Prima di affrontare analisi e tranciare giudizi per pubblicarli sui media, non andrebbe dimenticato che la Turchia ha ottantacinque milioni di abitanti a schiacciante maggioranza musulmani, che è il secondo paese Nato per potenza militare, e soprattutto che ha una crescita economica media dal 2002 a oggi del 5,2 per cento annuo, cioè altissima agli standard europei. Insomma la Turchia ha un “curriculum” degno di una nazione che aspira a un ruolo di leader in un’area delicata com’è il Medio Oriente.
Stando così le cose appare quanto mai strano che quella che si era iniziata come una protesta contro l’abbattimento degli alberi di un parco - Gezi Parki - adiacente a piazza Taksim, nel cuore della Istanbul moderna, sia rapidamente cresciuta fino a diventare una rivolta contro il governo del premier Recep Tayyip Erdogan . Infatti, da più giorni la stampa internazionale racconta le battaglie urbane di piazza Taksim, denuncia la dura repressione delle forze dell’ordine non soltanto ad Istanbul, ma anche nella capitale Ankara.
«Se facciamo un paragone», ha commentato il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu alla tv privata Haber Turk , «il resoconto dei media internazionali sulle proteste di Piazza Taksim è diverso dalla realtà di ciò che accade». Eppure - è notizia recente - pare che la polizia abbia usato anche i getti urticanti, perché quelli che ne sono stati colpiti hanno cominciato ad accusare bruciori agli occhi e alla pelle. Sicuramente, lo scenario è degenerato dopo che è venuto meno ad Erdogan e al suo modello di Turchia il forte sostegno degli Stati Uniti.
Infatti, il vertice del maggio scorso tra il presidente americano e il premier turco sulla Siria, ma soprattutto sugli scambi economici tra Stati Uniti e Turchia ha dato risultati più ambigui di quanto sia emerso dall’ufficialità. Più che dalla guerra siriana, ora i sonni di Erdogan sono turbati dal rischio di un fiasco sul fronte economico che gli potrebbe essere in prospettiva fatale. Si tenga a mente che le sue vittorie travolgenti e quelle del partito islamico conservatore Akp si sono fondate in questo decennio proprio sui successi economici , non sulla religione o sui progetti di ricostituire una sfera di influenza neo-ottomana, come molti commentatori poco informati, sicuramente embedded si affannano a sostenere, seminando in Occidente paura e sgomento.
Come ho spiegato su Geopolitica, il premier Erdogan pur di mantenere alto il Pil ha aperto persino all’Iran. L’idea è chiara: offrire agli iraniani la licenza bancaria turca perché essi possano concludere le transazioni commerciali quando scatteranno le sanzioni internazionali contro la banca centrale iraniana, e inoltre perché essi possano con i proventi petroliferi finanziare le numerose società iraniane che operano in e dalla Turchia.
Non sono soltanto le grandi banche come la Tejarat Bank e la Pasargad Bank di Teheran a correre ad Istanbul, ma già più di duemila società commerciali persiane hanno aperto filiali in Turchia. Tant’è che sono diventati ormai moltitudine i turchi che sono partner commerciali e bancari degli iraniani. Sicché non ci vuol molto a capire la nevrosi di Israele che da anni si inventa pretesti per coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra contro gli Ayatollah.
Stando così le cose, gli spasmi di protagonismo e d’ intraprendenza di Erdogan hanno cominciato ad irritare anche gli Stati Uniti. Ne è una testimonianza appunto l’incontro di Washington del 16 maggio scorso, durante il quale il premier aveva chiesto ad Obama che la Turchia non restasse fuori dalla Translatlantic Trade and Investment Partnership, il progetto di zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. Ma il Presidente americano oggi più di quel giorno di maggio continua ad esitare, sebbene la sua esclusione potrebbe portare a una contrazione del 2,5 per centodel Pil turco.
E quindi c’è un legame tra la copertura dei media occidentali alle proteste turche, le previsioni di Goldman Sachs su un crollo dell’economia turca, e il fatto che il sistema bancario turco sia diventato l’interfaccia tramite cui l’Iran aggira le sanzioni economiche? Risponderebbero di sì tutti coloro che sostengono che al di sopra del reale c'è il possibile. A loro piace citare il verso 256 del Dhammaṭṭha-vagga, “l'uomo retto” del Cammino del Dharma: «Tranciare giudizi affrettati non fa di te un giudice; è saggio colui che discerne il giudizio giusto da quello sbagliato.».
www.vincenzomaddaloni.it
Stando così le cose appare quanto mai strano che quella che si era iniziata come una protesta contro l’abbattimento degli alberi di un parco - Gezi Parki - adiacente a piazza Taksim, nel cuore della Istanbul moderna, sia rapidamente cresciuta fino a diventare una rivolta contro il governo del premier Recep Tayyip Erdogan . Infatti, da più giorni la stampa internazionale racconta le battaglie urbane di piazza Taksim, denuncia la dura repressione delle forze dell’ordine non soltanto ad Istanbul, ma anche nella capitale Ankara.
«Se facciamo un paragone», ha commentato il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu alla tv privata Haber Turk , «il resoconto dei media internazionali sulle proteste di Piazza Taksim è diverso dalla realtà di ciò che accade». Eppure - è notizia recente - pare che la polizia abbia usato anche i getti urticanti, perché quelli che ne sono stati colpiti hanno cominciato ad accusare bruciori agli occhi e alla pelle. Sicuramente, lo scenario è degenerato dopo che è venuto meno ad Erdogan e al suo modello di Turchia il forte sostegno degli Stati Uniti.
Infatti, il vertice del maggio scorso tra il presidente americano e il premier turco sulla Siria, ma soprattutto sugli scambi economici tra Stati Uniti e Turchia ha dato risultati più ambigui di quanto sia emerso dall’ufficialità. Più che dalla guerra siriana, ora i sonni di Erdogan sono turbati dal rischio di un fiasco sul fronte economico che gli potrebbe essere in prospettiva fatale. Si tenga a mente che le sue vittorie travolgenti e quelle del partito islamico conservatore Akp si sono fondate in questo decennio proprio sui successi economici , non sulla religione o sui progetti di ricostituire una sfera di influenza neo-ottomana, come molti commentatori poco informati, sicuramente embedded si affannano a sostenere, seminando in Occidente paura e sgomento.
Come ho spiegato su Geopolitica, il premier Erdogan pur di mantenere alto il Pil ha aperto persino all’Iran. L’idea è chiara: offrire agli iraniani la licenza bancaria turca perché essi possano concludere le transazioni commerciali quando scatteranno le sanzioni internazionali contro la banca centrale iraniana, e inoltre perché essi possano con i proventi petroliferi finanziare le numerose società iraniane che operano in e dalla Turchia.
Non sono soltanto le grandi banche come la Tejarat Bank e la Pasargad Bank di Teheran a correre ad Istanbul, ma già più di duemila società commerciali persiane hanno aperto filiali in Turchia. Tant’è che sono diventati ormai moltitudine i turchi che sono partner commerciali e bancari degli iraniani. Sicché non ci vuol molto a capire la nevrosi di Israele che da anni si inventa pretesti per coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra contro gli Ayatollah.
Stando così le cose, gli spasmi di protagonismo e d’ intraprendenza di Erdogan hanno cominciato ad irritare anche gli Stati Uniti. Ne è una testimonianza appunto l’incontro di Washington del 16 maggio scorso, durante il quale il premier aveva chiesto ad Obama che la Turchia non restasse fuori dalla Translatlantic Trade and Investment Partnership, il progetto di zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. Ma il Presidente americano oggi più di quel giorno di maggio continua ad esitare, sebbene la sua esclusione potrebbe portare a una contrazione del 2,5 per centodel Pil turco.
E quindi c’è un legame tra la copertura dei media occidentali alle proteste turche, le previsioni di Goldman Sachs su un crollo dell’economia turca, e il fatto che il sistema bancario turco sia diventato l’interfaccia tramite cui l’Iran aggira le sanzioni economiche? Risponderebbero di sì tutti coloro che sostengono che al di sopra del reale c'è il possibile. A loro piace citare il verso 256 del Dhammaṭṭha-vagga, “l'uomo retto” del Cammino del Dharma: «Tranciare giudizi affrettati non fa di te un giudice; è saggio colui che discerne il giudizio giusto da quello sbagliato.».
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