Soldi e partiti? «Paragonabile ad un misto di cosche mafiose e servizi segreti»
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella - 03/02/2012Fonte: Corriere della Sera
Tre decenni di promesse e di rimborsi senza freni
E si offriva pure, Luigi Lusi, di fare l'elemosina ai cittadini: una rinuncia a 200 euro sull'indennità parlamentare, crepi l'avarizia, mentre stava per fare sparire 13 milioni. Ridurre il caso del tesoriere della Margherita alla mascalzonata di un singolo, però, sarebbe sbagliato: se è successo è perché nel mondo opaco dei finanziamenti ai partiti poteva succedere. E questo è il problema.
L'allarme sulla gestione dei soldi statali da parte delle forze politiche ha radici lontane. Nel 1982 Marcello Crivellini la bollava come «paragonabile ad un misto di cosche mafiose e servizi segreti». E annunciava: «Quest'anno i revisori dei conti del Partito Radicale non sono scelti in base a criteri di partito, ma sono esterni di provata e indiscutibile capacità professionale».
Tutti dovevano poter conoscere il bilancio dei Radicali, continuava Crivellini: «Tutti debbono poter essere nostri revisori dei conti. Anche Craxi, Andreotti o Gelli se lo vogliono, così come un qualsiasi cittadino che sia iscritto o no al Partito».
Sono passati tre decenni, da allora. Tre decenni e un referendum che abolì il finanziamento pubblico e fu svuotato dal rattoppo dei «rimborsi elettorali». Rimborsi schizzati come è noto, tra il 1998 e il 2008 (anni in cui il Pil rimaneva sostanzialmente al palo), del 1.110%. Eppure proprio il caso dei soldi spariti dalle casse della Margherita dimostra come l'obiettivo di una vera trasparenza, invocata ieri da Bersani e Casini (che dicono di volere nuove regole «in una settimana») sia ancora lontano.
Eppure era già successo. Basti ricordare, tra gli altri, lo scandalo dell'immenso patrimonio della Dc. Era un impero immobiliare, con dentro gioielli come palazzo Sturzo all'Eur o la villa della Camilluccia per un totale di 508 immobili. E dopo una serie di oscuri passaggi societari e una catena di svendite a prezzi stracciati senza manco una perizia, finirono in gran parte in società fantasma che avevano sede in una catapecchia diroccata nelle campagne di Babici, in Istria, ed erano intestate a un italo-croato che campava scaricando cassette al mercato di Trieste.
Era già successo e, con le regole attuali, non poteva non succedere di nuovo. Lo scriveva ieri mattina, su «Europa», il giornale che fu della Margherita, il direttore Stefano Menichini: al di là delle responsabilità di Lusi «ci vuole l'umiltà di riconoscere l'errore collettivo di una platea più vasta — ci siamo dentro anche noi — di tutto il mondo che vive di politica e non aveva voluto vedere quanto fosse insostenibile il metodo di finanziamento dei partiti coi cosiddetti rimborsi elettorali, per di più a partiti estinti». Partiti defunti che incassano la metà dei rimborsi.
Il responsabile delle casse del Pd Mauro Agostini, in un libro autobiografico intitolato appunto «Il tesoriere», l'aveva scritto due anni fa con parole dure: «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po' sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica». Cupa o no che fosse la sua fotografia, spicca un dato: solo il Pd risulta aver fatto certificare il bilancio dal 2008, nella scia di quell'antica scelta radicale, dalla Price Waterhouse Coopers. E se agli ex Ds eredi dei debiti ma anche del patrimonio immobiliare del Pci va riconosciuto di avere messo online il loro bilancio (con l'impegno a metterci anche quelli di tutte le fondazioni-casseforti nelle quali sono state «messe al sicuro» case, negozi, palazzi) gli altri si regolano in maniera diversa. Sono online quelli dell'Idv o di Sel, non quelli della Lega (o se c'è è praticamente introvabile) e del maggiore partito italiano, il Pdl. La cui tesoreria è sì disponibile a fornire via fax quattro fogli di rendiconto, ma da qui a metter tutto a disposizione dei cibernauti ce ne corre...
La deflagrazione del «caso Lusi e del bilancio dei Dl», il cui acronimo ha fornito ieri a «Libero» lo spunto per il titolo «Diversamente Ladri», spingerà finalmente a una sterzata? Vedremo. Agostini sta preparando una proposta di legge per rendere obbligatoria la certificazione dei bilanci dei partiti da parte di società di revisione indipendenti, già adottata nello statuto di Fli. Con l'introduzione di forme di controllo radicalmente diverse: oggi il tesoriere è affiancato da un comitato di uomini per lo più fedeli alla segreteria. La proposta è che le verifiche siano affidate a soggetti indipendenti, esterni, senza legami col partito. La vera svolta, però, sarebbe l'obbligo di sottoporre il bilancio al controllo della Corte dei conti. Mettendo così finalmente in crisi il pilastro su cui si basa il meccanismo opaco attuale. Com'è possibile che i partiti, finanziati con pubblici denari, siano considerati oggi alla stregua di associazioni private nelle quali il «pubblico» non può mettere bocca?
I rivoli dei finanziamenti sono tali che non si sa nemmeno quanti soldi arrivano nelle casse. I rimborsi elettorali: 200 milioni l'anno sia pure in fase di riduzione entro qualche anno a 145. Poi i finanziamenti ai «gruppi» del Parlamento e a quelli dei Consigli regionali: almeno altri 150, stando alle stime. Poi gli stanziamenti per i giornali di partito o assimilabili: circa 40 milioni nel 2009. Poi i contributi che i parlamentari versano al partito, utilizzando spesso il fondo del portaborse: col risultato di far gravare sulle pubbliche casse anche il 19% di sgravio fiscale che spetta a chi finanzia la politica. Poi i soldi donati dai singoli elettori e dalle aziende...
Prendiamo quest'ultima voce. Fino a 50 mila euro, dice la legge, un partito ha diritto di incassare i «regali» di un cittadino o una società senza dover registrare il generoso donatore. Al di là della opacità sull'eventuale «merce di scambio» (una leggina, un comma, una deroga...) come fai a sapere se quei soldi finiscono a bilancio?
Una cosa è fuori discussione. Con regole diverse, il «caso Lusi» non sarebbe potuto succedere. Così come, agli elettori del Pd, resterà l'amarezza di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. L'ha scritto la stessa «Europa»: il peccato originale del Partito Democratico è stato «il permanere di due strutture parallele al neonato partito», che «ha da subito ingenerato retropensieri di ogni genere e insinuato il sospetto di una cattiva coscienza in chi, imbarcandosi nel nuovo soggetto, teneva in acqua due grosse scialuppe di salvataggio in caso di naufragio. Un errore psicologico che ha pesato e pesa ancora nella vita quotidiana del partito».
Era tutto scritto in un bisticcio avvenuto alla Festa della Margherita a Vietri sul Mare, il 7 settembre 2007, tra i due tesorieri dei Ds e della Margherita. Lusi, che aveva molti soldi liquidi, voleva mettere tutto il patrimonio insieme dentro al Pd. Sposetti, che coi debiti aveva ereditato dal Pci e dal Pds anche 2.399 immobili blindati in 55 fondazioni, spiegò che non ci pensava proprio: «Luigino e Ughetta, che sono io, vanno all'altare poveri in canna, ma se Ughetta ha un po' di patrimonio e Luigino ha un po' di soldi, quel che devono dire al sindaco è: facciamo la separazione dei beni».
Il risultato lo racconta Angelo Rovati, il braccio destro di Romano Prodi, nella campagna elettorale del 2006: «Se è vero quello che leggo, cioè che la Margherita ha speso quattro milioni in propaganda quando il partito era già chiuso, è singolare che per la campagna elettorale del 2006 abbiano fatto un sacco di storie per dare qualche spicciolo per la campagna di Prodi: un paio di milioni in tutto, fra Margherita e Ds». Tenere ciascuno la sua scialuppa, evidentemente, era più importante che vincere la regata...
E si offriva pure, Luigi Lusi, di fare l'elemosina ai cittadini: una rinuncia a 200 euro sull'indennità parlamentare, crepi l'avarizia, mentre stava per fare sparire 13 milioni. Ridurre il caso del tesoriere della Margherita alla mascalzonata di un singolo, però, sarebbe sbagliato: se è successo è perché nel mondo opaco dei finanziamenti ai partiti poteva succedere. E questo è il problema.
L'allarme sulla gestione dei soldi statali da parte delle forze politiche ha radici lontane. Nel 1982 Marcello Crivellini la bollava come «paragonabile ad un misto di cosche mafiose e servizi segreti». E annunciava: «Quest'anno i revisori dei conti del Partito Radicale non sono scelti in base a criteri di partito, ma sono esterni di provata e indiscutibile capacità professionale».
Tutti dovevano poter conoscere il bilancio dei Radicali, continuava Crivellini: «Tutti debbono poter essere nostri revisori dei conti. Anche Craxi, Andreotti o Gelli se lo vogliono, così come un qualsiasi cittadino che sia iscritto o no al Partito».
Sono passati tre decenni, da allora. Tre decenni e un referendum che abolì il finanziamento pubblico e fu svuotato dal rattoppo dei «rimborsi elettorali». Rimborsi schizzati come è noto, tra il 1998 e il 2008 (anni in cui il Pil rimaneva sostanzialmente al palo), del 1.110%. Eppure proprio il caso dei soldi spariti dalle casse della Margherita dimostra come l'obiettivo di una vera trasparenza, invocata ieri da Bersani e Casini (che dicono di volere nuove regole «in una settimana») sia ancora lontano.
Eppure era già successo. Basti ricordare, tra gli altri, lo scandalo dell'immenso patrimonio della Dc. Era un impero immobiliare, con dentro gioielli come palazzo Sturzo all'Eur o la villa della Camilluccia per un totale di 508 immobili. E dopo una serie di oscuri passaggi societari e una catena di svendite a prezzi stracciati senza manco una perizia, finirono in gran parte in società fantasma che avevano sede in una catapecchia diroccata nelle campagne di Babici, in Istria, ed erano intestate a un italo-croato che campava scaricando cassette al mercato di Trieste.
Era già successo e, con le regole attuali, non poteva non succedere di nuovo. Lo scriveva ieri mattina, su «Europa», il giornale che fu della Margherita, il direttore Stefano Menichini: al di là delle responsabilità di Lusi «ci vuole l'umiltà di riconoscere l'errore collettivo di una platea più vasta — ci siamo dentro anche noi — di tutto il mondo che vive di politica e non aveva voluto vedere quanto fosse insostenibile il metodo di finanziamento dei partiti coi cosiddetti rimborsi elettorali, per di più a partiti estinti». Partiti defunti che incassano la metà dei rimborsi.
Il responsabile delle casse del Pd Mauro Agostini, in un libro autobiografico intitolato appunto «Il tesoriere», l'aveva scritto due anni fa con parole dure: «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po' sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica». Cupa o no che fosse la sua fotografia, spicca un dato: solo il Pd risulta aver fatto certificare il bilancio dal 2008, nella scia di quell'antica scelta radicale, dalla Price Waterhouse Coopers. E se agli ex Ds eredi dei debiti ma anche del patrimonio immobiliare del Pci va riconosciuto di avere messo online il loro bilancio (con l'impegno a metterci anche quelli di tutte le fondazioni-casseforti nelle quali sono state «messe al sicuro» case, negozi, palazzi) gli altri si regolano in maniera diversa. Sono online quelli dell'Idv o di Sel, non quelli della Lega (o se c'è è praticamente introvabile) e del maggiore partito italiano, il Pdl. La cui tesoreria è sì disponibile a fornire via fax quattro fogli di rendiconto, ma da qui a metter tutto a disposizione dei cibernauti ce ne corre...
La deflagrazione del «caso Lusi e del bilancio dei Dl», il cui acronimo ha fornito ieri a «Libero» lo spunto per il titolo «Diversamente Ladri», spingerà finalmente a una sterzata? Vedremo. Agostini sta preparando una proposta di legge per rendere obbligatoria la certificazione dei bilanci dei partiti da parte di società di revisione indipendenti, già adottata nello statuto di Fli. Con l'introduzione di forme di controllo radicalmente diverse: oggi il tesoriere è affiancato da un comitato di uomini per lo più fedeli alla segreteria. La proposta è che le verifiche siano affidate a soggetti indipendenti, esterni, senza legami col partito. La vera svolta, però, sarebbe l'obbligo di sottoporre il bilancio al controllo della Corte dei conti. Mettendo così finalmente in crisi il pilastro su cui si basa il meccanismo opaco attuale. Com'è possibile che i partiti, finanziati con pubblici denari, siano considerati oggi alla stregua di associazioni private nelle quali il «pubblico» non può mettere bocca?
I rivoli dei finanziamenti sono tali che non si sa nemmeno quanti soldi arrivano nelle casse. I rimborsi elettorali: 200 milioni l'anno sia pure in fase di riduzione entro qualche anno a 145. Poi i finanziamenti ai «gruppi» del Parlamento e a quelli dei Consigli regionali: almeno altri 150, stando alle stime. Poi gli stanziamenti per i giornali di partito o assimilabili: circa 40 milioni nel 2009. Poi i contributi che i parlamentari versano al partito, utilizzando spesso il fondo del portaborse: col risultato di far gravare sulle pubbliche casse anche il 19% di sgravio fiscale che spetta a chi finanzia la politica. Poi i soldi donati dai singoli elettori e dalle aziende...
Prendiamo quest'ultima voce. Fino a 50 mila euro, dice la legge, un partito ha diritto di incassare i «regali» di un cittadino o una società senza dover registrare il generoso donatore. Al di là della opacità sull'eventuale «merce di scambio» (una leggina, un comma, una deroga...) come fai a sapere se quei soldi finiscono a bilancio?
Una cosa è fuori discussione. Con regole diverse, il «caso Lusi» non sarebbe potuto succedere. Così come, agli elettori del Pd, resterà l'amarezza di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. L'ha scritto la stessa «Europa»: il peccato originale del Partito Democratico è stato «il permanere di due strutture parallele al neonato partito», che «ha da subito ingenerato retropensieri di ogni genere e insinuato il sospetto di una cattiva coscienza in chi, imbarcandosi nel nuovo soggetto, teneva in acqua due grosse scialuppe di salvataggio in caso di naufragio. Un errore psicologico che ha pesato e pesa ancora nella vita quotidiana del partito».
Era tutto scritto in un bisticcio avvenuto alla Festa della Margherita a Vietri sul Mare, il 7 settembre 2007, tra i due tesorieri dei Ds e della Margherita. Lusi, che aveva molti soldi liquidi, voleva mettere tutto il patrimonio insieme dentro al Pd. Sposetti, che coi debiti aveva ereditato dal Pci e dal Pds anche 2.399 immobili blindati in 55 fondazioni, spiegò che non ci pensava proprio: «Luigino e Ughetta, che sono io, vanno all'altare poveri in canna, ma se Ughetta ha un po' di patrimonio e Luigino ha un po' di soldi, quel che devono dire al sindaco è: facciamo la separazione dei beni».
Il risultato lo racconta Angelo Rovati, il braccio destro di Romano Prodi, nella campagna elettorale del 2006: «Se è vero quello che leggo, cioè che la Margherita ha speso quattro milioni in propaganda quando il partito era già chiuso, è singolare che per la campagna elettorale del 2006 abbiano fatto un sacco di storie per dare qualche spicciolo per la campagna di Prodi: un paio di milioni in tutto, fra Margherita e Ds». Tenere ciascuno la sua scialuppa, evidentemente, era più importante che vincere la regata...
Cosa ci si può aspettare da un paese nato 150 anni con la truffa e la violenza? Tutto nella norma
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