martedì 11 giugno 2013

BANCA D'ITALIA: PUBBLICA O PRIVATA ?


BANCA D’ITALIA E’ UNA BANCA CENTRALE PUBBLICA O PRIVATA? IL SIGNORAGGIO ESISTE O E’ UNA BUFALA?

- Paolo Cardenà -
Dopo l’incontro con gli attivisti del Movimento 5 Stelle di Messina della settimana scorsa ho ricavato diversi spunti di riflessione che vorrei portare alla vostra attenzione. Innanzitutto confermo che il dibattito è stato parecchio proficuo e stimolante, perché la base del Movimento 5 Stelle come supponevo è molto sensibile a certi argomenti e interessata a capire come stanno veramente le cose in Italia e in Europa. In secondo luogo si smentisce ancora una volta la convinzione che alle persone poco avvezze e istruite in economia bisogna parlare di cose semplici e facilmente imprimibili nella memoria (debito pubblico, casta, corruzione, evasione fiscale), perché non in grado di comprendere le reali cause della crisi e le possibili soluzioni. A mio parere non esistono argomenti difficili e ostici da capire in assoluto, ma modi difficili e ostici di spiegare le cose al fine di confondere le acque e non fare capire nulla alla gente.
Quando invece ci sforziamo di parlare con un linguaggio chiaro, lineare e diretto, supportando le nostre parole con dati e fatti, la gente capisce. Altroché se capisce. E in questo senso l’opera di informazione e divulgazione deve essere ancora migliorata e portata ad un più alto livello di comprensione generale.
Con questo non voglio dire che bisogna per forza semplificare e banalizzare certi concetti che di per sé sono complessi e spinosi, ma operare in modo da creare un circolo virtuoso fra i tecnici, gli economisti, gli specialisti che nei loro conclavi ristretti e riservati devono sviscerare i dettagli della materia e gli informatori, i divulgatori, ibloggers (categoria a cui io appartengo, nonostante la mia formazione tecnica) che devono essere invece abili ad interpretare il linguaggio a volte criptico dei primi, a ricavare la sostanza dei loro trattati o interventi, e a rendere fruibile da tutti la disciplina economica. In questo modo si riuscirà con il tempo e con molta pazienza a formare quella consapevolezza collettiva diffusa, che è l’unico antidoto contro la propaganda di regime in corso e la sola speranza di avvicinare il momento del provvidenziale cambiamento di rotta culturale tanto auspicato. In questo lungo e accidentato percorso, sarebbe buona cosa che ognuno si assumesse la responsabilità  delle proprie parole, del proprio linguaggio e del proprio ruolo, cercando di mantenere un atteggiamento per quanto possibile collaborativo e cooperativo con tutto il resto della filiera. Che poi diventi il Movimento 5 Stelle il fulcro politico ed istituzionale del cambiamento, riuscendo a diventare un collettore credibile ed efficace di tutti i movimenti sovranisti, antieuristi, democratici, ambientalisti disseminati nel territorio nazionale, oppure nascerà unnuovo soggetto politico capace di portare avanti meglio le nostre istanze e mantenere una linea strategica di lungo periodo più coerente e determinata, questo lo vedremo nei prossimi giorni, settimane, mesi. E non dipende sicuramente da noi. Ma da Beppe Grillo e dal suo stuolo di consulenti italiani e stranieri, che ancora sono piuttosto incerti su come e dove posizionarsi. Più a destra di Von Hayek (Stato ladro e libero Mercato!) o più a sinistra di Keynes (Regolamentazione pubblica del Mercato)? Questo è il dilemma.
Detto questo, una delle richieste di chiarimento più interessanti e stuzzicanti che mi è giunta dall’attento uditorio di Messina riguarda l’attuale posizione giuridica e istituzionale della Banca d’Italia: è una banca centrale pubblica o privata? Allora, senza volere riscrivere una storia esaustiva dell’istituto dalle origini ad oggi, cerchiamo di fare un po’ d’ordine. Secondo quanto riportato nello Statuto (articolo 1), Banca d’Italia è un “ente di diritto pubblico, che opera in “piena autonomia e indipendenza”, in quanto, al pari di tutte le altre banche centrali del sistema europeo (SEBC, 1998), “non può sollecitare o accettare istruzioni da altri soggetti pubblici o privati”. Quindi pur gestendo una materia di diritto pubblico, la moneta a corso legale che tutti noi siamo obbligati ad utilizzare, la Banca d’Italia ne fa un uso privatistico ed esclusivo, perché non è obbligata o sottoposta a rendere conto del suo operato a nessuno, men che meno al Governo democratico della nazione: il suo obiettivo, in linea con quello della BCE, è il mantenimento della stabilità dei prezzi e della bassa inflazione (soglia del 2%). Tutto il resto poco interessa alla Banca d’Italia, fermo restando il ruolo di controllo e vigilanza del sistema bancario nazionale. L’unico collegamento che rimane ancora aperto con il governo italiano riguarda la nomina del Governatore, che viene disposta con decreto dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio, in seguito ad un esplicito suggerimento del Consiglio Superiore della stessa banca. Quindi, in forza dell’autonomia e indipendenza, conseguenza diretta dell’adesione ai Trattati Europei, nonostante lo Statuto le attribuisca il monopolio di uno strumento di diritto pubblico (la moneta), la Banca d’Italia è un istituto fondamentalmente privato, che a parte la tutela dei risparmi (e delle rendite) tramite il controllo dell’inflazione,ha altri scopi rispetto alle sorti e al benessere generale del paese, non avendo più fra l’altro alcuno spazio di manovra per agire attivamente e direttamente nella vita politica ed economica della nazione.
E non abbiamo parlato ancora della questione della proprietà della Banca d’Italia, perché già questo elemento di autonomia ed indipendenza unito al divieto europeo di finanziamento diretto dei governi, ne fa un istituto appunto privato, slegato e distante dal resto delle altre istituzioni pubbliche (Governo, Parlamento, Magistratura, Pubblica Amministrazione etc). Tuttavia è chiaro che la posizione attuale della Banca d’Italia deriva da un lungo processo di trasformazione che ne ha stravolto nel tempo le funzioni e le finalità. E per capire meglio come siamo arrivati a questa evidente degenerazione istituzionale dobbiamo quindi vedere brevemente quali sono stati i passaggi principali della metamorfosi storica e culturale. La Banca d’Italia viene istituita con la legge n. 449 del 10 agosto 1893, dalla fusione di quattro banche: la Banca Nazionale del Regno d’Italia (già Banca Nazionale degli Stati Sardi), la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d’Italia e dalla liquidazione della Banca Romana e inizialmente il suo ruolo prevedeva l’emissione della moneta e ilservizio di tesoreria per conto dello Stato. Nel 1926 la Banca d’Italia ottiene la concessione esclusiva sull’emissione della moneta, estromettendo il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia.
La legge bancaria del 1936, oltre a regolare il sistema bancario nel suo complesso, assegna a Banca d’Italia ilcompito di vigilare sulle banche italiane e le affida definitivamente la funzione di emissione della moneta, eliminando la precedente concessione temporanea. Una prima parte della legge (tuttora in vigore) definisce la Banca d’Italia “istituto di diritto pubblico”: gli azionisti privati vennero espropriati delle loro quote, che furono riservate a enti finanziari di rilevanza pubblica. Alla Banca Centrale fu proibito lo sconto diretto agli operatori non bancari, sottolineando così il suo ruolo di Banca delle banche (nonché prestatore di ultima istanza). Una seconda parte della legge (abrogata quasi interamente nel 1993, con l’approvazione del Testo Unico Bancario, TUB) fu dedicata alla vigilanza creditizia e finanziaria: essa ridisegnò l’intero assetto del sistema creditizio nel segno della netta divisione fra banca e industria e della separazione fra credito a breve e a lungo termine, confermando la funzione di interesse pubblico dell’attività bancaria. Le Banche di Credito Ordinario possono operare solo su scadenze fino a 18 mesi, mentre gli Istituti di Credito Speciale operano su scadenze superiori ai 18 mesi, instaurando di fatto quella separazione fra banche commerciali e d’investimento oggi tanto invocata. L’azione di vigilanza della Banca d’Italia fu concentrata  nell’Ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito (organo statale di nuova creazione, oggi confluito nel CICRComitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio), presieduto dal Governatore e operante anche con mezzi e personale della Banca d’Italia, ma diretto da un Comitato di ministri presieduto dal capo del Governo: il legame fra attività della Banca Centrale e Governo era quindi più che mai saldo e indissolubile.
Questa struttura di massima rimase operativa fino agli anni 80, quando fu ridisegnato l’intero sistema in un’ottica di maggiore commistione fra settore bancario e industriale (venne eliminato il divieto di finanziare direttamente il sistema produttivo mediante l’acquisizione di partecipazioni), privatizzazione degli istituti di diritto pubblico a forte partecipazione statale (San Paolo, Monte Paschi di Siena, BNL, Banco di Napoli, Banco di Sicilia) e delle banche di interesse nazionale controllate dall’IRI e quindi indirettamente dallo Stato (COMIT, CREDIT, Banco di Roma, Casse di Risparmio, Banche Popolari, Casse di Credito Cooperativo), maggiore apertura ai mercati finanziari internazionali e deregolamentazione (furono rimosse alcune norme che limitavano gli investimenti esteri diretti e di portafoglio), fusione in grandi gruppi bancari senza specializzazione specifica fra l’attività di credito e investimento.  E in seguito a queste riforme di stampo chiaramente neoliberista attuate in quegli stessi anni un po’ dappertutto, il sistema bancario non solo italiano iniziò a traballare, fino al sisma internazionale che ci troviamo ad affrontare oggi. Prima degli anni 80 infatti, il periodo del dopoguerra era stato caratterizzato da un’elevata stabilità finanziaria internazionale, dovuta appunto alla forte regolamentazione esistente nel settore bancario e ai vincoli rigidi di cambio imposti dagliAccordi di Bretton Woods del 1944, che in un certo senso limitavano l’azione della Banca Centrale e la sua attività di supporto diretto sia alle banche private che ai governi nazionali. Lo scenario mutò radicalmente a partire dal 1971, quando la fine degli Accordi di Bretton Woods impose ai singoli Stati di rivedere il ruolo, i compiti, le finalità e gli ambiti di competenza delle rispettive Banche Centrali, che con diverse sfumature e gradazioni raggiunsero tutte una posizione di maggiore autonomia e indipendenza rispetto ai governi nelle scelte di politica monetaria.
Se come ci ricorda lo stesso ex presidente e governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, a partire dal 1976 il sostegno diretto della Banca d’Italia al governo tramite la funzione di acquirente residuale dei titoli di stato era diventato una prassi consolidata e giustificata più da ragioni storiche e congiunturali che da reali vincoli di legge, la situazione era destinata rapidamente a cambiare dopo l’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (SME) nel 1979, che limitava di nuovo il raggio d’azione della Banca d’Italia in virtù del vincolo di cambio imposto a livello continentale. La prima conseguenza dello SME fu il famigerato “divorzio fra Banca d’Italia e Ministero di Tesoro” del 1981, tramite il quale con un semplice scambio epistolare privato il ministro Beniamino Andreatta (foto sopra) e il governatore Ciampi decretavano la fine dell’intervento della Banca Centrale nelle aste pubbliche di collocamento dei titoli di stato come acquirente residuale. E sappiamo purtroppo cosa ciò comportò in termini di aumento degli interessi passivi a carico dello Stato ed esplosione del debito pubblico: non potendo più calmierare le aste, la Banca d’Italia lasciava in pratica alle banche private il compito di decidere volta per volta a quale tasso di interesse dovevano essere collocati i titoli di stato e di avvantaggiarsi delle enormi rendite di posizione. Nel 1991 Andreatta pubblicòun articolo sul Sole24ore per ricordare le ragioni tecniche e strategiche di quella scelta e fare un bilancio deglieffetti economici e politici del divorzio. In questa sede riprendo solo due passaggi dell’articolo, lasciando ai lettori il compito di valutare tutto il resto della “excusatio non petita, accusatio manifesta” del defunto ex ministro (quando si dice che la morte ci rende uguali ed è l’unico elemento a concedere davvero giustizia sulla terra: abbiate fiducia, prima o dopo anche “loro” se ne vanno!).
I miei consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d’ Italia circa le modalita’ dei suoi interventi sul mercato e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al “divorzio”. Il termine intendeva sottolineare una discontinuita’, un mutamento appunto di regime della politica economica;un’analoga operazione che negli Stati Uniti pose termine nel 1951 alla politica di denaro facile, che aveva permesso il finanziamento della Seconda guerra mondiale, e veniva ricordata come l’agreement tra Tesoro e Fed”. Analisi completamente sbagliata perché l’accostamento agli Stati Uniti è del tutto fuori luogo: se è vero chel’Accordo americano del 1951 diede maggiore libertà alla Federal Reserve di condurre una politica monetaria autonoma e indipendente, ciò non decretò affatto il mancato sostegno e coordinamento diretto fra Banca Centrale e Governo, anzi. In pratica la Fed era più libera di fissare il tasso di interesse attraverso principalmente i suoi interventi di mercato aperto, lasciando però sempre attivo il servizio di tesoreria con possibilità di scoperto per conto del Governo e di acquisto dei titoli di stato o sul mercato secondario o tramite il canale diretto con il Governo: la Fed non partecipa alle aste primarie di collocamento riservate alle banche private perché non ne ha tecnicamente bisogno e può sempre, in qualsiasi momento, monetizzare il deficit pubblico con il successivo scambio di titoli di stato, il cui tasso di interesse viene quindi fissato congiuntamente a monte dal Governo e dalla Banca Centrale stessa. Una situazione dunque diametralmente opposta al totale scollegamento fra le due istituzioni a cui, grazie a Ciampi ed Andreatta, è stata ridotta l’Italia dopo il divorzio del 1981. Separazione consensuale che è bene ribadirlo è stata causata e venne poi drammaticamente acuita dalle successive disposizioni, rese necessarie dall’adesione allo SME nel 1979, ai Trattati di Maastricht del 1992 e infine all’eurozona nel 1999.
Con la legge n.82 del 7 febbraio 1992 si stabiliva infatti che “le variazioni del tasso di sconto sono disposte dal Governatore della Banca d’Italia con proprio provvedimento” e non più dal Ministro del Tesoro, su proposta del Governatore della Banca d’Italia. Questa legge, voluta fortemente dal Ministro del Tesoro Guido Carli (guarda caso, anche lui, come Ciampi, Dini, Draghi, Padoa Schioppa, Saccomanni, esponente di spicco della Banca d’Italia, essendone stato governatore dal 1960 al 1975), stabilisce in via definitiva che a decidere in piena autonomia sul tasso di sconto del denaro sia esclusivamente il Governatore della Banca d’Italia, estromettendo di fatto lo Stato dal processo decisionale e vietando per legge un eventuale coordinamento fra i due enti. Un anno dopo, in esecuzione degli accordi europei di Maastricht che impediscono alle Banche Centrali il finanziamento diretto degli Stati (articolo 123 del TFUETrattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), il Parlamento approva la legge 483/93 che disciplina il servizio di tesoreria e proibisce alla Banca d’Italia di concedere anticipazioni al Tesoro.
Il Governo mantiene ancora oggi presso l’istituto di emissione un apposito conto corrente per il servizio di Tesoreria, la cui dotazione iniziale ammontava a 30.000 miliardi di lire. Su tale conto sono accreditate tutte le entrate incassate dalla Banca d’Italia per lo svolgimento del servizio di tesoreria e da esso sono detratte le spese a carico dall’Istituto. Qualora il saldo mensile del conto risulti negativo, il Tesoro ha l’obbligo di ricostituire entro 3 mesi il fondo. Se il saldo mensile risulta inferiore del 50% dell’ammontare del deposito, il Tesoro è tenuto, in aggiunta, a presentare una relazione giustificativa al Parlamento. Oltre a ciò, in base all’art. 6 della stessa legge, se il conto presenta saldi a debito del Tesoro, la Banca d’Italia non effettua più pagamenti per il servizio di tesoreria e applica alle sofferenze del Tesoro il tasso ufficiale di sconto. Ricordiamo invece che fino a novembre del 1993 il conto di tesoreria del governo prevedeva la possibilità di scoperti ed era uno dei tradizionali canali di creazione di nuova base monetaria: Banca d’Italia, infatti, era obbligata ad anticipare al Tesoro, tramite appunto gli scoperti sul predetto conto, fino al 14% delle spese correnti e in conto capitalepreviste in bilancio. Dopo il 1993 la Banca Centrale diventa quindi a tutti gli effetti un ente passivo e non attivo nei confronti dello Stato per quanto riguarda la gestione della politica economica e monetaria: non può fare nulla per venire incontro alle esigenze del Governo e quest’ultimo non ha alcuna possibilità di influenzare le scelte della banca.
Senza presunzioni eccessive, questa lettera ha segnato davvero una svolta e il divorzio, assieme all’adesione allo Sme (di cui era un’inevitabile conseguenza), ha dominato la vita economica degli anni 80, permettendo unprocesso di disinflazione relativamente indolore, senza che i problemi della ristrutturazione industriale venissero ulteriormente complicati da una pesante recessione da stabilizzazione. Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta piu’ difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato”. Grazie Andreatta, ci ricorderemo di te e porteremo fiori sulla tua tomba per avere fatto decollare il nostro debito pubblico a vantaggio esclusivo dei mercati finanziari e delle banche private, il cui giudizio adesso si è sostituito a quello dei normali processi democratici elettivi previsti dalla nostra Costituzione. Il fatto poi di sapere perfettamente quali conseguenze disastrose avrebbe causato il divorzio non attenua di certo la colpa del misfatto, perché se veramente si volevamoralizzare i comportamenti dei politici italiani (tutti ancora da dimostrare dato che il debito pubblico nel 1981 ammontava ad un risibile 55% del PIL) si poteva procedere per altra via senza distruggere la stabilità dei conti pubblici e a catena destrutturare il delicato equilibrio dell’intera economia italiana, compresi i risparmi delle famiglie e gli investimenti produttivi delle imprese. Costringere qualcuno a fare determinate scelte puntando una pistola in testa non è certo il miglior modo per convincerlo della giustezza di quelle scelte: se poi queste ultime vengono fatte per avvantaggiare palesemente una certa categoria di renditieri a danno dei lavoratori e delle piccole e medie aziende, l’opera di convincimento diventa ancora più ardua e insensata.
Ovviamente il pretesto della riduzione dell’inflazione tirato in ballo dall’ex ministro era ancora una volta sbagliato:non essendoci alcun collegamento fra quantità di moneta circolante ed inflazione (almeno nelle condizioni di elevata disoccupazione e basso sfruttamento della capacità produttiva in cui si trovava all’epoca l’economia italiana), era chiaro che quest’ultima fosse scesa per ben altri motivi. In primo luogo la normalizzazione del prezzo del petrolio in seguito alla fine dello shock petrolifero iniziato negli anni 70. In secondo luogo le politiche deflazionistiche di abbattimento dei salari dei lavoratori che con il governo Craxi del 1984 prima e quello Amato del 1992 poi portarono alla definitiva abrogazione della Scala Mobile. In terzo luogo il taglio della spesa pubblica, sia nella parte corrente che in conto capitale, che si rendeva necessario per far posto allamaggiore spesa per interessi e continuare a rimanere entro la soglia del 3% di deficit pubblico imposto dagli accordi europei. Infine, la maggiore difficoltà per le aziende a reperire nuovi fondi per gli investimenti a causa del crescente onere per interessi da corrispondere a finanziatori e banche. Un calo così drastico e repentino dei fattori che influenzano la domanda aggregata, unito ad una riduzione dei costi di produzione legati alle materie prime e al petrolio, non poteva che condurre ad un prolungato periodo di stagnazione e recessione economica, con conseguente discesa dei prezzi e dell’inflazione. Non ci voleva mica un genio per capire che se chiudo contemporaneamente tutti i rubinetti che alimentano l’economia di un paese, quest’ultima affronterà unlungo ed inevitabile calvario di contrazione deflattiva. Con buona pace invece di chi crede ancora che una maggiore offerta di moneta da parte della Banca Centrale crei automaticamente maggiore inflazione, senza mai chiedersi come e quando questa nuova moneta transita dai nebulosi circuiti bancari e finanziari a quelli reali, nei nostri portafogli insomma. Come dice bene qualcuno, oggi come oggi servirebbe davvero un elicottero che lancia le banconote direttamente dal cielo!
Ma veniamo adesso all’intricata faccenda della proprietà di Banca d’Italia. La legge bancaria del 1936, confermata nel vecchio articolo 3 dello Statuto della Banca Centrale parlava abbastanza chiaro: “Il capitale della Banca d’Italia è di 156.000 euro rappresentato da quote di partecipazione di 0,52 euro ciascuna (4). Le dette quote sono nominative e non possono essere possedute se non da:

a)
   Casse di risparmio;
b) Istituti di credito di diritto pubblico e Banche di interesse nazionale;

c) Società per azioni esercenti attività bancaria risultanti dalle operazionidi cui all’ art. 1 del decreto legislativo 20.11.1990, n. 356;

d) Istituti di previdenza;

e) Istituti di assicurazione.

Le quote di partecipazione possono essere cedute, previo consenso del Consiglio superiore, solamente da uno ad altro ente compreso nelle categorie indicate nel comma precedente.
In ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della Banca da parte di enti pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici.
Banca d’Italia era e doveva rimanere una Banca Centrale pubblica. Tuttavia il processo di rapida privatizzazione del settore bancario italiano, sancito dalla legge Carli-Amato, la n. 35 del 29 gennaio 1992 e culminato nell’approvazione del Testo Unico Bancario (TUB) del 1993 promosso dal governatore Ciampi, crea una contraddizione evidente fra ciò che era riportato nello Statuto della Banca d’Italia e la realtà dei fatti, anche se esisteva ancora in quegli anni il più stretto mistero e riserbo istituzionale sui nomi dei reali proprietari dell’istituto: se nessuno ce lo chiede, si pensava, noi non siamo obbligati a rispondere. A fare la domanda fatidica ci pensa però un articolo di “Famiglia Cristiana“, che il 4 gennaio del 2004, prendendo spunto da una ricerca scientifica del Centro Ricerche e Studi di Mediobanca, spiega agli italiani la clamorosa scoperta: “Stranamente la Banca d’Italia è una società per azioni che appartiene a banche italiane e, in misura minore, a compagnie d’assicurazione. E sorprendentemente l’elenco dei suoi azionisti è riservato. Per fortuna ci ha pensato un dossier di Ricerche & Studi di Mediobanca, diretta da Fulvio Coltorti, a scoprire quasi tutti i proprietari della Banca d’Italia”. Come si può vedere dalla tabella sotto che da tempo non subisce sostanziali variazioni (chi è questo pazzo intenzionato ad uscire dalla proprietà di Banca d’Italia in cambio di poche miglia di euro!), il capitale è per il 94,33% in mano a banche e assicurazioni private. Solo il 5,67% è proprietà di enti pubblici, quali l’INPS e l’INAIL. Assetto proprietario confermato dalla stessa Banca d’Italia, che messa alle strette il 20 settembre 2005 ha reso pubblico l’elenco dei “partecipanti al capitale”.
Da questo momento in poi inizia una turbolenta fase di imbarazzo istituzionale, con i governi che in varie forme e tentativi hanno cercato di porre rimedio al pasticcio giuridico: come il sillogismo aristotelico insegna se la Banca d’Italia è di proprietà delle banche, le banche sono oggi private, segue che la Banca d’Italia è un istituto privato al contrario di ciò che viene riportato nel suo stesso Statuto. E così, per fare pace con il cervello, durante il governo Berlusconi viene promulgata la legge n. 262 del 28 dicembre 2005, che ridefinisce “l’assetto proprietario della Banca d’Italia“, e disciplina “le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della [...] legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici“. Ad onor del vero il primo governo a sollevare la questione era stato quello D’Alema con la proposta di legge n. 4083 del 13 giugno 1999, presentata in Parlamento ma mai approvata (immaginate perché?), la quale tentava di fissare le “Norme sulla proprietà della Banca d’Italia e sui criteri di nomina del Consiglio superiore della Banca d’Italia” e favorire il passaggio del capitale azionario privato allo Stato (come è logico che sia): “Il presente disegno di legge attribuisce al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica la titolarità dell’intero capitale della Banca d’Italia, prevedendo altresì la incedibilità delle quote di partecipazione [...]. Viene poi istituita una Commissione bicamerale avente compiti di vigilanza sull’attività del Consiglio. Il governatore é tenuto a relazionare la Commissione sull’operato e sulle attività svolte dal Consiglio almeno una volta ogni sei mesi”.
Tre anni in Italia passano veloci che è un piacere e banchieri e politici (categorie ormai intercambiabili e indistinguibili) cominciano ad entrare in fibrillazione: bisognava impedire con tutti i mezzi il passaggio allo Stato di Banca d’Italia, per mantenere inalterato quel regime di commistione e opacità che esiste a tutti i livelli nel sistema bancario nazionale. A tagliare la testa al toro ci pensa allora nel 2006 il governo Prodi, con Padoa Schioppaministro dell’economia, l’avvallo del presidente Napolitano, e la supervisione per nulla disinteressata del governatore Draghi (un quartetto da paura! Tutto il peggio della nomenklatura italiana dal dopoguerra ad oggi!), che con il pretesto di riscrivere lo Statuto della Banca d’Italia per adeguarlo ai principi e alle regole contenuti nella nuova legge sulla tutela del risparmio e sulla disciplina dei mercati finanziari (legge n. 262 del 2005), va proprio a ribaltare di fatto la sostanza e il significato dell’articolo 3, per giustificare la presenza degli azionisti privati e sancire l’uscita definitiva dello Stato dall’istituto di emissione. Il nuovo articolo 3 dello Statuto di Banca d’Italia che esce fuori in seguito all’approvazione della legge n. 291 del 12 dicembre 2006, così recita:
Il capitale della Banca d’Italia è di 156.000 euro ed è suddiviso in quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, la cui titolarità è disciplinata dalla legge.

Il trasferimento delle quote avviene, su proposta del Direttorio, solo previo consenso del Consiglio superiore, nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’Istituto e della equilibrata distribuzione delle quote
”.
Questione chiusa: la Banca d’Italia non solo è privatistica nelle funzioni, ma anche privata nella personalità giuridica. Punto e a capo. Come sempre accade in Italia, invece di mettere a posto le cose si cambiano e si stravolgono le leggi per lasciare le cose come stanno. A questo punto però è necessario fare alcune precisazioni per evitare confusione e fraintendimenti vari: il fatto che i proprietari di Banca d’Italia siano privati, non significa che i proventi da signoraggio e da altre attività ricavati dall’istituto vengano distribuiti alle banche, anche perché si tratta di cifre irrisorie, rispetto al potere formale e sostanziale enorme che ha (o avrebbe) una Banca Centrale al servizio dello Stato di indirizzare la politica economica e monetaria di un intero paese. Come ci ricorda la Cassazione, con la sentenza 16751 a sezioni riunite del 21 luglio 2006:
la Banca d’Italia non è una società per azioni di diritto privato, bensì un istituto di diritto pubblico secondo l’espressa indicazione dell’articolo 20 del R.D. del 12 marzo 1936 n.375. La banca, pertanto, segue regole di funzionamento differenti da quelle di una normale società per azioni, come si evince anche dallo statuto, che assegna ai soci un numero di voti non proporzionale alle azioni possedute (limitando i voti dei soci maggiori). Gli azionisti di Banca d’Italia sono le banche (oggi private) che discendono dagli istituti di credito (all’epoca pubblici) che nel corso del tempo sono entrati nel suo capitale. La Banca d’Italia è stata una società per azioni fino al 1936. In quell’anno venne convertita in Istituto di diritto pubblico dall’articolo 3 della legge bancaria del 1936 (ovvero il sopra citato regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 marzo 1938, n. 141, e successive modificazioni e integrazioni). Diciamo che esiste una proprietà formale in capo ad azionisti oggi privati, ma la Banca opera nell’ambito del diritto pubblico. Ciò implica, ad esempio, che lo status giuridico di ente pubblico esclude la possibilità di fallimento della Banca d’Italia e, tramite il suo intervento nei casi di crisi, la possibilità di fallimento delle banche private, garantendo la stabilità dell’intero sistema bancario italiano. Il capitale sociale della Banca ammonta a soli 156.000 euro, versati nel 1936. Secondo l’articolo 3 dello statuto il capitale sociale “è suddiviso in quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, la cui titolarità è disciplinata dalla legge“. Le quote di partecipazione sono costituite da certificati nominativi (art.4). Ai soci sono distribuiti dividendi per un importo fino al 6% del capitale e, su approvazione del Consiglio Superiore, un ulteriore 4% del valore nominale del capitale (art.39), cui si aggiunge “una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve” quali risultano dal bilancio dell’anno precedente prelevata dai frutti annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve, sempre su approvazione del Consiglio superiore (art.40). Gli utili netti vengono per il resto distribuiti come segue. Il 20% degli utili netti conseguiti deve essere accantonato al fondo di riserva ordinaria. Col residuo, su proposta del Consiglio superiore, possono essere costituiti eventuali fondi speciali e riserve straordinarie mediante utilizzo di un importo non superiore al 20% degli utili netti complessivi. La restante somma è devoluta allo Stato. (art 39)”
Quindi rimarranno delusi tutti quelli che ancora credono che sia il signoraggio la parte più ingente e clamorosa della truffa, perché come vedete le cose non stanno esattamente così: pensare che una Banca Centrale guadagni dallo scarto fra valore nominale di una banconota e valore intrinseco di produzione è riduttivo (anche perché le banconote insieme alle monete metalliche costituiscono soltanto il 3% della moneta circolante), se confrontato conl’enorme potenzialità che avrebbe una Banca Centrale sottoposta alle direttive del Governo per finanziare la spesa pubblica, favorire piani di piena occupazione, rilanciare l’economia stagnante di un intero paese, tutelare l’ambiente e il patrimonio artistico, fornire sussidi e detassazioni alle aziende nazionali, garantire i diritti costituzionali a tutti i cittadini e chi più ne ha più ne metta. La vera truffa, l’inganno, il crimine è avere tolto ai Governi la possibilità di utilizzare le “proprie” Banca Centrali nell’interesse del bene nazionale e non ilsignoraggio che risulta soltanto la punta dell’iceberg di un contorto sistema di contabilità. Trascurando la quota irrilevante di moneta cartacea, se vogliamo analizzare meglio cosa fa una Banca Centrale ci accorgeremo che è vero che crea riserve elettroniche dal nulla, ma per comprare titoli finanziari che una volta venduti renderanno alla Banca le riserve elettroniche inizialmente create: bit del computer in cambio di bit del computer, non case, alberghi, ristoranti, aziende, forza lavoro etc. Il guadagno effettivo della Banca Centrale risulta dalla differenza fra l’interesse attivo che incassa sui titoli acquistati e l’interesse passivo che l’istituto di emissione deve corrispondere alle banche che riversano quelle stesse riserve presso i suoi conti di deposito. E  come abbiamo visto buona parte di questo profitto torna nelle casse dello Stato sotto forma di dividendi, tasse e tributi. Tutto qui, non c’è altro. Non ci sono complotti mondiali sotto questa spiegazione.
La vera disdicevole questione legata alla proprietà privata della Banca d’Italia riguarda invece il colossale conflitto di interesse che esiste fra l’ente controllore e i controllati: se i controllati sono i proprietari del controllore, come può quest’ultimo garantire un’attività di vigilanza imparziale, trasparente, equa, efficace? E’ questo infatti il vero nodo da sciogliere intorno alla vergognosa faccenda della proprietà privata di Banca d’Italia e basta guardare cosa accade in paesi più civili e normali per capire che prima o dopo urgerà una soluzione politica del problema istituzionale ancora irrisolto. La banca centrale inglese, Bank of England, è interamentepubblica e ultimamente, infischiandosene della sua stessa autonomia e indipendenza, ha dato addirittura suggerimenti all’austero ed impacciato governo Cameron per uscire dalla crisi: vuoi ridurre il debito pubblico, bene, non tartassare i cittadini, ma cancelliamo insieme i titoli di stato che la Bank of England si ritrova a bilancio. Soluzione naturale e logica, ma ovviamente il governo oligarchico-liberista inglese non ha accettato perché preferisce che i costi della crisi vengano addossati soltanto sui cittadini e si amplifichino le disuguaglianze sociali. La banca centrale tedesca Bundesbank è un istituto dello Stato al pari del Parlamento e del Governo. I profitti della Bundesbank sono disciplinati per legge e ritornano nel bilancio statale fino alla somma di 2,5 miliardi, mentre la parte eccedente viene destinata ad un fondo speciale istituito per finanziare i costi della riunificazione tedesca e vari programmi di sviluppo. La banca centrale francese, la Banque de France, è anch’essa pubblica ed è stata nazionalizzata nel lontano 1936, quando in effetti era ancora di proprietà privata. Il controllo e l’influenza del Governo sulla Banque de France sono rimasti intatti fino al 1993, quando in conseguenza dell’adesione ai trattati europei lo Stato ha dovuto per forza di cose dichiarare l’assoluta indipendenza e autonomia della Banca Centrale dal potere politico. I profitti della Banque de France vanno per più della metà allo Stato, mentre il resto viene distribuito tra fondi pubblici e altre riserve della stessa banca.
Quindi risulta concettualmente sbagliato dire che la BCE, il cui capitale è suddiviso in quote fra le varie Banche Centrali europee, sia una un ente privato, perché sarebbe più giusto affermare che si tratta di un istituto ibrido semi-pubblico o semi-privato, dato che alcuni suoi membri azionisti sono interamente privati, altri completamente pubblici e altri ancora metà pubblici e metà privati. Ma ripetiamo che non è la natura giuridica pubblica e privata la maggiore accusa da rivolgere all’istituto di Francoforte, ma il modo in cui esercita la suafunzione di ente monopolista di emissione della moneta: la BCE, alla stessa maniera delle Banche Centrali nazionali partecipanti, fa un uso privato di uno strumento di diritto pubblico come la moneta, in conseguenza della sua rivendicata autonomia e indipendenza e dell’esplicito divieto di intrattenere qualunque forma di rapporto politico o finanziario con i governi dei rispettivi Stati membri. Paradossalmente una banca centrale interamente privata come la Federal Reserve americana fa un uso più pubblico della disciplina monetaria rispetto alla BCE, dato che mantiene stretti legami di collaborazione e cooperazione con il Governo e il Congresso può in qualunque cambiare le direttive di politica monetaria della Fed tramite decreto. Un esempio invece di Banca Centrale interamente pubblica che fa un uso pubblico del suo potere monetario è laBank of Canada. Ma noi siamo italiani, europei, mica canadesi! Purtroppo.
Tolta di mezzo la questione della proprietà, ci sarebbe un’ultima osservazione da fare riguardo alla BCE. Come si può vedere dalla tabella riportata sotto che mostra le quote di partecipazione delle Banche Centrali nazionali europee al capitale della BCE, un’altra enorme anomalia è rappresentata dalla presenza di Banche Centrali di paesi, come l’Inghilterra o la Svezia, che non fanno parte dell’area euro. Queste Banche Centrali non solo ricevono pro-quota i proventi di gestione della BCE, ma tramite il Consiglio Direttivo influiscono sulle scelte di politica monetaria riguardanti una moneta che loro stessi non utilizzano e non hanno alcuna intenzione di adottare nemmeno in futuro. Siamo al paradosso più assoluto, come se la Banca d’Italia potesse indirizzare le decisioni della Federal Reserve, della Bank of England o della Bank of Japan. Una delle tante assurdità implicite ma mai espressamente denunciante della follia eurista: una volta accettato di aderire all’euro, il pacchetto di scemenze logiche e degenerazioni mentali bisogna purtroppo prenderselo completo.

Questa lunga trattazione spero serva a far capire fondamentalmente una cosa agli attivisti del Movimento 5 Stelle, così come a tutti gli altri italiani che lentamente si stanno cominciando a svegliare dal torpore: da ora in poi la gente non si deve tanto indignare perché la Banca d’Italia o la BCE sono enti privati, ma perché fanno un uso privato di uno strumento di diritto pubblico, di una cosa nostra insomma, dato che la moneta esiste e circola in virtù di una nostra tacita accettazione e del corso legale che ci viene imposto per legge dal nostro Governo democratico. Invece di rivendicare la proprietà pubblica di Banca d’Italia, che oggi come oggi non cambierebbe nulla incastrati come siamo nella follia eurista (Francia e Germania hanno banche centrali pubbliche ma sono spacciati e ingabbiati come noi), le persone dovrebbero iniziare a battere i pugni affinché si ristabilisca quel rapporto di collegamento e cooperazione fra il nostro Governo e la Banca Centrale, così come accade in tutti i paesi civili, democratici e normali del mondo, anche e soprattutto a costo di uscire dall’area euro. Tuttavia, siccome i grandi cambiamenti epocali avvengono sempre per gradi, i deputati del Movimento 5 Stelle avanzino pure una proposta di legge in Parlamento per nazionalizzare la Banca d’Italia, in modo da portarci avanti con il lavoro e trovarci pronti quando saremo di nuovo in grado di rifondare uno Stato di Diritto Democratico e Civile in Italia. Non so con certezza quando questo avverrà, ma vi posso assicurare che non manca molto al momento della resa dei conti. I tempi sono ormai maturi o quasi.

NEL MIRINO: La banca usuraia (video)

La mafia delle aste giudiziarie


La mafia delle aste

LE VENDITE GIUDIZIARIE NELLE MANI DI COMITATI D’AFFARI, PARTITI E LOGGE OCCULTE CHE CONTROLLANO DA NORD A SUD IL RACKET DEI FALLIMENTI E DELLE ASTE, IVI COMPRESA UN’ALTA PERCENTUALE DELLA MAGISTRATURA DI REGIME. 
Un’associazione a delinquere di stampo massomafioso, finalizzata a sovvertire l’Ordinamento democratico e la legalità, è in grado di condizionare l’attività giudiziaria da nord a sud del Paese, attraverso la collusione di intranei ai centri di comando delle istituzioni, sino alla Corte di Cassazione, al C.S.M. e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che, ignorando svariate migliaia di denunce inviate ogni anno da cittadini e imprenditori italiani, garantiscono l’impunità di magistrati corrotti, collusi con banche, finanziarie, usurai, speculatori, partiti, logge massoniche e criminalità organizzata.
Dopo oltre 25 anni di attività abbiamo compreso che il sistema delle aste è strutturalmente marcio e privo di dialettica interna e controlli esterni: solo una rivoluzione civile dal basso potrà cambiarlo, trattandosi di un sistema autoreferenziale, dove ogni rimedio giurisdizionale interno è vanificato, a causa dell’assoluta discrezionalità nell’interpretazione ed applicazione delle leggi.
LA SCOMMESSA PERDUTA DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.
A partire dal caso eclatante del Tribunale di Milano, i media già 10 anni fa diedero grande risalto alla dilagante corruzione giudiziaria legata alle vendite giudiziarie e ai fallimenti. Lo stesso Tribunale di Milano fece pubblicare varie pagine a pagamento sui maggiori quotidiani nazionali, facendoci credere che con gli arresti di alcuni avvocati e pubblici funzionari di quella che fu definita la “compagnia della morte“, si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l’acquisto degli immobili pignorati e svenduti a valori vili “agli amici degli amici”.
Istituzioni e media di regime si affannarono a spiegare ai cittadini che per svariati anni una banda di “professionisti” aveva potuto agire impunemente, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di una tangente (o “pizzo”) pari al 10-15% del valore dell’immobile pignorato, ovvero pilotando l’assegnazione su prestanomi, professionisti e società, i cui interessi, ci veniva però sottaciuto, risultatavano spesso riferibili agli stessi magistrati o loro parenti, come nei casi da noi vanamente denunciati, tra quello dell’allora Presidente della Sezione Esecuzioni immobiliari, dr.ssa Gabriella D’Orsi, tuttora applicata presso altra sezione del Tribunale di Milano, senza che il CSM e la Procura di Brescia abbiano adottato alcun provvedimento a quanto risulta neanche di carattere disciplinare.
Ma ora (sic!) – ci veniva fatto credere già ben 10 anni orsono – le cose sarebbero “cambiate” …
(Vedasi La Repubblica 11/11/03).
LA NOSTRA ESPERIENZA CI PORTA A RITENERE IL CONTRARIO.
Si trattò infatti solo di un’operazione di maquilllage per cercare di ridare credibilità al volto corrotto della giustizia italiana e del sistema delle aste, solo a fini di marketing. Lo dimostrano l’alto numero di denunce che interessano pressoché tutti i tribunali italiani, senza trovare risposta e soluzione da parte degli organi giurisdizionali interni e sovranazionali.
Gli immobili per lo più pignorati dalle banche continuano a venire svenduti a valori infimi a società vicine o soggetti privati legati a doppio filo agli interessi degli stessi istituti di credito e alle loro clientele politico-affaristiche dedite alla speculazione e allo strozzinaggio, come insegna il caso eclatante dell’associziazione a delinquere denominata Monte dei Paschi di Siena, anello di congiunzione tra il malaffare berlusconiano e quello delle cooperative rosse, su cui si arenò anche “mani pulite”.
Attraverso gli sportelli MPS, come di altri Istituti bancari accreditati ad aprire agenzie all’interno dei tribunali italiani, passano, tra l’altro, senza alcun controllo, il riclicaggio e l’autoriciclaggio di ingenti capitali di illecita provenienza, con il beneplacito degli stessi magistrati che dispongono la vendita e l’assegnazione degli immobili pignorati, grazie a una legislazione costruita ad hoc che, dopo le recenti riforme, nonostante la crisi economica, ha ristretto sempre più le possibilità e gli strumenti di difesa dei cittadini esecutati, lasciati in balia delle mafie locali che controllano i tribunali, seppure spesso risultino oberati da pretese illegittime e tassi usurari.
I casi da noi raccolti e in parte pubblicati nella mappa della malagiustizia vedono tra i tribunali più corrotti Milano, Treviso, Alessandria, Brescia, Firenze, Lucca, Roma, Perugia, Napoli, Palermo, etc.
Lo stesso dicasi per quanto attiene l’ambito delle procedure fallimentari controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano (Radio 101), da cui furono sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, misero a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici istituzionali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale.
Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all’insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (CSM, Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ’80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione dell tassativo obbligo di registrazione delle denunce nel Registro delle notizie di reato (Art. 335 c. 1° c.p.p.).
A riguardo, basti ricordare i ben 26.000 procedimenti mai registrati e occultati in soffitta, sotto la reggenza dell’ex Procuratore di Brescia, Francesco Lisciotto, che anche dopo il ritrovamento, dietro nostra denuncia, sono rimasti inesaminati, portando al mero trasferimento-promozione del magistrato con tessera P2, salito per dirla come Monti alla Corte di Cassazione.
Analoghi insabbiamenti sono toccati alle denunce di onesti magistrati fallimentari romani, come nel caso del Dott. Paolo Adinolfi, il quale è stato addirittura fatto sparire fisicamente.
Un caso di lupara bianca insabbiato dalla Procura di Perugia ad alta densità massonica, trattato anche dalla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto”.
Secondo quanto riferito dal magistrato Giacomo De Tommaso, Adinolfi gli confidò il timore di essere seguito e spiato. La moglie di Adinolfi, Nicoletta Grimaldi, rivelò che il marito aveva acquisito prove e documenti che avrebbero potuto far affondare l’intero Tribunale di Roma. Inoltre Adinolfi pochi giorni prima della sua scomparsa aveva chiesto ed ottenuto un appuntamento con il P.M. di Milano Carlo Nocerino, davanti al quale avrebbe voluto testimoniare come persona informata sui fatti.
Le uniche indagini possibili in questo Paese sono solo quelle rivolte nei confronti di coloro che denunciano con prove alla mano i misfatti del potere, accusandoli a scopo eminentemente persuasivo e dissuasivo, come ai tempi del fascismo, di reati ideologici, quali “diffamazione, calunnia, oltraggio a magistrato in udienza, resistenza a pubblico ufficiale…”, molto spesso in relazione agli stessi scritti difensivi e alle denunce mai esaminate delle incolpevoli vittime delle mafie.
La vastità e gravità del fenomeno che non riguarda le sole zone del sud a forte concentrazione criminale ci ha portati a coniare la definizione di “mafia giudiziaria”, in quanto abbiamo rilevato trattarsi di una condizione connaturata all’esercizio stesso della giurisdizione e alle modalità di gestire le funzioni giurisdizionali, a tutela di interessi particolaristici, corporativi e lobbistici, ovvero al modo di intendere le stesse finalità del diritto, secondo una visione deviata rispetto ai principi dello stato di diritto, ad esclusivo appannaggio di partiti e gruppi affaristici trasversali, corporazioni, logge massoniche, che della giustizia e del suo capillare controllo hanno fatto strumento di indebito arricchimento e fonte di finanziamento illecito, in base ad un “codice non scritto“, secondo cui vince chi ha le giuste aderenze e si sottomette alle logiche dominante, che hanno messo in ginocchio l’intera nazione, entrando a fare parte del “giro” dei vari comitati d’affari.
Un codice criminale e preverso imposto dalla politica e dalla cultura del potere che lega larghi settori della magistratura di regime alla criminalità organizzata, dando luogo ad un fenomeno di elevatissima pericolosità e allarme sociale, che possiamo definire come “mafia giudiziaria”, il cui fine è quello di arricchirsi indebitamente, fare carriera negli apparati della burocrazia statale e attingere, consenso, protezione, scambio di favori e illeciti vantaggi, grazie ai legami con la massoneria e la criminalità organizzata.
Non crediate, dunque, di essere gli unici ad avere subito un’ingiustizia dallo svolgimento delle aste giudiziarie o da anomale procedure fallimentari. Si tratta di un sistema criminale istituzionalizzato, da nord a sud del Paese, voluto ed alimentato da banche, partiti, colletti bianchi e mafie locali che controllano il territorio.
Un malaffare legalizzato e tollerato dallo Stato-mafia, che pur cercando di mostrare il volto legale dei propri tribunali, non riesce a celare, alla prova dei fatti, il largo coinvolgimento nel racket delle aste e dei fallimenti da parte di magistrati ed infedeli funzionari.
A riguardo, basti dire che l’ex Presidente della sezione esecuzioni immobiliari del Tribunale di Milano, dr.ssa Gabriella D’Orsi, indicata nel succitato articolo del quotidiano “La Repubblica”, come una sorta di eroina, che avrebbe denunciato il controllo delle aste giudiziarie da parte della “compagnia della morte”, risultava essa stessa indagata dalla Procura di Brescia per avere favorito la vendita di un appartamento, a prezzo irrisorio, in favore della figlia, quando è notoriamente vietato dall’Ordinamento Giudiziario a magistrati e pubblici funzionari di partecipare, anche tramite terzi, alle aste giudiziarie… (ma questa è un’altra storia che potrete conoscere nelle pagine web della Mappa della malagiustizia in Italia).
Segnalateci gli abusi subiti da banche, società immobiliari, avvocati, giudici, curatori, notai delegati, cancellieri, pubblici ministeri, od anche, i casi di cui siete a conoscenza, gli daremo voce, pubblicandoli in tempo reale nella mappa della malagiustizia in Italia.
E’ l’unico modo per spezzare il silenzio e impedire ai poteri forti di nascondere la verità.
Hanno venduto la Vostra casa ad un prezzo irrisorio?
Hanno venduto all’asta il Vostro immobile senza avvertirvi?
Vi hanno fatto fallire ingiustamente?
I Vostri ricorsi non sono serviti a nulla o il Vostro difensore vi ha abbandonato e nessuno vuole più prendere la Vostra difesa?
Vi hanno impedito di esaminare il fascicolo o sono spariti gli atti? Hanno archiviato senza indagini e senza farvi sapere nulla?
Se volete avere assistenza prima di tutto associatevi e scrivete ad Avvocati Senza Frontiere, cercheremo di aiutarvi nei limiti delle possibilità. A causa dell’elevato numero di richieste non siamo in grado di dare informazioni telefoniche e per regolamento possiamo rispondere solo agli utenti registrati e in regola con i versamenti delle quote che ci hanno inviato la necessaria documentazione di supporto.

Spread: nelle mani dei diabolici alchimisti


MTS - la fabbrica dello spread

Glauco Benigni divulga uno dei meccanismi più opachi della tecnofinanza, il processo con cui si determina lo spread. E scopriamo che il congegno letale nasce in Italia...

di Glauco Benigni 

L'argomento appare ammantato da fitte nebbie. È difficile trattarlo in linguaggio corrente in quanto le scarse fonti sono costellate da definizioni tecnofinanziarie angloamericane. La sua storia inoltre è innervata da scelte e decisioni politiche spesso inspiegabili. Una questione da Iniziati veramente "esoterica", nella quale "pochissimi", come vedremo, hanno messo e mettono le mani. Una questione però da divulgare, in quanto ogni giorno, i suoi esiti generano pesanti ricadute sugli Stati (ex Sovrani) e sulle famiglie che abitano in Europa. Su milioni di individui che sono inconsapevolmente, ma al dunque, i "prestatori di ultima istanza" del Debito Sovrano e quindi i garanti di quei cambialoni, detti BOT e CCT, che gli Stati danno alle banche in cambio di denaro.

Questa è la mini-Storia di Sua Maestà lo SPREAD e del luogo virtuale dove i suoi valori oscillano incessantemente. Una Storia che, "stranamente", non è mai comparsa con la giusta evidenza nei media mainstream. Una storia le cui origini risalgono ormai a 25 anni fa e i cui protagonisti rimangono grossolanamente "evocati". Li chiamano i Mercati. La definizione assicura un'impermeabile anonimità. in particolare a uno dei mercati: il famigerato "secondario" di Londra, anche noto nei Pub della City come Jack lo Squartatore.

Se si effettuano delle ricerche però, affiorano nel web antiche tracce di gesti e decisioni rilevanti. 

In un'intervista rilasciata a Specchio Economico nel 2007, Gianluca Garbi, ex consigliere del Ministero del Tesoro, esperto finanziario con incarichi allaBanque Paribas e alla JP Morgan, collaboratore di Mario Draghi, afferma: «Nel 1988 il Ministero del Tesoro, per assicurare una corretta gestione dei Titoli del Debito Pubblico e per indicare anche in modo trasparente i prezzi, istituì un Mercato all'ingrosso dei Titoli di Stato basato su un circuito telematico.» 

Un mercato all'ingrosso dei cambialoni di Stato? Telematico? E chi gliel'ha suggerito al Tesoro nell'88? 

Garbi, attualmente Amministratore Delegato di Banca Sistema, conosce bene la questione perché giustappunto Mario Draghi, dieci anni dopo l'esordio di quel particolare Mercato, lo nominò nel 1998 Presidente del Consiglio di Gestione dell'MTS - Mercato dei Titoli di Stato. «Nacque così - continua Garbi - una vera e propria Borsa del Debito Pubblico in cui ogni giorno vengono scambiati 110 miliardi di euro». 

MTS dunque. Jack lo Squartatore ha un nome. Un acronimo, che all'origine, significa Mercato Titoli di Stato. Se si chiede però oggi"MTS" ad un motore di ricerca del web si rinviene una definizione diversa, ancorché sovrapponibile. Ciò che appare infatti è: MTS Group - Market of Treasury Security, (mtsmarkets.com) una società con uffici a Londra, New York, Milano e Roma che, grazie ad una elegante sito, ci racconta una storia aggrovigliata ma molto interessante. Nonostante sia iniziata in Italia, la Storia è narrata ed è rinvenibile solo in inglese. 

È vero, conferma la brochure, «tutto comincia nel 1988». A quel tempo in Italia due importanti uomini politici: Giuliano Amato, nel ruolo di Ministro del Tesoro e Carlo Azeglio Ciampi, nei panni di Governatore della Banca d'Italia hanno una folgorante intuizione, unsatori degno dei grandi geni delle nuove tecnologie: "Cominciamo a offrire Titoli a reddito fisso emessi dallo Stato non più e non solo secondo le tradizioni, ma con le modalità offerte dalla contrattazione su reti digitali. Ne abbiamo facoltà." In pratica un Mercato che, probabilmente ispirato dal successo di Nasdaq, si collocava nel solco della Rivoluzione Digitale in corso. Geniale! Degno, come dicevamo, di Guru informatici ispirati da una chiara visione tecnofinanziaria. Un modo di comprare e vendere che, da quel momento in poi, avrebbe travolto ogni precedente rituale di scambio dei Titoli di Stato. 

I BoT, i CCT (e simili) dei nonni e delle zie rimaste vedove... quelli che sarebbero stati in seguito definiti Bond, diventavano Securitiestrattabili e scambiabili a grandissime velocità in ambiente "digitale ubiquo". 

Una parte degli scambi si continuava (e si continua) a fare "a voce", ma la tendenza da accreditare era (ed è) quella di usare al massimo i sistemi online. Fin qui tutto bene.

L'MTS era stato "inventato" dagli italiani e restava di proprietà e sotto il controllo degli italiani. 

Per 4 anni si procede, per fasi progressive, alla sperimentazione-evoluzione del sistema. Nel 1992 l'MTS consolida l'uso di una suapiattaforma proprietaria che diventa il suo vero pezzo forte. Nel 1994 vengono introdotti sistemi di controllo ulteriori. Nel 1997 lancia il mercato elettronico delle "repo transactions", i Pronti contro Termine. 

Il 1997 è anche l'anno della prima svolta. Nel 1998 l'MTS vieneprivatizzato: ovvero trasformato in soggetto giuridico di diritto privato. Per l'esattezza una SpA, di proprietà di 52 istituti bancari, operante comunque sotto la supervisione della Banca d'Italia, del Ministero del Tesoro e della Consob.

È a questo punto che entra in scena Gianluca Garbi. Sotto la sua guida l'MTS continua a svilupparsi e comincia a rappresentare un modello in diversi paesi d'Europa e nel mondo. Addirittura sostiene l'attivazione e assume partecipazioni in alcuni mercati locali simili,interfacciando 250 istituzioni finanziarie. Un primato! Un successo che, nel mondo, tutti ci invidiano. Strano ma vero: oltre che per la pizza, la moda, la Mafia e il Bel Canto, gli italiani (alcuni italiani) assumono la leadership in uno dei settori più strategici della contemporaneità. E tutto nell'assordante silenzio dei Media italiani. Il valore della Società passa da 6 a 245 milioni di Euro. Fantastico!

«A partire dal 1999 - continua Garbi nella sua intervista - il modello MTS è stato esportato in tutti i Paesi dell'area Euro in seguito alla creazione di una piattaforma paneuropea, l'EuroMTS.» 

Nel 2001 l'MTS SpA si fonde con l'EuroMTS. Nel 2003 viene lanciato l'indice EuroMTS: «primo indice di titoli statali per l'area dell'Euro - continua Garbi - calcolato in tempo reale e totalmente indipendente e trasparente», vengono anche avviati «il New EuroMTS e l'EuroGlobal MTS. Il primo per lo scambio di bond denominati in euro ed emessi dai Governi entrati a far parte dell'UE. L'altro per lo scambio dei bond emessi da Governi non UE. 

Un'insalatona ricca. Veramente appetitosa. Non c'è che dire. Tant'è che comincia a suscitare gli appetiti dei Moloch. «Nel novembre 2005 - ricorda Garbi - Euronext N.V., che raggruppa le Borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Lisbona, il Liffe e la Borsa Italiana, acquisisce la maggioranza della MTS SpA. . sul tavolo sono arrivate ben 17 offerte d'acquisto e oggi l'azionista di maggioranza, attraverso la holding MBE, è il gruppo formatosi tra la Borsa di New York e l'Euronext». 

E qui l'MTS smette di parlare e tenere conti in italiano. 

Comincia a sciogliersi nel grande mare della finanza globalizzata. Perché? «La fusione con Wall Street - dice Garbi - potrebbe portare ulteriori opportunità di crescita per tutto il Gruppo.» Potrebbe!


In effetti il 2006 è un anno record: i volumi di compravendita aumentano del 13,5%; la società registra un Ebit (guadagno prima delle tasse) di oltre 16,7 milioni di euro; mantiene la leadership nel mercato Interdealer e nel settore reddito fisso europeo, attira addirittura gli interessi della Borsa Cinese e lancia MTS Israel, che in poche settimane raggiunge volumi di scambio superiori al miliardo di euro. «L'alchimia funziona - dicono i Boss - vediamo come tramutare in oro i sogni e i bisogni della gente». 

Da quel momento si crea infatti una specie di bacino virtuale, unlago digitale di bonds, alimentato dalla esigenza degli Stati di ottenere denaro in una stagione in cui non possono più stampare moneta. È qui, al mercato secondario MTS, che si rivolgono gli Stati che hanno adottato l'Euro, più ogni Stato che sta per adottarlo (era il tempo della Slovenia), più Israele. È qui che si trattano le emissioni a reddito fisso. È qui che le Banche manifestano il loro interesse ad acquistare. 

Usiamo il termine lago digitale perché, secondo alcuni analisti birboni, la configurazione assunta a quel punto dall'MTS avrebbe potuto favorire una vera e propria mattanza, in cui alcuni Stati giocavano la parte dei tonni e le reti dei compratori (vedremo poichi) giocavano la parte delle tonnare. E tutto per una brillante intuizione degli italiani. Però!

In quei giorni Garbi così commentava orgogliosamente: «Oggi ogni stato che adotta la moneta unica si rivolge all'MTS per la gestione del mercato secondario . io ho sempre voluto sottolineare la capacità di una società italiana di rivestire una posizione di leadership internazionale . il mercato europeo dei titoli di stato oggi ha sede in Italia, così come la BCE si trova a Francoforte e il Parlamento Europeo a Strasburgo. . anche per questo ho sempre insistito affinché vi fosse personale preparato di diverse nazionalità e di varie culture. Ve ne sono rappresentate ben 17. L'85% parla almeno due lingue, l'età media è 34 anni, il 50% è costituito da donne ». Meraviglioso!

Stando a Garbi dunque l'MTS, ancora nei primi mesi del 2007 aveva sede in Italia. Quanto fosse italiano è discutibile visto che la maggioranza - a sua detta - era finita nelle mani di Wall Street-Euronext . però il timone restava in mani italiane. 

La torta, come sempre, era infarcita di parolone quali: "opportunità di crescita, politiche globali delle grandi Borse, sviluppo della liquidità, trasparenza, efficienza, partnership strategiche . etc.", gli abituali mantra della liturgia tecnofinanziaria praticata dalle élites. 

Ma la tecnologia tricolore era in grado di assicurare l'innovazione richiesta? 

«Purtroppo l'Italia importa nuova tecnologia - rispondeva sull'argomento Garbi - tuttavia per noi questo non è un freno ma uno stimolo.» 

In realtà non era proprio così. 

Nel 2007, nonostante l'orgoglio e le aspettative di successo italiano sbandierate da Garbi, Borsa Italiana, che possedeva il 60,37% diMTS SpA, si fonde con il London Stock Exchange e si crea il London Stock Exchange Group. Perché? Ancora: "opportunità di crescita, politiche globali, etc..." Qualche analista birbone invece dice seccamente: "Sudditanza finanziaria, ordini di lobbies transanazionali, interessi personali"

Non è la prima volta che Qualcuno aveva adombrato questa triste ipotesi. Già nella seduta del 6 aprile 2005, in un'interpellanza parlamentare, a pag. 18654, l'On. Aldo Perrotta affermava: «Dopo la privatizzazione del 1997 la MTS ha conquistato la leadership mondiale tra i listini dedicati ai bond governativi; attualmente però il 54% delle azioni sono in mano ad una società estera; il controllo in mano straniera potrebbe portare a crisi come quella dellaCitigroup; l'Italia non deve abbandonare più "pezzi di competenza" di finanza». E l'interpellanza concludeva con il classico appello: «se non sia il caso di adottare iniziative.» 

Aldo Perrotta, Deputato di Forza Italia eletto a Napoli, era considerato un personaggio "pittoresco", però . aveva visto giusto.Sarebbe stato eccome il caso di adottare iniziative ma, come spesso accade in Italia, nonostante gli allerta, il danno si compie puntualmente. 

Tanto puntualmente che sembra programmato

I media, nel frattempo, distolti da altro, si guardavano bene dall'informare e commentare. Tutto normale.

I boss del London Stock Exchange Group a questo punto, inevitabilmente, strapparono il timone dalle mani italiane e lo affidarono a Mr.Jack Jeffery. A settembre del 2009 l'uomo, che dal 1990 al 2001 era statomanager director della (guarda caso)Citigroup, considerato un grande esperto di digital brokerage e reduce dal'incarico di Direttore generale di una società detta (guarda caso)SuperDerivatives, si siede al tavolo di comando della MTS che, come abbiamo visto ormai è diventataMarket of Treasury Securities e conferma «il volume di scambio è in crescita: 2 trilioni di euro l'anno». Una bella cifretta. 

«La sua nomina è voluta da Xavier Rolet», potente chief executive del LSE. «La sua missione - scrive in quei giorni il Financial Newsonline  - «è placare le grandi Banche d'investimento che nel 2008 hanno protestato perché il mercato dei bonds è stato aperto ad altri soggetti finanziari, tra cui i temuti hedge funds». Jeffery è tutto contento e dice che c'è tanto da lavorare «grazie al livello record di indebitamento dei Governi in tutta l'Eurozona.» Cioè: più si va verso il tracollo più noi diventiamo ricchi. 


Dal 2010 al 2012 la nuova MTS elabora procedure sempre più complesse per la gestione online delle compravendite (riportiamo per la gioia degli esperti: «Key upgrades to MTS Cash - MidPrice and Striker - and BondVision functionalities - Single Dealer Pages and MultiLeg») e acquisisce quali "clienti" l'Ungheria e la Repubblica Ceca, portando così a 17 il numero totale degli Stati europei che chiedono denaro alle banche attraverso l'MTS.

A questo punto è bene farsi alcune domande. La scena operativa si è trasferita definitivamente alla City di Londra, sappiamo che tra London Stock Exchange e Nasdaq ci sono accordi, sappiamo che gli intrecci proprietari nel mondo dell'Alta Finanza conducono a grovigli impenetrabili, ma ufficialmente di chi è la MTS? La brochure risponde che «la Proprietà include i seguenti azionisti» (http://www.mtsmarkets.com/About-Us/Corporate-Information) e pubblica la lista di una ventina di banche che sono, ovviamente, le maggiori banche del mondo occidentale o loro rami (J.P. Morgan; Barclays; Deutsche Bank; Credit Agricole; Royal Bank of Scotland; BNP Paribas; HSBC; ABN AMRO; Citigroup; NATIXIS; Goldman Sachs; Societé Generale; Citibank; UBS, Merrill Lynch; Commerzbank; Credit Suisse). 

E gli italiani? Dove sono finiti gli "inventori", i nipotini di Amato, Ciampi, Draghi? Quelli che - a detta di Garbi - l'hanno fatta grande? 

Ci sono. State tranquilli, ci sono. In testa c'è Borsa Italiana SpA, seguita da Intesa San PaoloSellaMediolanum, Cassa di Risparmio di Rimini, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare di Bari, Unibanca, Corner Sim e BCC di Roma. 

La composizione azionaria al momento non ci è dato sapere. 

Ci si chiede però: 

"Come mai, a ridosso di Giganti Mondiali, trovano posto un numero relativamente così grande di piccole banche italiane?" 

"Qual'è il loro ruolo nelle decisioni prese dal board e quali i vantaggi all'Italia che dovrebbero derivare dalla loro presenza?" 

Non sappiamo. 

Si auspica un dibattito pubblico che però non è mai stato ancora iniziato.

In ogni caso chi opera nel lago digitale dove ogni giorno si ammassano 90 miliardi di eurotonni-bonds? Questo più o meno si sa. A grandi linee, un drappello di 6 maggiori Istituti di Credito:Barclays, Deutsche Bank, RBS, Credit Agricole, J.P.Morgan e Societé Generale si siede al tavolo delle prime contrattazioni e valuta le offerte di bonds dei 17 Stati. 

È ovvio che i rappresentanti delle banche sono quelli che "fanno il prezzo". È ovvio che il governo della nazione che mette all'asta i propri Titoli di Stato vive una certa ansia in attesa dell'accettazione o meno delle proprie richieste. È ovvio che ogni 5 minuti che passano, ogni mezz'ora che passa, ogni dubbio, ogni verifica richiesta dai compratori, abbassa il prezzo e/o alza il tasso di interesse. È ovvio che i compratori hanno un'influenza indebita e spropositata sui Governi e sui Popoli che i Governi rappresentano

La contrattazione è complessa. Vi confluiscono molti elementi determinati dalle economie locali e dai giochi della finanza globale. 

Ma intervengono anche valutazioni di natura propriamente politica e talvolta addirittura militari

Al dunque tutto si fonda su un concetto molto astratto: l'affidabilità di un Governo. Un concetto che però diventa concreto quando "affidabilità" si traduce in "capacità di un Governo di far pagare ai cittadini i debiti che hanno contratto i Governi che lo hanno preceduto". 

I Grandi Compratori mettono a disposizione di un gruppo di altre 30 Banche i Titoli che si stanno trattando. Le 30 Banche mettono a disposizione di circa 1000 Istituti di Credito, disseminati sui territori, i Bond che sono stati acquistati. In quei lunghi momenti il batticuore dei Ministri delle Finanze e del Tesoro (teoricamente) aumenta a dismisura. In quei momenti, grazie a velocissime contrattazioni online, alle quali come abbiamo visto vogliono avere accesso solo Istituti Bancari, si succedono sequenze di prezzi tali che, alla fine del processo, il Titolo è disponibile agli sportelli delle Banche medesime per essere offerto (in gran parte) a quegli stessi cittadini-risparmiatori, che sono in definitiva sia i produttori del PIL che i garanti del Debito del loro Stato. 

In quei momenti i Grandi Compratori dirigono il traffico di flussi strategici e vitali per gli Stati

In quei momenti i Grandi Compratori hanno facoltà di sostenere o mettere in difficoltà i Governi. E lo fanno inevitabilmente privilegiando i propri interessi. E lo fanno - spesso - chiedendo ricadute e privilegi su quei territori che hanno bisogno di accedere al credito. 

"Privatizza questa azienda... fammi comprare quest'altra . ostacola la produzione in questo settore . rallenta quella legge, accelera quest'altra". 

Si chiama perdita di sovranità e globalizzazione passiva. Ci siamo dentro fino al collo. Chi più, chi meno, ci sono dentro tutti i paesi di Eurolandia. 

È all'MTS, fra l'altro, che s'innesca la miccia dello Spread. Al variare del comportamento dei Grandi Compratori, questo valore- parametro oscilla su e giù. Lo Spread si ottiene dal rapporto tra il tasso di interesse applicato ai bond di una nazione di Eurolandia e quello equivalente applicato alla Germania. 

La Germania infatti ha ottenuto lo status di paese di riferimento. Perché? Perché altrimenti non entrava nell'euro. 

La miccia dello Spread è tremenda. Quando il suo valore cresce, brucia velocemente, si avvicina pericolosamente alla bombabancarotta e giustifica rimozioni di Primi Ministri e membri dei Governi, emergenze "tecniche", perverse e frettolose manovre finanziarie, licenziamenti di massa, suicidi, proteste di piazza e conseguenti scontri con morti e feriti.

La scena è decisamente paradossale. Come si è giunti a tutto ciò?Come si può pensare di sostituire la giusta esigenza di un popolo di sopravvivere dignitosamente, magari andando a deficit come fanno tutti quelli che ancora possono, con il gioco usuraio sul bisogno indotto

Come si può pensare che un Debito Pubblico palesemente iniquo e gonfiato, accumulato in modo cinico, incauto e avido dai Governi che si avvicendano, debba e possa essere ripagato con privazioni, lacrime e sangue dai cittadini? Come si può giustificare che tale Debito Pubblico è raddoppiato nella sola Italia, dal 1994 ad oggi, passando da 1000 a 2000 miliardi di euro? Come si può sopportare che le sorti dei Popoli, sottratte ai Parlamenti, siano finite nelle mani di Mercanti anonimi, diabolici alchimisti che tramutano le nostre vite in oro per le loro casse