre le basi di una società libera, aperta, competitiva e democratica. In breve: solo la concorrenza neipartiti può generare un'effettiva concorrenza tra i partiti, favorendo così lo sviluppo di consistenti quote di libertà, ricchezza e benessere meglio distribuite nella società.

Il movimento radicale è oggi organizzato su uno schema che solo le comprensibili esigenze della comunicazione politica legittimano a connotare come "galassia". Non v'e' un "centro di attrazione", ne' luoghi praticabili di dialettica politica, di concezione e confronto di progetti politici alternativi. Paradossamnete, quanto più le sfide oggettive che la globalizzazione ci impone sono "radicali", quanto piu' la dirigenza si trova nella impossibilita' di trovare un punto di sintesi su cui mobilitare il movimento, su cui praticare un linguaggio che aspiri a divenire linguaggio della militanza sul territorio e nelle istituzioni.

Questo è l'effetto involontario e assai dannoso di una condizione oramai strutturale di balcanizzazione del movimento e delle sue strutture, che produce frammentazione dell'offerta politica e confusione delle sue premesse analitiche e ideali. Il punto di massima crisi dell'iniziativa politica cade sul fronte che oggi e' al centro delle urgenze oggettive del Paese: l'economia. Il Paese ha bisogno urgente di riforme radicali istituzionali ed economiche, ma i radicali non riescono piu' a dire chiari si e chiari no su questo terreno.

Molti lavori di pregio sono stati compiuti su questo fronte: welfare to work, pensioni, debito pubblico, relazioni sindacali, universita' e scuola, capitalismo italiano, banche e signoraggio, etc. Ma nessuno di questi temi è divenuto tema centrale e condiviso di iniziativa politica. Occorre ridefinire i modi e le forme dello stare insieme e delineare un percorso di confronto e dibattito reale sui grandi temi che oggi sembriamo incapaci di affrontare e declinare in modo politcamente credibile.

(* membro della Direzione Nazionale Radicali Italiani)

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CHESNAIS: PROPOSTA DI MORATORIA SUL DEBITO

E se il modo di non pagare il loro debito

in realtà ci fosse?

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Scritto da François ChesnaisDomenica 07 Agosto 2011

L'ECONOMISTA FRANCESE FRANÇOIS CHESNAIS ARGOMENTA LA PROPOSTA DI MORATORIA SUL DEBITO LEGANDOLA AL PROTAGONISMO DEI MOVIMENTI SOCIALI

borsegiudi François Chesnais.

Nella primavera del 2010 le grandi banche europee, in prima fila le banche francesi e tedesche, hanno convinto l'Unione Europea e la BCE che il rischio di insolvenza nel pagamento del debito pubblico della Grecia metteva in pericolo il loro bilancio. Le banche hanno richiesto di essere messe al riparo dalle conseguenze della loro stessa gestione.
Le grandi banche sono state aiutate nell'autunno 2008 al momento del fallimento della banca Lehman Brothers a New York, che ha portato al parossismo della crisi finanziaria. Sin dal giorno del loro salvataggio, esse non hanno purgato dai loro bilanci i titoli tossici.

Hanno anzi continuato a fare investimenti ad alto rischio. Per alcune, il minimo rischio di insolvenza significherebbe il fallimento.

Nel maggio 2010, è stato concepito un piano di salvataggio, con un asse finanziario e un asse di bilancio pubblico, che prevedeva una drastica austerità e privatizzazioni accelerate, forte diminuzione delle spese sociali, diminuzione di tutte le remunerazioni dei funzionari e riduzione del loro numero, nuovi attacchi al sistema pensionistico - sia esso un sistema per capitalizzazione o per ripartizione. I primi paesi ad aver applicato questo piano, come la Grecia e il Portogallo, sono stati presi in una spirale infernale, di cui le classi popolari e i giovani sono stati le vittime immediate.
Questa spirale avvolge di mese in mese un numero sempre più importante di paesi in Europa occidentale e mediterranea, dopo che aveva devastato i paesi baltici e balcanici. Tocca ai lavoratori, ai giovani e alle classi popolari più fragili vedersi imposto il costo del salvataggio del sistema finanziario europeo e mondiale.


Abbiamo bisogno delle banche nella loro forma attuale? Serve continuare a salvarle?


Due serie d'idee strettamente intrecciate ci vengono servite, sfumature a parte, dal governo [francese, ndr.] come dai dirigente dell'Ump [partito di Nicolas Sarkozy, ndr], del partito socialista e dai partiti cosiddetti centristi. La prima serie di idee riguarda il debito pubblico, la seconda le banche. I "sacrifici" chiesti sul piano delle pensioni, del gelo della rivalorizzazione dei salari nella funzione pubblica, i nuovi tagli drastici nel budget dell'insegnamento, etc. etc. sono tutti necessari, ci dicono, affinché "il debito della Francia venga onorato". Bisogna evitare pure che la Francia perda la sua nota AAA, che le viene accordata dalle agenzie di rating, e che sia obbligata a pagare degli interessi sul debito pubblico più elevati di quelli che paga attualmente. Per quanto riguarda le banche, esse ricoprono un ruolo indispensabile e lo svolgono bene, o almeno in maniera sufficiente: e questo rende legittimo e necessario venir loro in aiuto ogni volta che lo domandano.

L'ingiunzione di "onorare il debito" così come quella di aiutare le banche poggiano entrambe sull'idea che in gioco ci siano somme di denaro frutto del risparmio paziente, accumulate con il duro lavoro, che sarebbe state prestate. "La maggior parte degli economisti" scrive uno specialista del credito che lavora negli Stati Uniti "pensa che le banche siano dei semplici intermediari tra i depositanti e i creditori. Un'altra maniera di esprimere questa opinione ampiamente condivisa sarebbe dire che le banche raccolgono il risparmio e finanziano gli investimenti. A partire da questa affermazione, non resta che un piccolo passo da compiere per concludere che, per poter realizzare un investimento, prima deve costituirsi un ammontare determinato di risparmio"(1).

La realtà è tutt'altra. Le banche prestano denaro senza alcun rapporto con l'ammontare dei depositi e del risparmio privato che è loro affidato. Non sono mai state dei semplici intermediari. Dalla loro trasformazione in gruppi finanziari diversificati dalle operazioni transnazionali, le banche sono tutto tranne che intermediari. I profitti bancari provengono dalle loro operazioni di creazione di credito.

La loro fonte si trova nei flussi di ricchezza (valore e plus valore) provenienti dalle attività di produzione. La forma scelta cambierà a seconda del creditore. Nel caso di un'impresa, si preleva una frazione del profitto. Nel caso dei privati e delle famiglie, è una parte del loro salario o della loro pensione ad essere assorbita dagli interessi che pagano sui crediti ipotecari o sulle carte di credito. Più una banca presta, più i suoi profitti sono elevati. Nel corso degli scorsi due decenni, le banche hanno concepito dei mezzi che permettono loro di seguire questa strada. Le "innovazioni finanziarie" hanno dato nascita ad una rete molto densa di transazioni interbancarie. È a partire da queste "innovazioni" che le banche hanno potuto azionare il cosiddetto "effetto di leva", cioè un rapporto dei prestiti ai loro mezzi proprie e alle liquidità disponibili, il cui ammontare (fino a più del 30%) le mette in permanenza in situazione di grande fragilità. Le banche lo sanno, ma contano sui governi per assicurarle in qualsiasi circostanza e qualunque sia il costo sociale della rete di sicurezza, in caso estremo la socializzazione delle loro perdite.

Il FMI pubblica tutti i sei mesi pressoché simultaneamente due grandi rapporti, uno sulle prospettive dell'economia mondiale e un altro sullo stato del sistema finanziario mondiale. Il primo attira l'attenzione di tutti gli economisti. Il FMI vi presenta le sue proiezioni macroeconomiche. Si tratta insomma di un terreno familiare. Il secondo viene letto soltanto da quelli che accordano, nel contesto della mondializzazione commerciale e finanziaria, un'importanza alla finanza e alle crisi finanziarie. Nel gennaio 2011, il FMI stima già che una delle grandi incertezze della situazione economica mondiale porta sul fatto che in Europa "l'interazione tra i rischi sovrani e bancari si intensifica"(2).
Il primo capitolo del nuovo rapporto sulla situazione del sistema finanziario mondiale conferma questa previsione. Metto inoltre l'accento sulla vulnerabilità delle banche, in particolare delle banche europee (3). L'opinione del direttore del dipartimento dei mercati finanziari e monetari del FMI è la seguente: "Circa quattro anni dopo l'inizio della crisi finanziaria, la fiducia nella stabilità del sistema bancario globale deve essere ancora ripristinata completamente". E sottolineare, per quanto riguarda le banche europee: "alcune banche hanno ancora un effetto leva troppo importante, hanno dei mezzi propri insufficienti, tenuto conto dell'incertezza sulla qualità dei loro attivi. Questi bassi livelli di mezzi propri rendono certe banche tedesche, oltre che le casse di risparmio italiane, portoghesi e spagnoli in difficoltà, vulnerabili a nuovi choc" (4).

Il ruolo delle banche è di fornire del credito commerciale (titoli a cortissimo termine) e dei prestiti a lungo termine alle imprese per i loro investimenti. Questo ruolo è indispensabile al funzionamento del capitalismo. Lo sarebbe per qualsiasi forma di organizzazione economica fondata sulle modalità decentralizzate di proprietà sociale dei mezzi di produzione, e che presuppone il ricorso allo scambio. Il bilancio dei tre decenni di liberalizzazione finanziaria e dei quattro anni di crisi pone, in tutta la sua pienezza, il problema dell'utilità economica e sociale delle banche nella loro forma attuale. Divenute dei conglomerati finanziari, le banche hanno diritto al sostegno dei governi e dei contribuenti ogni volta che i loro bilanci sono minacciati dalle conseguenze delle loro stesse decisioni di gestione? Molte persone cominciano a dubitarne. Qualche volta lo esprimono, come ha fatto Eric Cantona [calciatore francese che ha fatto parlare di sé in Francia ed Inghilterra quando aveva lanciato un appello a ritirare i depositi bancari nel dicembre 2010], in maniere che i media non possono ignorare. Non distruggere le banche, ma appropriarsene affinché possano assolvere compiti essenziali e che sarebbero, in linea di principio, i loro, ecco la risposta che dà, tra gli altri, Frederic Lordon (5).


Verso una definizione dell'illegittimità dei debiti pubblici

La nozione di "debito odioso" è stata applicata dagli anni '80 ai debiti dei paesi del Terzo mondo. La sua possibile applicazione al debito della Grecia ha fatto discutere. Si tratta di una nozione che risale al primo dopoguerra. La prima definizione appartiene ad Alexander Sack, giurista russo e professore di diritto internazionale a Parigi: "il debito contratto da un regime dispotico (noi diremmo oggi "dittatura" o "regime autoritario") per degli obiettivi estranei agli interessi della Nazione, agli interessi dei cittadini". Il Center for International Sustainable Development dell'università McGill di Montreal ne ha dato, agli inizi degli anni 2000, una definizione abbastanza simile, più direttamente legata alla fase della finanziarizzazione contemporanea. I debiti odiosi sono "quelli che sono stati contratti contro gli interessi delle popolazioni di uno Stato, senza il loro consenso e in tutta conoscenza di causa da parte dei prestatori" (6).

Questa definizione si applica perfettamente al debito specifico che pesa in Francia su comuni, regioni e persino certi ospedali, i cui rappresentanti eletti o direttori si sono recentemente costituiti in associazione per condurre azioni giudiziarie collettive contro le banche (7).

Questi enti sono stati incitati proprio dalle banche ad acquistare dei "prodotti strutturati", destinati a facilitare con il loro rendimento elevato il finanziamento di progetti consistenti di investimento nel contesto del trasferimento delle spese dallo Stato verso le regioni. Questi titoli finanziari opachi, divenuti "titoli tossici" con la crisi dell'autunno 2008, pesano sui budget. Il fatto che siano stati acquistati mostra beninteso che il feticismo per il denaro non è esclusiva dei trader, ma ha ragione anche del giudizio dei rappresentati eletti e degli amministratori locali. Ma le banche conoscevano perfettamente i rischi che facevano correre ai loro clienti, il gioco da casinò nel quale li facevano entrare. Il supplemento di indebitamento contratto dai comuni con l'acquisto di titoli spazzatura rientra nel "debito odioso".

La nozione più ampia di debito illegittimo mi sembra corrispondere da più vicino al debito dei paesi capitalisti avanzati, in particolare quelli dell'Europa. È anche la posizione dei militanti del Comitato per l'annullamento del debito del Terzo mondo (CADTM) (8).

I fattori che sono messi in evidenza più frequentemente riguardano le condizioni che hanno condotto un paese ad accumulare un debito elevato e mettersi nelle mani dei mercati finanziari. Qui l'illegittimità trova la sua fonte in tre meccanismi: delle spese elevate dal carattere di regali fatti al capitale; un basso livello di fiscalità diretta (imposte sul reddito, sul capitale e sul profitto delle imprese) e la sua debolissima progressività; un'evasione fiscale importante. Ritroviamo i tre fattori tanto nel caso della Grecia che in quello della Francia, così come, beninteso, in tutti i paesi attaccati oggi dai fondi speculativi e dalle banche. Parlando della Francia, il debito è nato, a partire dal 1982, dal regalo fatto al capitale finanziario al momento delle nazionalizzazioni del governo dell'Unione della sinistra. La sua crescita ha sposato poi il movimento di liberalizzazione finanziaria, la cui prima fase negli anni '80 è stata segnata da dei tassi di interesse reali molto elevati.
(...)
Ma l'illegittimità poggia anche sulla natura delle operazioni di "prestito" che va "onorato", per il quale bisogna pagare degli interessi e assicurare un rimborso. L'ingiunzione di pagare il debito, va ripetuto, si basa implicitamente su questa idea che il denaro, frutto del risparmio pazientemente accumulato con il duro lavoro, sia stata effettivamente prestato. Questo può essere il caso per i risparmi delle famiglie o dei fondi del sistema di pensione per capitalizzazione. Non è il caso delle banche e degli hedge funds. Quando questi "prestano" agli Stati, comprando buoni del Tesoro aggiudicati dal Ministero delle Finanze, lo fanno con somme fittizie, la cui messa a disposizione si basa su una rete di relazioni e di transazioni interbancarie. Il trasferimento di ricchezza, quella che nasce al lavoro, ha invece luogo nel senso inverso. Il debito e il servizio degli interessi sono una componente della "pompa finanziaria", così elegantemente soprannominata da Frederic Lordon in omaggio a Jarry e a suo padre Ubu. La natura economica delle somme pretese è un fattore in più per interrogarsi sulla legittimità del debito pubblico.


L'audit del debito pubblico e il suo annullamento

Il CADTM difende da sempre la necessità dell'audit del debito come tappa verso l'annullamento. L'audit ha per obiettivo di identificare i fattori che permettono di caratterizzare il debito come illegittimo, così come di identificare coloro che giustificano o quantomeno esigono ciononostante il rimborso di una frazione di debito a certi creditori. Non ero convinto di questa pratica finché dei militanti greci me ne hanno mostrato la portata. Finora il solo esempio di audit sul debito pubblico è quello realizzato nel 2007 in Ecuador. È il risultato di una decisione governativa: il presidente dell'Ecuador, Rafael Correa voleva conoscere le condizioni in cui è nato il debito del paese. L'audit ha permesso al governo di decidere la sospensione del rimborso del debito, costituito da titoli del debito o in scadenza nel 2012 oppure nel 2030. I banchieri, soprattutto nordamericani, detentori dei titoli, sono stati così costretti a negoziare.

L'Ecuador ha potuto così recuperare titoli stimati a 3,2 miliardi di dollari per una somma di poco inferiore al miliardo di dollari. Uno scenario simile a quello dell'Ecuador non è concepibile in Europa. La rivendicazione di moratoria immediata e di audit preparatorio all'annullamento deve evidentemente essere indirizzata ai partiti politici al momento delle campagne elettorali. Qualche militante e forse persino qualche dirigente saranno sensibili a questa rivendicazione. Ciononostante, per sostenere questa rivendicazione non c'è altra strada che quella di comitati sul modello di quelli nati [in Francia, ndr] durante la campagna del 2005 contro il progetto di Trattato costituzionale europeo, oppure sul modello, più recente, dei comitati a difesa delle pensioni. C'è un solo paese dove un comitato nazionale è già stato creato, permettendo la formazione di comitati locali: si tratta della Grecia, dove è nato il Comitato greco contro il debito. Ecco come definisce i suoi obiettivi (9).


Audit sul debito ed esercizio dei diritti democratici

"Il primo obiettivo di un audit è di fare chiarezza sul passato (...). Cosa n'è stato del denaro di tale prestito, a quali condizioni questo prestito è stato concluso? Quanti interessi sono stati pagati, a che tasso, quale proporzione del principale è già stata rimborsata? Come è stato gonfiato il debito, senza che esso fosse utile alla popolazione? Quali strade hanno seguito i capitali? A chi sono serviti? Quale proporzione è stata indebitamente appropriata, da chi e come? Come ha fatto lo Stato a trovarsi impegnato, su quale decisione, presa a che titolo? Come sono diventati pubblici i debiti privati? Chi si è impegnato in progetti inadatti, chi ha spinto in questa direzione, chi ne ha approfittato? Sono stati commessi delitti, o crimini, con questo denaro? Perché non vengono stabilite le responsabilità civili, penali e amministrative? (...). Un audit del debito pubblico non ha nulla a che vedere con la sua caricatura, che si riduce a una semplice verifica delle cifre, fatta da contabili abitudinari. I sostenitori dell'audit invocano sempre due bisogni fondamentali della società: la trasparenza e il controllo democratico dello Stato e dei governi da parte dei cittadini. Si tratta di un bisogno che ha per riferimento i diritti democratici assolutamente elementari, riconosciuti dal diritto internazionale, benché violati costantemente. Il diritto di vigilanza dei cittadini sugli atti di chi li governa, il diritto di informarsi su tutto quanto concerne la loro amministrazione, i loro obiettivi e le loro motivazioni, è intrinseco alla democrazia stessa ed è un'emanazione diretta del diritto fondamentale dei cittadini ad esercitare il loro controllo sul potere e a partecipare attivamente agli affari comuni. (...) Questo bisogno permanente di trasparenza negli affari pubblici acquisisce nell'epoca del neoliberismo più selvaggio e della corruzione più sfrenata - senza precedenti nella storia mondiale - un'enorme e supplementare importanza. Si trasforma in un bisogno sociale e politico assolutamente vitale. L'esercizio dei diritti democratici dei cittadini, considerati un tempo come "elementari" è visto dai governanti quasi come una dichiarazione di guerra al loro sistema da parte della "base". E naturalmente, essa è tratta di conseguenza, in maniera molto repressiva (...). L'audit sul debito pubblico acquista una dinamica socialmente salutare e politicamente pressoché sovversiva. La sua utilità non può riassumersi unicamente con la difesa della trasparenza e della democrazia nella società: essa va molto più in là, perché apre la strada a dei processi che potrebbero rivelarsi estremamente pericolosi per il potere costituito e potenzialmente liberatori per la schiacciante maggioranza dei cittadini! Effettivamente, esigendo di aprire e analizzare i libri contabili del debito pubblico, o meglio ancora aprendo e analizzando direttamente quei libri, il movimento per l'audit civico osa "l'impensabile": penetra nella zona vietata, nel sancta sanctorum del sistema capitalista, laddove, per definizione, non sono tollerati intrusi!" (fine della citazione, ndr).

Intesa così, la rivendicazione di audit del debito e soprattutto i suoi primi passi con la creazione dei comitati, in quanto l'istanza popolare dove le prove dell'illegittimità sarebbero raccolte e dibattute, costituirebbe un formidabile strumento di "re-democratizzazione" (10).
Per i detentori del debito pubblico, la salvaguardia del piccolo risparmio è spesso sollevata come questione importante, quando non è addirittura l'ostacolo determinante. In realtà non pone alcun problema. Nelle dichiarazioni d'imposta diretta, le banche calcolano quasi al centesimo l'ammontare delle differenti forme di risparmio delle famiglie. Queste sarebbero garantite, perché rappresentano soltanto una parte minuscola dei "crediti" reclamati.
L'annullamento dei debiti pubblici non può ovviamente essere una misura isolata. Qui metteremo l'accento, molto brevemente, su due aspetti. Il primo è l'appropriazione sociale delle banche e la loro riconfigurazione in maniera da ristabilire le funzioni essenziali alla creazione di determinate e limitate forme di credito e alla loro messa al servizio dell'economia. Il secondo è la riconfigurazione della fiscalità, che deve cessare di essere un grave peso sui salari e sulle classi popolari. I sindacati SNUI e SUD Trésor [sindacati francesi dei funzionari delle imposte, ndr] hanno delle proposte pronte. Altrettanto importa è l'uso che viene fatto dell'imposta, che sia prelevata nazionalmente o localmente. Il controllo democratico dell'uso dell'imposta è diventato puramente formale.
Più in generale, la posta in gioco è quella definita in questo documento greco, cioè la creazione di una dinamica politica nella quale tutte e tutti quelli che hanno mostrato, ripetutamente, una forte capacità di mobilitazione, vedano una campagna per l'annullamento del debito come una lotta essenziale e che condiziona il futuro. In Francia ma anche in tutta Europa i salariati sono confrontati alle questioni cruciali dell'impiego e della precarietà. La soluzione passa attraverso il controllo sociale dell'investimento. Non si può continuare a dipendere dalle strategie di massimizzazione dei profitti delle grandi imprese. La soddisfazione dei bisogni sociali impellenti ha per contesto la crisi ecologica in tutte le sue dimensioni. È indispensabile realizzare un cambiamento basato su profonde trasformazioni nei modi tecnici di produzione nell'industria come nell'agricoltura. Il finanziamento sarebbe assicurato dall'imposta e dal credito bancario controllato.

La "sobrietà energetica" e la de-mercificazione ne sarebbero i complementi. La liberalizzazione degli scambi, il cui costo ecologico è immenso, è un fondamento del capitalismo finanziarizzato. Il controllo sociale dell'investimento permetterebbe di riassegnare numerose attività e accorciare le linee di approvvigionamento, di produzione e di commercializzazione. L'annullamento dei debiti nei paesi in cui i popoli si mobiliteranno per questo scopo, creerà così le condizioni per una vera "uscita dalla crisi".

Cogliere l'opportunità di una lotta in un insieme di paesi

La campagna contro il debito non si può condurre "per procura". Il popolo greco non può condurla per tutti gli altri popoli europei. (...) Una campagna popolare condotta dai comitati per una moratoria immediata e l'audit del debito preparerebbe il movimento sociale ai prossimi episodi della crisi finanziaria. I pubblicisti e i responsabili politici che preconizzano oggi la ristrutturazione del debito della Grecia e dell'Irlanda riconoscono che i rischi sottolineati dagli avversari di questa misura sono reali. La vulnerabilità del sistema finanziario europeo, ma anche mondiale, rende possibile una nuova crisi. Il fallimento totale del sistema bancario non è escluso. Nei paesi in cui il pagamento del debito sarà stato messo in discussione dal movimento sociale, i lavoratori e giovani vedranno in maniera diversa le questioni "politiche", vi saranno preparati, almeno in parte.
Uno dei grandi argomenti dei difensori dell'uscita dall'euro e che coloro che scommettono su un movimento sociale europeo inseguono una chimera. La posta in gioco è di cogliere l'occasione per farla nascere. Diversi paesi sono confrontati molto duramente al problema del debito. Altri lo saranno presto o tardi.

Tutti sono sottomessi a politiche economiche e monetari pro-cicliche. Anche la Confederazione europea dei sindacati è stata obbligata a smarcarsi dalla Commissione europea e dalla BCE. L'opportunità si è venuta a creare, di costruire tra i cittadini dei paesi dell'Europa una vera unione. La soluzione progressista non è l'uscita dall'euro. È di aiutare la convergenza delle lotte sociali e politiche condotte oggi in ordine sparso, verso un obiettivo di controllo sociale democratico comune dei mezzi di produzione e di scambio, dunque anche dell'euro. "Prendere le banche"! Sì, in tutti i paesi in cui il movimento sociale ne avrà la forza. Sì includendo la BCE nel novero.
La campagna per l'annullamento dei debiti pubblici europei deve accompagnarsi, beninteso, a quella per l'annullamento del debito dei paesi del Sud, detenuto da banche e fondi di investimento europei. Per i popoli dei paesi europei questa campagna è un passaggio obbligato e anche un trampolino. Un passaggio obbligato poiché nessuna politica un po' progressista sul piano sociale come sul piano economico non può non essere condotta, né alcun grande investimento fatto, finché l'emorragia dei servizi degli interessi continua. Un trampolino perché qualsiasi vittoria strappata su questo terreno costituirebbe un vero e proprio terremoto per il capitalismo mondiale.
L'annullamento dei debiti modificherebbe profondamente i rapporti di forza politici tra il lavoro e il capitale. Una vittoria libererebbe l'immaginazione su di un "orizzonte delle possibilità". Quando si presenta un'occasione come questa, non bisognerebbe coglierla?

François Chesnais, redattore della rivista "Carré rouge", ha appena pubblicato un libro importante, intitolato "I debiti illegittimi. Quando le banche fanno man bassa nelle politiche pubbliche" (edizioni Raisons d'agir, 2011). Un libro pedagogico che svela i meccanismi finanziari e bancari all'origine del debito cosiddetto sovrano. Il libro segnala pure l'attualità di una battaglia europea per l'annullamento dei debiti illegittimi. Nel momento in cui l'Italia si trova al crocevia di un attacco frontale, la riflessione sulla natura illeggittima del debito pubblico è quanto mai attuale (imq)

  1. Robert Guttmann, How Credit-Money Shapes the Economy, M.E. Sharpe, Armonk, New York, 1994, pagina 33.
  2. FMI, Global Financial Stability Report, aprile 2011, capitolo 1, tabella 1.1.
  3. idem
  4. Dichiarazioni di José Vinals citate da Martine Orange, Mediapart, 15 aprile 2011
  5. Frédéric Lordon, "Pas détruire les banques, les saisir!", La pompe à Phynance, blog.mondediplo.net/2010-12-02
  6. Vedi Global Economic Growth Report, Toronto, Luglio 2003
  7. "Prêts toxiques: les élus s'allient pour attaquer les banques ", Le Monde, 9 marzo 2011
  8. Vedi Eric Toussaint, "Face à la dette du Nord, quelques pistes alternatives", www.cadtm.org/, 19 gennaio 2011.
  9. Yorgos Mitralias, " Face à la dette: l'appétit vient en auditant!…" 12 aprile 2010 (www.cadtm.org/ ). L'autore è il principale animatore del comitato greco per l'annullamento del debito.
  10. In opposizione alla de-democratizzazione nata dal neoliberismo, vedi Wendy Brown, Les Habits neufs de la politique mondiale, trad. di Christine Vivier, Les Prairies ordinaires, Parigi, 2007, e anche Pierre Dardot e Christian Laval, La nouvelle raison du monde, Essai sur la société néolibérale, La Découverte, Parigi, 2009, pagine 457-468.

(Traduzione a cura del Mps-Solidarietà svizzero)

Tratto da: http://notiziegenova.altervista.org/index.php/economia/2791-e-se-il-modo-di-non-pagare-il-loro-debito-in-realta-ci-fosse.

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Italia: Golpe in atto. Mandante: la BCE

Corriere della Sera, 8 agosto 2011
IL RETROSCENA
Ecco la lettera di Trichet e Draghi
Cessioni, liberalizzazioni e lavoro
Le condizioni per l'intervento sui titoli italiani

Se non è un programma di governo, poco ci manca. Ci manca per l'esattezza giusto l'intenzione di pubblicare quel testo, nel quale Jean-Claude Trichet e Mario Draghi hanno di fatto indicato all'Italia la strada da prendere. La lettera dell'attuale presidente della Banca centrale europea e di colui che gli succederà dal primo novembre è stata scritta e recapitata fra giovedì e venerdì. L'accordo fra le parti era di mantenerla riservata, ma più ne emergono i dettagli, più è chiaro che c'è un limite al segreto che si può stendere su un programma di governo.

Perché nel messaggio che i due banchieri centrali europei hanno recapitato a Silvio Berlusconi non c'è solo l'accenno a una direzione di marcia. Era chiaro da giorni che la Bce era in grado di dettare il passo all'Italia, se il governo voleva l'aiuto di Francoforte con interventi sui titoli di Stato. Ma il livello di dettaglio della lettera deve aver stupito anche chi l'ha ricevuta: ci sono le misure da prendere, c'è il calendario secondo cui andrebbero applicate e non mancano neanche gli strumenti legislativi che la Bce chiede che il governi adotti: i più celeri e i più efficaci. Del resto la stessa dichiarazione franco-tedesca di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel di ieri sera chiede all'Italia di varare in parlamento le misure già annunciate «entro settembre».

Sulle liberalizzazioni in tutta la struttura dell'economia italiana, si scopre così che l'Eurotower suggerisce a Berlusconi di procedere per decreto, in modo da accelerare. Si tratta di un punto sensibile, perché molti a Francoforte trovano che proprio sull'apertura del mercato l'impegno del premier e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti resti debole, generico e imperniato su tempi troppo lunghi. Altrettanta urgenza emerge nella lettera di Draghi e Trichet sul tema delle privatizzazioni: si parla di cessioni anche per le società pubbliche locali e si chiede di avanzare il più rapidamente possibile. Con ogni probabilità non è furia ideologica, quella di Draghi e Trichet: è una constatazione di opportunità.

Un anno e mezzo fa la Grecia, già sotto attacco, evitò di mettere mano alle cessioni delle partecipazioni dello Stato per non affrontare l'opposizione dei sindacati e delle clientele politiche. Così Atene perse tempo prezioso e, quando di recente si è arresa all'obbligo di privatizzare, le attività da mettere sul mercato valevano ormai la metà di ciò che il governo avrebbe potuto incassare un anno prima. Anche per l'Italia privatizzare da subito o farlo dal 2013 non è uguale, manda a dire la lettera della Bce a Berlusconi. Perché il 2013 è un anno importante: da venerdì scorso è per allora che il governo, convinto dall'Eurotower, punta al pareggio di bilancio. Si tratta di uno sforzo paragonabile a quello compiuto per l'ingresso nell'euro nel '96-97. Ed è chiaro che la Bce vuole che il governo lo distribuisca su più anni, senza lasciare gran parte dell'impegno ai nove mesi successivi alle elezioni politiche, se la legislatura arriverà al suo termine naturale.

C'è poi un punto in più, nella lettera «segreta» recapitata da Trichet a Berlusconi. È forse il più delicato perché riguarda il mercato del lavoro, un settore storicamente rimasto fuori dalle competenze europee. Ma stavolta Trichet ci entra e lo fa nei dettagli: meno rigidità nelle norme sui licenziamenti dei contratti a tempo indeterminato, interventi sul pubblico impiego, superamento del modello attuale imperniato sull'estrema flessibilità dei giovani e precari e sulla totale protezione degli altri, una contrattazione aziendale che incentivi la produttività.

È un programma di governo, quello di Trichet, che non ha nulla di improvvisato. È una sintesi delle analisi sull'Italia che moltissimi, non solo a Francoforte, condividono da tempo. Ma ha un potente strumento di persuasione: se l'Italia disattende il merito della lettera, può scordarsi l'intervento della Bce per sostenere i titoli di debito del Tesoro. Se ne applica i «suggerimenti», può invece sperarci. Non è una garanzia, ma è tutto ciò che resta sul piatto quando ci si è trascinati fino a questo punto.

Federico Fubini
08 agosto 2011 08:44
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