mercoledì 28 dicembre 2011

Chi ha tradito l'economia italiana?


Chi ha tradito l'economia italiana?

Come uscire dall'emergenza

Chi ha tradito l'economia italiana?
ISBN13: 9788864730783

Data pubblicazione: 20 Dicembre 2011

Pagine: 166


€ 15,00
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La sconfitta del principale paradigma liberista (il risanamento dei conti pubblici come presupposto dello sviluppo) sostituito dal paradigma voluto dal potere vincente, la speculazione internazionale (che, invece, sta sostenendo, subito lo sviluppo con conti in ordine) non risulta ancora digerita dai governi e dagli Stati: che continuano ad anteporre «lacrime e sangue» e a non selezionare le misure di politica economica per scegliere solo quelle che aiutano lo sviluppo senza peggiorare i conti ovvero che migliorano i conti senza penalizzare lo sviluppo. Su questa strada è addirittura l’euro a rischiare, a breve, una brutta fine. Oggi la speculazione finanziaria è dieci volte più forte delle classiche istituzioni internazionali. La stessa Germania, in Europa, non riesce a tenere il passo con il cambiamento dei paradigmi. La svolta liberista anti-keynesiana della fine degli anni settanta ha esaurito la sua spinta devastatrice, ma la attuale prepotenza della finanza internazionale, dove ci sta portando? Su tale linea di ragionamento l’economista Nino Galloni propone questa ricerca che parte dal dopoguerra per arrivare alla cruciale resa dell’Unione Europea al diktat americano fra ottobre e novembre del 2011.
[...]
la pretesa di ottenere, promettere o fornire rendimenti dalle attività finanziarie puramente speculative superiori a quelli dell’economia reale e agli stessi tassi di sviluppo, è la causa determinante l’origine dello squilibrio: eccesso di mezzi monetari sempre piú liquidi per fronteggiare gli impegni sul versante speculativo e carenza di mezzi per le attività produttive sia pubbliche, sia private. Le banche tedesche e francesi (per non parlare delle spagnole e delle inglesi) sono piene di titoli tossici, il cui ammontare supera di decine di volte quello di tutti i debiti pubblici dei Paesi al di qua e al di là dell’Atlantico.
[...]
Il problema di oggi sembrerebbe, invero, rappresentato dal fatto che le attuali cerchie di potere non risultano né responsabili, né lungimiranti mentre i movimenti popolari non trovano coaguli adeguati verso il governo – o, almeno, una qualche proposta-progetto – del cambiamento. Su questa strada sono di ostacolo non solo i cosiddetti poteri forti, ma soprattutto i vecchi pregiudizi e l’esistenza, tipica dei Paesi latini, di una fitta rete di connivenze e di appartenenze che, dal basso, minano la democrazia e utilizzano la legalità al contrario, cioè negandola, per ottenere benefici e privilegi: ciò che segna l’ostacolo a una politica partecipata da tutti e finalizzata al bene di tutti.
[...]
(Dalla premessa dell’autore)
Nino Galloni, (Roma 1953), direttore generale del Ministero del Lavoro, funzionario in diversi ministeri finanziari, è attualmente membro effettivo del Collegio dei sindaci dell’Inps. È stato ricercatore all’università di Berkeley in California, stretto collaboratore di Federico Caffè e ha insegnato nelle università di Roma, Milano, Napoli, Modena e Cassino. È autore di numerosissimi articoli e libri fra cui, più recentemente, Mercato senza padroni (2001), Dopo lo sviluppo sostenibile (2002), Misteri dell’euro, misfatti della finanza (2005), La moneta copernicana con M. Della Luna (2008), Prendi i tuoi soldi... e scappa? (2010); per Editori Riuniti,L’occupazione tradita (1998) e Il grande mutuo (2008).
INDICE
Premessa. L'evoluzione dell'attuale crisi mondiale
I. Dal 1947 al 1962
II. Gli anni'60 e '70
III. Dal <<divorzio>> tra Tesoro e Banca d'Italia alla messa a regime delle privatizzazioni
IV. Il nuovo millennio: dopo la fine della globalizzazione, il nulla?
Conclusione. Come contrastare la catastrofe?
Indice dei grafici e delle tabelle
Indice dei nomi e degli argomenti
Bibliografia

Manca in Italia il salario minimo garantito


Movimento per la società di giustizia e per la speranza

Cari amici
                il Movimento ha preparato questo documento contro la degradazione dei salari e delle pensioni; per il quale chiede il vostro aiuto nell'invio e nella diffusione. Il documento può sempre essere fatto proprio o anche modificato. Gli indirizzi:
Segr. CGIL Susanna Camusso,  segreteria.epifani@cgil.it
Segr. CISL Raffaele Bonanni,  segreteriagenerale@cisl.it
Segr. UIL Luigi Angeletti, info@uil.it   
Un saluto fraterno da Arrigo Colombo
 
Movimento per la Società di Giustizia e  per la Speranza
Lecce

Ai Segretari dei Sindacati Confederali  Cgil, Cisl, Uil
Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti

Manca in Italia il salario minimo garantito

Sembra impossibile, ma è così: in Italia manca il salario minimo garantito per legge.
Come c’è in Francia, dove viene aggiornato ogni anno il 1° gennaio, e c’è in altri novanta paesi.

Si comprende allora la denunzia fatta da Draghi nel 2007: che il salario italiano è inferiore del 30% a quello dei maggiori stati europei (del 50% rispetto a Germania e Inghilterra).
Avendo il Sindacato rinunziato alla scala mobile, che garantiva ogni volta un adeguamento del salario all’inflazione. Un grave errore, che ha contribuito al degrado dei salari.

Che cosa pensa di fare il sindacato? Perché non ha reagito alla denunzia di Draghi? Perché non ha raccolto le proposte via via presentate per la ripresa della scala mobile? Perché non chiede il salario minimo garantito per legge?
Che cosa pensare di questa inerzia sindacale?

V’è poi il problema delle pensioni, di cui tanto si è discusso in queste settimane.
Si è parlato di un minimo di pensione intorno ai 470 euro, un fatto vergognoso, indegno di un paese civile; di un paese, poi, che è al settimo posto nella produzione di ricchezza.

Bisogna pensare ad una pensione minima garantita per legge, in modo analogo al salario;
una pensione decorosa per una esistenza decorosa, rispondente alla dignità della persona umana, oltre che al suo bisogno.
Che cosa pensa di fare il Sindacato? perché non si batte
per il salario minimo garantito per legge,
per la pensione minima garantita per legge,
l’uno e l’altra rispondenti al bisogno e alla dignità della persona umana?
Perché tollera delle pensioni da fame?
Lecce, dicembre 2011
                                                              Per il Movimento il Responsabile
                                                                     Prof. Arrigo Colombo

Arrigo Colombo, Centro interdipartimentale di ricerca sull’utopia, Università di Lecce
Via Monte S.Michele 49, 73100 Lecce, tel/fax             0832-314160      

Come liberarsi degli usurai


L`argentinazo, ovvero come liberarsi degli usurai
di Romano Guatta Caldini - 27/12/2011

Fonte: Rinascita

Sono passati dieci anni da quando, nel dicembre del 2001, il moto popolare - passato alla storia come l'argentinazo - mise in scacco il governo dell'allora Presidente argentino Fernando De La Rua, provocando le dimissioni di quest'ultimo.

In poco meno di due decenni l'Argentina, dalla dittatura militare, si trovò catapultata nell'incubo della dittatura finanziaria. Una crisi economica senza precedenti, quella argentina, dei primi anni del nuovo millennio, che oggi si ripresenta in Europa con gli stessi spettri e gli stessi carnefici.
In questi termini - un anno dopo gli avvenimenti che hanno portato De La Rua a dimettersi - Naomi Klein così descrisse la lotta del popolo argentino: ”l'Argentinazo non è stato organizzato da una forza politica alternativa che voleva prendere il potere. E diversamente da quanto accade generalmente nel caso di una rivolta, la richiesta è stata univoca e inequivocabile: l'immediata rimozione di tutti i politici corrotti che si sono arricchiti mentre l'Argentina (...) precipitava in una spirale di povertà (...). Questa gente ha urlato contro le banche, ha lottato contro la polizia, (...) riuscendo a far fuggire il presidente e obbligandolo a lasciare la sua residenza a bordo di un elicottero”.
La catastrofe finanziaria aveva radici profonde, a partire dagli anni della dittatura militare (1976 – 1983) che portò il Paese ad un rapido processo di de-industrializzazione. Spesso gli analisti - a torto - sottovalutano il ruolo ricoperto dai militari, all'interno del processo di privatizzazioni selvagge che portò l'economia argentina al collasso. In un saggio pubblicato da “Usa crimes” leggiamo: “Per ottenere prestiti dalle banche private, il governo pretendeva che le aziende pubbliche argentine si indebitassero con le banche private internazionali, trasformandosi perciò in assi portanti della snazionalizzazione dello Stato, attraverso un indebitamento che comportava l'abbandono di gran parte della sovranità nazionale. La dittatura argentina non avrebbe potuto mantenere il regime di terrore interno nei primi anni senza la benedizione dell'amministrazione nordamericana. Da parte sua, la Federal Reserve degli Stati Uniti era più che disposta a sostenere la politica economica della dittatura argentina, visto che gran parte del denaro del debito era depositato nelle casseforti delle banche nordamericane”. Del resto, già Rodolfo Walsh, prima di venire assassinato da un commando dell'ESMA, nella sua “Carta Abierta a la Junta Militar” presagiva che gli effetti devastanti, dei tagli allo stato sociale operati dai militari e la consegna dell'Argentina in mano al FMI, non si sarebbero fatti attendere molto - venti, trentanni al massimo - e che la “guerra sporca”, oltre alle vittime della repressione, avrebbe lasciato in eredità un'economia in ginocchio. Considerazioni, quelle del periodista montonero, che troveranno un triste riscontro - circa venticinque anni dopo - nel fatidico dicembre 2001.
Dopo la caduta della Giunta militare, ci un fu un susseguirsi di governi totalmente inadatti e incapaci a ristabilire i rapporti di forza con gli istituti di credito, detentori del debito argentino. Il colpo di grazia, all'economia del paese latino-americano, venne dato dal governo di Carlos Saúl Menem (1989 -1999) nel corso degli anni novanta. L'apparente miglioramento dell'economia argentina, durante il primo mandato di Menem, portò la media borghesia ad abituarsi ad un tenore di vita sopra le proprie possibilità e ad indebitarsi ulteriormente. Nel 1991 si inserì il tasso di cambio fisso tra la moneta argentina e il dollaro. Si trattava, comunque, di un boom economico fittizio. Quello che il settimanale Time definì “il miracolo di Menem” consistette in una corsa verso il baratro, attraverso la privatizzazione delle maggiori aziende di stato: dalle compagnie petrolifere e telefoniche, a quelle ferroviarie ed aeree. Per uscire dalla crisi che iniziò ben presto a manifestarsi, Menem mise in pratica quello che lui stesso definì un programma di “tagli senza anestesia”. In pratica, si sarebbero dovuti fare dei notevoli sacrifici, ma alla fine l'economia avrebbe ritrovato il suo equilibrio. Un programma – quello di Menem – che ha inquietanti assonanze con ciò che il Presidente Mario Monti, negli ultimi giorni, ha previsto per l'economia italiana.
Come è facile immaginare i risultati della politica menemista non fecero altro che acutizzare la crisi, infatti, sul volgere degli anni novanta e l'inizio del nuovo millennio, il tasso di disoccupazione - in Argentina - superava il 20%; la forbice fra la popolazione indigente e la minoranza benestante crebbe a dismisura, le attività produttive nazionali erano in piena stagnazione, quando non addirittura al collasso, mentre il debito pubblico era ormai fuori controllo; tutto questo in un clima di corruzione dilagante e di tagli insostenibili allo stato sociale, per quel poco che ne rimaneva.
Il periodo della presidenza di De La Rua (1999-2001) è caratterizzato da un crescente indebitamento e, quindi, da un massiccio intervento del FMI all'interno delle politica economica argentina. L'austerità delle riforme imposte dal “Washington consensus” - in cambio dei prestiti da usura - provocò il precipitare della crisi. A ciò bisogna aggiungere il mancato ricorso ad una svalutazione competitiva del Peso, che sarebbe stato possibile solo sganciandosi dal regime suicida del tasso di cambio fisso Peso/Dollaro. Una riconquistata sovranità monetaria avrebbe permesso di evitare le successive manovre economiche imposte dal FMI. Invece l'Argentina – per pagare il proprio debito – fu costretta ad indebitarsi ulteriormente: una spirale cieca che la Grecia dei nostri giorni conosce bene.
Il Presidente De La Rua, come il suo predecessore Menem, seguì pedissequamente quanto imposto dai diktat del FMI, andando inevitabilmente incontro all'ira della popolazione esasperata dalla recessione. Posta nelle condizioni di non poter assolvere al debito contratto, per l'Argentina venne dichiarato il default. Ingenti somme di capitali, quotidianamente, uscivano dal paese, mentre i piccoli risparmiatori si accalcavano agli sportelli delle banche richiedendo la restituzione del proprio denaro. Per arginare la corsa agli sportelli bancari il governo adottò misure note come il “corallito”: si trattava del congelamento dei conti correnti, per dodici mesi, permettendo ai correntisti - solo ed esclusivamente - il prelievo di piccole somme di denaro.
In questo stato di cose venne a crearsi il contesto favorevole per un'insurrezione popolare scevra da rivendicazioni classiste; la lotta era fra i governanti - i lacchè delle banche - e la popolazione nella sua interezza: dai disoccupati ai commercianti, dagli operai agli studenti, ma anche i pensionati e tutto quel ceto medio che vide i suoi risparmi sparire da un giorno all'altro . La totale assenza di rappresentanza politica, all'interno della protesta, favorì il compattarsi dei manifestanti scesi in piazza al grido "que se vayan todos!".
Nei giorni antecedenti il 21 dicembre vennero prese d'assalto le banche e gli esercizi commerciali direttamente riconducibili alle multinazionali nord-americane. De La Rua dichiarò lo stato d'emergenza che culminò negli scontri fra la polizia e i manifestanti, del 20 e del 21 dicembre, a Plaza de Mayo. La rivolta lasciò sull'asfalto cinque morti e centinaia di feriti. Nonostante la feroce repressione delle forze governative, la popolazione non aveva intenzione di mollare. Così – dopo due pietosi, quanto ridicoli interventi televisivi atti a giustificare il suo infame operato – De La Rua venne costretto a dimettersi e a scappare in elicottero dal tetto de la Casa Rosada. Con i moti di dicembre del 2001, gli argentini si riappropriarono del proprio destino di nazione, aprendo la strada all'avvento di Nestor Kirchner, l'uomo che seppe imporsi sul FMI, gettando le basi della rinascita argentina.
Se è vero che il motore della storia è la lotta di popolo - come più volte abbiamo sottolineato sulle pagine di questo giornale - allora noi italiani, come gli spagnoli e il popolo greco, dobbiamo prepararci ad uno scatto d'orgoglio, ad una presa di coscienza, perché come ci insegna l'esperienza argentina, la dittatura finanziaria non è invincibile.
 

Le cipolle amare del Governo Monti


Le cipolle amare del Governo Monti
di Beppe Scienza - 27/12/2011

Fonte: Il Blog di Beppe Grillo

Le cipolle amare del Governo Monti
(11:00)
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Il Governo Monti è come una cipolla. Lo strato esterno, quello più visibile, è la BCE. Governo della UE quindi. Ricordate? Soltanto un mese fa l’Italia rischiava di far implodere l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina, il mondo intero, se lo spread avesse superato i 500 punti con il bund e gli interessi sui titoli di Stato il 7%. Cose che sono puntualmente successe anche con Monti, il bocconiano, l’uomo del Colle, ma senza conseguenze a parte le tasse. Governo dei bocconiani quindi. Il terzo strato sono le banche, italiane e straniere, che rischiavano di veder diventare carta straccia le decine di miliardi di euro di titoli italiani acquistati. Governo delle banche allora, in particolare quelle francesi, dopate di Btp. Il quarto strato della cipolla è Banca Intesa, la più grande del Paese. Governo di Banca Intesa infine, con due esponenti di primissimo piano come Passera e la Fornero. Entrambi con un curriculum di tutto rispetto a favore dei lavoratori. Si è passati dal governo delle televisioni private di Mediaset a quello di Banca Intesa. Nulla è cambiato, tranne i beneficiari diretti.
Beppe Scienza ci spiega nel suo Passaparola chi sono Passera e la Fornero (detta Frignero).

Intervento di Beppe Scienza, matematico ed economista,

Corrado Passera, l'uomo delle banche 
Sono Beppe Scienza, insegno al dipartimento di matematica dell’Università di Torino e da un po’ di anni, anzi un po’ di decenni mi occupo di risparmio e di previdenza integrativa. 
Questo governo, presentato un po’ come il governo dei bocconiani sui quali ce ne sarebbe da dire parecchie perché in realtà proprio sul tema del risparmio e della previdenza integrativai bocconiani tengono bordone ai peggiori prodotti e ai peggiori soggetti nel settore, in effetti più che un governo di bocconiani, ha l’aspetto di in essere un governo di banchieri e addirittura, visti due soggetti come Corrado Passera e Elsa Fornero, di Banca Intesa. Mi domando se le riunioni vengono fatte a Palazzo Chigi o direttamente alla sede milanese di Banca Intesa San Paolo, ma questo è un fatto normale, le riunioni si possono fare da qualunque parte, è la politica che preoccupa veramente e preoccupa per il futuro, perché questi soggetti Corrado Passera e Elsa Fornero, hanno un passato che promette male e già hanno preso alcune decisioni, mi limito a trattare gli argomenti del risparmio e della previdenza integrativa, che non sembrano proprio nell’ottica dei cittadini. Su Corrado Passera mi viene da dire qualcosa, non tanto sulla vicenda di Alitalia dove ha tenuto sicuramente le parti del Governo Berlusconi, ma fare un piccolo passo indietro, lui fu messo a capo delle Poste nel 1998, ci rimase fino al 2002, sicuramente sanò il bilancio delle Poste, questo è vero, Passera non era uno stupido, lo assicuro, però come lo sanò? Creando Banco Posta. Gli uffici postali… se uno entra vede più sportelli finanziari che sportelli per i prodotti postali, anzi finisce che chi vuole fare una raccomandata o inviare un pacco si trova un po’ come un pesce fuor d’acqua. Banco Posta ha trasformato le Poste in un bazar di prodotti finanziari, in genere pessimi o comunque cattivi, sicuramente mediocri, soppiantando in gran parte i buoni fruttiferi postali e aumentando certamente i ricavi delle Poste, ma giocando sulla fiducia che la gente aveva nelle Poste perché abituata ai buoni fruttiferi postali con cui non poteva perdere niente. Tutt’ora non può perdere nulla, perché saranno una cosa un po’ polverosa, poco entusiasmante, però i buoni fruttiferi postali continuano a essere l’unico prodotto insieme ai conti correnti e ai depositi bancari, dove uno non ci rimette mai quello che ha messo e può ritirarlo in qualunque giorno.
Invece sono stati soppiantati. Di tutto e di peggio cioè obbligazioni strutturate, fondi pensione, fondi comuni, polizze vita, tutto questo vendono adesso le Poste, grazie all’opera di Corrado Passera e alla sua creazione di Banco Posta per cui già questo passato non è bello. Nel 2002 Passera lascia le Poste e va a Intesa San Paolo. Intesa San Paolo, prima banca italiana per numero di sportelli, forse non peggio delle altre, ma certamente specializzata nel rifilare ai propri clienti prodotti di risparmio e previdenziali studiati per far guadagnare la banca, non certo il cliente, tra cui alcune cose tremende, come delle polizze vita che intrappolano uno per un anno. Uno ha dei soldi disponibili, sottoscrive la polizza vita e per un anno i soldi sono bloccati, bello, carino questo, sono prodotti di Intesa San Paolo e anche di altre banche. 
Quindi da dove viene Passera? La cosa crea qualche perplessità e prospettiva che viene confermata da una delle prime cose, sbandierata come una norma antievasione della lotta al contante. Qual è la lotta al contante? È un vecchio cavallo di battaglia delle banche italiane, da un po’ di anni, 7/8 anni, che continuano a dire che in Italia circolano troppi contanti, bisogna pagare con moneta elettronica o simile. Tutte queste cose vengono ripetute dai giornalisti economici che come i pappagalli, qualunque idiozia dica l’ufficio stampa di una banca, lo ripetono nella loro pagina.
Per cominciare, questo non è vero perché anche all’estero, per esempio in Germania, l’uso del contante è molto alto. Da uno studio recente dell’anno scorso della Deutsche Bundesbank, della banca centrale tedesca, risulta che i tedeschi, l’82% degli acquisti fatti dai tedeschi, viene fatto con moneta contante. La banca nazionale tedesca non trova niente di male in questo, anzi lo trova logico, dice “E’ logico che per piccoli importi, per varie cose ci voglia il contante, lo trova logico, no qui no!”. Siamo arrivati al punto che questo Governo ha deciso, poi adesso si sta rimangiando in parte, che le pensioni oltre i 500 Euro vanno pagate non in contanti, ma in forma di accredito su conto corrente. Pensare che il pensionato che ha 700 Euro di pensione e ritira alle Poste 730 Euro con questi soldi ricicli denaro sporco è un po’ strana. 
Perché questa lotta ai contanti? Ma perché le banche ci guadagnano in tutti i pagamenti elettronici, ci guadagnano in due sensi: 1) quello più immediato, le commissioni che prendono, le commissioni anche sul Bancomat, le commissioni sulle Carte di Credito che arrivano anche al 4% e di fatti la Confcommercio è contraria a questo divieto di pagare in contanti, perché ogni volta che il commerciante incassa con la carta di credito o in altra maniera, una parte viene lasciata lì alle banche. Poi c’è un altro punto: che alla banca fa gioco che restino soldi sui conti correnti e non nei portafogli in banconote, perché così ha un finanziamento che non paga nulla, perché sui vostri conti correnti non dà nulla di interesse e le banche hanno fame di soldi in questo momento di crisi, e difficoltà a averli perché tra l’altro non si fidano a prestare i soldi l’una all’altra.

La Fornero vuol dire fiducia nei fondi pensione 
Il punto è che quando io pago in contanti in un negozio, in questo pagamento la banca non ci guadagna nulla, prendo le banconote, le do al commerciante, ritiro la merce. La banca vuole guadagnarci anche su questo! Ora prendiamo un altro soggetto di questo governo, Elsa Fornero, la quale adesso a quanto pare oltre che ministra, vuole anche dedicarsi a altre attività, fare l’attrice, specializzata in scene di pianto recitate anche un po’ male!
Elsa Fornero viene anche lei da Banca Intesa dove era nel Consiglio di sorveglianza, prima era stata nella Compagnia San Paolo, fondazione bancaria e un suo prodotto è il Cerp , centro di ricerca sulle pensioni, vicino a Torino, finanziato anche esso dalla Compagnia di San Paolo. Per adesso la Fornero si occupa di massacrare un po’ le pensioni e i pensionati, quello che mi aspetto, purtroppo, è un attacco pesante al Tfr e un aiuto all’industria parassitaria della previdenza integrativa, perché anche qui abbiamo dei precedenti, i precedenti sono vari articoli di costei e in particolare la posizione che assunse nello sciagurato semestre del 2007 in cui se uno stava zitto, il suo Tfr finiva nei fondi pensione. Ebbene, in un’intervista radiofonica Elsa Fornero il 19 gennaio 2007, si esibisce in questa affermazione riguardo ai fondi pensione e al dare i propri Tfr ai gestori: “La cosa importante è che noi abbiamo un buon mercato che funziona bene, che ha operatori professionali, che ha una buona legge sul risparmio, ha trasparenza, ha anche professionalità e correttezza” dopo tutto quello che è capitato in Italia, Argentina, Sirio, Parmalat, fondi comuni che fanno perdere soldi dal 1984 da quando esistono, abbiamo un buon mercato che funziona bene, che ha professionalità e correttezza, ma non è finita! Perché poi riguardo alle perplessità di qualche ascoltatore sul fatto che magari mettere il Tfr nei fondi pensione poteva anche essere rischioso, la grande economista si esibisce in un’invocazione accorata che è anche una profonda analisi della situazione, la sua affermazione è “Ci vuole anche un po’ di fiducia” siamo a livello del noto slogan di Carosello degli anni 60 “Galbani vuole dire fiducia”!
Da questi ministri provenienti da Banca Intesa, io mi aspetto purtroppo il peggio per i risparmiatori e per quanto riguarda il Tfr per i lavoratori italiani! Da una persona come Elsa Fornero mi aspetto interventi a danno del Tfr e a favore di quella strana alleanza spuria che è fatta da sindacati, associazioni di categoria padronali, banche, assicuratori e gestori che tutti in un modo o nell’altro, succhiando soldi ai lavoratori, guadagnano sulla previdenza integrativa, costringendo i lavoratori stessi a giocarsi il proprio Tfr alla roulette dei mercati finanziari!

Ungheria contro FMI e BCE


Ungheria contro FMI e BCE
di Magyar Narancs - 27/12/2011

Fonte: presseurop 

Il governo di Viktor Orbán vuole rompere con la subordinazione dei suoi predecessori ai mercati internazionali e ristabilire la sovranità economica. Ma il rischio di un doloroso fallimento è elevato. 

Il secondo regno di Viktor Orbán è contrassegnato dalla volontà di rompere l’ideologia che ha caratterizzato l’Ungheria dopo la caduta del regime comunista. Tutto quello che dice e che fa va in questa direzione. L’idea guida degli ultimi venti anni era la “modernizzazione”. “La sovranità” era invece solo un elemento di fondo, un miraggio. Lo scopo della seconda era Orbán – la prima è durata dal 1988 al 2002 – è quindi ricostruire il potere sovrano, che si sarebbe disintegrato negli ultimi otto anni [con i governo socialisti-liberali]. 

L’obiettivo del suo progetto è di conseguenza la creazione di un capitalismo all’ungherese. La politica in apparenza sconclusionata del suo ministero dell’economia serve in realtà a fornirgli le munizioni per distruggere la rete che continua a tenere le redini del paese. Per il resto il progetto di Orbán è molto semplice: il capitalismo ungherese non può esistere senza capitali ungheresi, in particolare i capitali finanziari. 

Ma come sapere se il denaro, che per definizione non ha odore, è “ungherese”? In che misura una banca che ha una vasta clientela nel paese e che dà lavoro a diverse migliaia di ungheresi può essere considerata “straniera”? È semplice, secondo il “sistema Orbán” possono essere considerati ungheresi i capitali disposti a collaborare alla creazione di un capitalismo ungherese, anche se i limiti di quest’ultimo rimangono vaghi. 

Per creare questo capitalismo ci vogliono quindi delle istituzioni finanziarie – banche e assicurazioni – in grado di “invadere” i mercati. Queste istituzioni si possono creare grazie a degli investimenti diretti dello stato nelle nuove banche o attraverso l’acquisto della sua quota da parte di quelle esistenti. Una volta che saranno schierate in ordine di battaglia, si potrà cominciare a fare pressioni sugli altri attori del mercato. 

Le istituzioni finanziarie create di recente dallo stato sono tutte dirette da uomini di fiducia del primo ministro e anche se le banche austriache o tedesche possono ricomprare delle banche ungheresi, nulla vieta il contrario. Allo stesso modo “le poche istituzioni finanziarie che rimangono nelle mani dello stato” possono sempre essere ricapitalizzate. Inoltre quando sarà il momento sarà sempre possibile di procedere a un riacquisto da parte dello stato delle istituzioni che si sono sviluppate in questi ultimi anni in modo autonomo. Quando si possiedono i due terzi dei seggi al parlamento si può fare quasi tutto. 

Ammettendo quindi che queste istituzioni esistano, bisognerà trovare i capitali per procedere all’invasione programmata. Niente di più facile: lo stato dispone di molti mezzi per avvantaggiare gli attori “locali” nelle gare di appalto o facendo leva sulla regolamentazione fiscale e per spingere nelle braccia delle banche ungheresi la massa di chi cerca dei capitali. In effetti dall’autunno scorso la Pszáf [l'Autorità di sorveglianza del settore finanziario] infligge sempre più volentieri multe agli attori multinazionali. La tassa eccezionale applicata alle istituzioni finanziarie obbliga le banche straniere a trasferimenti netti di capitale nelle loro filiali ungheresi. 

Dal disfattismo all’autarchia 

Ma per ora rimangono numerosi ostacoli alla realizzazione di questo progetto. Prima di tutto le banche ungheresi non hanno abbastanza liquidità per proporre crediti in forint a un prezzo accessibile. E non saranno mai in grado di sostituire i loro concorrenti internazionali nel settore dei crediti alle imprese. I nuovi attori del capitalismo ungherese potranno entrare sul mercato solo attraverso il risparmio o l’aumento di capitale. Ma la popolazione non ha i mezzi per risparmiare; anche lo stato è pieno di debiti e le imprese sono indebitate fino al collo. In questa situazione si ha bisogno di investitori stranieri – o ungheresi – che possano essere convinti della validità del progetto di Orbán. Ma è poco probabile che questi argomenti siano stati all’ordine del giorno in occasione dei suoi recenti viaggi in Arabia Saudita e in Cina. 

Assisteremo invece all’erosione e al crollo delle difese che attualmente proteggono i proprietari del settore finanziario ungherese? È troppo presto per dirlo. Ma il recente abbassamento del rating del paese non lasciare presagire nulla di buono in questo senso. Se il rating continuerà a scendere, le vendite di titoli di stato saranno bloccate e l’euro sopra la soglia dei 300 forint e il franco svizzero a 250 saranno difficilmente alla portata degli ungheresi, per lo più indebitati in valute estere. Se invece il progetto riesce, si creerà una squadra economica favorevole a Orbán, che renderà di fatto il paese ingovernabile per chiunque altro. I politici non avranno altra scelta che scendere a compromessi con questo leviatano economico. 

Da 20 anni le élite post-comuniste e neoliberali – che sono ormai un unico fronte – si sono limitate a servire gli interessi dei capitali internazionali in cambio del sostegno morale e finanziario dell’occidente. Di fronte a questa strategia di sopravvivenza basata sul disfattismo, il progetto di Orbán corrisponde molto meglio allo stato d’animo attuale degli ungheresi, stanchi di subire passivamente. Il problema di questo progetto non è quello che gli rimproverano gli ambienti d’affari (che sono apolitici) o gli analisti liberali o di sinistra tendenti a dare un carattere eccessivamente politico alla questione. Il vero problema è che indipendentemente dalla riuscita o meno del progetto di Orbán, il risultato sarà tragico. 

  
Traduzione di Andrea De Ritis
 

Il sogno dei costruttori dell’impero economico...


Il sogno dei costruttori dell’impero economico...
Pillole di Maurizio Blondet - 27/12/2011

Fonte: rischiocalcolato 


 http://www.comedonchisciotte.org/images/13070.jpg
“Il sogno dei costruttori dell’impero economico si sta realizzando. Il sistema globale sta armonizzando gli standard paese dopo paese….verso il minimo comune denominatore. Alcune imprese socialmente responsabili cercano di opporsi alla marea con qualche limitato successo, ma la loro non è una lotta facile. Non dobbiamo ingannarci. La responsabilità sociale è “inefficiente” in un mercato libero globale, e il mercato non perdonerà coloro che non approfittano di tutte le opportunità per liberarsi dell’inefficiente. E dobbiamo essere chiari sul significato di efficienza. Per l’economia globale, le persone non solo sono sempre meno necessarie, ma le loro richieste di un salario sufficiente a vivere sono una fonte primaria di inefficienza economica. Le multinazionali globali si stanno purgando da questo peso indesiderato. Stiamo creando un sistema che ha meno posti per le persone”.

David Korten, economista, già professore alla Harvard Business School.