lunedì 22 aprile 2013
Europa: la rivoluzione è possibile
Classi medie e rivoluzione sociale
Sebastiano Isaia
http://www.sinistrainrete.info/index.php?option=com_content&view=article&id=2718:sebastiano-isaia-classi-medie-e-rivoluzione-sociale&catid=79:analisi-di-classe&Itemid=83
L‘altro ieri il filosofo polacco Marcin Król ha voluto condividere con l’opinione pubblica mondiale una scoperta di portata davvero capitale: «La rivoluzione è possibile». Capite? La rivoluzione è ancora possibile in Occidente! Forse ho capito male, forse sto nutrendo e vendendo false speranze. Meglio continuare nella lettura: «È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile vivere in queste condizioni» (La rivoluzione è possibile, Wprost di Varsavia, 10 aprile 2013).
Certo, la locuzione «giovani arrabbiati» adoperata da Król è alquanto aleatoria e ambigua, soprattutto per uno che, come chi scrive, è abituato a ragionare, e sovente a pasticciare, con le vecchie categorie marxiane. Ma di questi grami tempi bisogna accontentarsi del famoso bicchiere mezzo pieno: insomma, il realismo inizia a contagiarmi!
Non c’è dubbio: a un certo punto della crisi sociale la rivoluzione si dà, almeno per una parte degli strati sociali «che non hanno nulla da perdere», come una “scelta obbligata”, mentre un’altra parte vi vede senz’altro anche il nuovo mondo che è possibile conquistare una volta distrutto quello vecchio.
In ogni caso, l’evento-rivoluzione è un impasto “dialettico” e inscindibile di disperazione e speranza, di pulsioni distruttive («Tutto ciò che esiste merita di andare alla malora») e di volontà creatrice («Il proletariato può distruggere tutto, perché tutto può ricostruire»), di incoscienza (ossia di crisi dell’ideologia dominante presso chi subisce il Dominio) e di coscienza («di classe»), e certamente questo Evento è generato da condizioni affatto eccezionali che segnano la sospensione, per un tempo relativamente lungo, della normalità sociale-esistenziale. Per dirla nei termini della teologia politica, l’Epoca (di radicale disumanità) si fa Evo (Eone), ossia tempo aperto a ciò che trascende la cattiva realtà, tempo di salvezza.
Appena terminata questa impegnativa riflessione, impigliata peraltro nei miei appunti presi durante la lettura del Potere che frena di Massimo Cacciari (un testo che ha molto a che fare con l’ossessione dell’autentico conservatore per il dissolvimento dell’ordine costituito), e andando avanti nella lettura dell’articolo in oggetto, ho dovuto ricredermi praticamente su tutto quello che avevo creduto di aver capito, anche perché l’autore, contro le mie preconcette impressioni, ha le idee piuttosto chiare circa la base sociale della «rivoluzione possibile». Ne fornisco subito la prova: «Al contrario di quello che si pensa, in occidente non sono i poveri e i più sfortunati a fare le rivoluzioni, ma le classi medie. È quello che è successo in tutte le rivoluzioni a cominciare dalla rivoluzione francese e con la sola eccezione della rivoluzione d’ottobre, che fu un colpo di Stato compiuto in una situazione di estremo disordine politico». Il modello di «rivoluzione possibile» che ha in testa il nostro amico è dunque la rivoluzione borghese, e d’altra parte anche Grillo ha detto che in Italia c’è bisogno di una rivoluzione francese, «senza però tagliare le teste». Almeno non in streaming…
Detto che, a mio modesto avviso, la Rivoluzione d’Ottobre non fu «un colpo di Stato», come allora si affrettarono a dichiarare i menscevichi russi e i loro amici socialdemocratici europei, ma una rivoluzione sociale in piena regola, se così posso esprimermi, la cui caratura proletaria risiedeva soprattutto, per un verso nella natura politica del soggetto politico che la promosse e la diresse (il Partito bolscevico di Lenin), e per altro verso nella sua dimensione internazionale (l’Ottobre ’17 come avanguardia e preludio della rivoluzione in Occidente, a cominciare dalla potente Germania); e detto anche che «una situazione di estremo disordine politico» realizza il minimo sindacale di una condizione sociale che si possa definire con qualche fondamento rivoluzionaria; detto tutto questo, bisogna chiedersi che tipo di «rivoluzione» può venire fuori da un processo sociale che avesse la classe media come suo cuore pulsante e fondamentale base sociale. Ha forse fatto capolino nella vostra mente la «rivoluzione fascista» dei primi anni Venti? È la vostra risposta? Bravi!
La classe media rovinata, declassata e proletarizzata dalla crisi economica è sempre stata la base ideale per quei partiti che, coltivando l’illusione della «terza via» («Il fascismo è pragmatista. Non ha apriorismi. Non promette i soliti paradisi dell’ideale», scrisse nel ’19 l’uomo della Provvidenza), agiscono in realtà come strumento di conservazione sociale, sebbene usino mezzi (il manganello e la pistola piuttosto che la scheda elettorale), pose, parole e orpelli che al pensiero comune (infantile e superficiale) possono evocare la “rivoluzione”. Basta leggere il Mein Kampf di Hitler per capire con quale cura, anche per i dettagli che possono apparire insignificanti, l’unto dal Dominio prepara la propria reputazione “rivoluzionaria” presso le classi medie ridotte a brandelli dalla crisi e presso il proletariato privo di coscienza e amareggiato dall’inconcludenza dei suoi rappresentanti politici.
In effetti, la classe media non ha alcuna funzione storica originale, ma, di volta in volta, essa interviene nella lotta tra le classi fondamentali della società alleandosi ora con l’una ora con l’altra, secondo le proprie esigenze contingenti e secondo i rapporti di forza tra le classi che incarnano, per così dire, il rapporto sociale fondamentale in questa epoca storica (borghese), quello Capitale-Lavoro. Per questo ho parlato di classi sociali fondamentali alludendo ai possessori di capitale, da una parte, e ai possessori di forza-lavoro, dall’altra, una definizione che, come si vede, non concede nulla alle analisi del sociologo, il quale è avvezzo a pesare le classi sulla bilancia della statistica, mentre invece bisogna ponderarle tenendo in considerazione la loro funzione nel processo che sempre di nuovo crea ricchezza sociale, «prodotto netto», plusvalore.
Le classi medie («Prendiamo i professori universitari, che non solo in Polonia ma in tutta Europa tremano per il loro posto di lavoro, soprattutto se hanno la sfortuna di insegnare materie dichiarate poco utili dall’Unione europea, dagli stati membri e dalle multinazionali che definiscono il mercato del lavoro; o i funzionari della pubblica amministrazione, il cui numero è letteralmente esploso in passato, o tutti quei giovani laureati che il mercato del lavoro ha lasciato sul bordo della strada, gli artisti, i giornalisti e gli altri lavoratori diventati precari a causa dell’avvento dell’era digitale»); le classi medie, dicevo, partecipando più o meno direttamente alla spartizione della ricchezza sociale prodotta dagli operai sono di fatto interessate all’intensificazione dello sfruttamento di questi lavoratori salariati e al mantenimento della loro soggezione politica, ideologica e psicologica nei confronti del Moloch capitalistico.
È soprattutto per questo che la loro posizione sociale è da sempre oggettivamente, e spesso anche soggettivamente – ossia in maniera cosciente e dichiarata –, controrivoluzionaria, al contrario della posizione sociale delle classi che vivono di salario, le quali, almeno in teoria, hanno interesse a liberarsi da quel lavoro e da quella soggezione. La situazione storico-sociale delle classi medie rende perciò queste classi incapaci di iniziativa rivoluzionaria autonoma, e ciò è tanto più vero se consideriamo che all’ordine del giorno (sul piano storico, intendo) in Occidente e nel mondo non c’è la rivoluzione borghese, ovviamente, ma quella proletaria, per usare un termine che a molti suonerà antico. D’altra parte, parlare di «poveri» e di «sfortunati» non mi sembra appropriato, sotto ogni rispetto.
La polarizzazione sociale che si realizza durante una grave crisi sociale tende a spaccare la classe media secondo le linee di forza e di frattura generate appunto da quella polarizzazione: una parte di essa tende ad autonomizzarsi, inseguendo il sogno di una «terza via» tra conservazione e rivoluzione; un’altra parte si avvicina alle classi dominanti, o solo a una fazione particolare di esse, perché crede di avere più cose da perdere che da conquistare in un «salto nel buoi» rivoluzionario; e un’altra ancora si sente attratta dalle classi subalterne, ne subisce la condizione disperata, più che il fascino. Il soggetto politico della rivoluzione sociale, posta naturalmente la sua presenza nella realtà della crisi (va da sé che non mi sto riferendo all’anno di grazia 2013), agirà con intelligenza in modo da conquistare almeno una parte della classe media alla causa della lotta di classe rivoluzionaria. La presenza attiva di quel soggetto realizza una condizione fondamentale (conditio sine qua non) perché si possa attribuire a una crisi sociale i connotati di una crisi rivoluzionaria. Non la teoria (non solo) ma la prassi storica dimostra che, per dirla con Lenin, senza coscienza rivoluzionaria non c’è rivoluzione. Può esserci tumulto, sommossa, rivolta, ma non rivoluzione sociale, ossia tentativo cosciente da parte delle classi dominate, o almeno di una grande parte di esse, di rovesciare il regime sociale vigente e di venire finalmente fuori dal cul de sac (la maligna dimensione del Dominio) nel quale l’umanità si è infilata senza volerlo all’inizio della sua storia nel tentativo di sottrarsi al cieco dominio della natura. Come disse l’ubriacone di Treviri, solo chi non ha nulla da perdere in questa società può costruire un potere che necessariamente deve autoannientarsi, realizzando l’emancipazione di tutti e di ciascuno. Inverto l’ordine: di ciascuno e, dunque, di tutti.
Quando la disperazione e la speranza si armano di coscienza, per il Dominio può davvero iniziare il conto alla rovescia. Senza quella coscienza la disperazione non diventerà mai rivoluzione (piuttosto diventa controrivoluzione, anche preventiva) e la speranza si converte in un’impotente e rassegnata attesa messianica.
Mi rendo conto che quella appena delineata non è la «rivoluzione possibile», non dico auspicata da Król, ma da lui neanche lontanamente concepibile, e difatti quando parla di «rivoluzione» il filosofo polacco non pensa a un attacco alle fondamenta del rapporto sociale capitalistico, la sola azione che legittima l’uso di quella parola quanto mai abusata, inflazionata e volgarizzata; egli pensa piuttosto a una “rivoluzione” meritocratica, generazionale, “anticastale”, antipolitica (dal punto di vista della politica “tradizionale”, partitica) e via di seguito. Insomma, proprio quando scrive rivoluzione il Nostro pensa a tutto tranne che alla rivoluzione. E di questo non gli si può fare un torto.
«Ma vogliamo veramente una rivoluzione?», ci chiede Król, che così risponde: «Non penso, perché la rivoluzione vuol dire la distruzione totale prima della costruzione di un ordine nuovo. Tuttavia i nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro 10-30 anni. Non sanno che nella storia non si torna indietro e che le loro intenzioni ricordano la frase di Karl Marx secondo cui la storia si ripete, ma come una farsa». In realtà siamo immersi nella tragedia fino al collo, e la sola cosa che suona farsesca qui è la rituale citazione marxiana, che fa sempre la sua bella figura quando si evoca lo spauracchio della “rivoluzione”. Evidentemente il barbuto conserva ancora il suo appeal scaramantico-esorcistico. La scuola filosofica napoletana consiglia oggetti scaramantici di più immediata efficacia: le corna!
Il moltiplicarsi degli strati piccolo-borghesi e il contrarsi, anche in termini assoluti (almeno nelle società capitalisticamente più avanzate), del proletariato industriale sono fenomeni che rispondono alle leggi dell’economia capitalistica, le quali si compendiano nello sfruttamento sempre più intensivo (razionale e scientifico) del lavoro, cosa che genera un continuo aumento della produttività sociale del lavoro, e quindi una maggiore quantità di plusvalore messa a disposizione anche degli strati sociali parassitari. E questo, appunto, a parità di lavoratori sfruttati o addirittura sulla base di una loro diminuzione. Espansione del parassitismo sociale, sviluppo delle classi medie, aumento della produttività sociale del lavoro: sono, questi, fenomeni che si spiegano alla luce della legge del valore (checché ne dicano i teorici del «Capitalismo cognitivo»), e che indubbiamente impattano direttamente sulla dialettica della lotta di classe, ossia sulle sue manifestazioni politiche e ideologiche. Una volta Hermann Gorter, rispondendo alle ingiuste critiche di Lenin svolte ne L’estremismo, malattia infantile del comunismo, disse che, a differenza di quanto era accaduto in Russia, allorché il giovane e poco numeroso proletariato russo poté contare sull’alleanza dei contadini (alleanza che poi minerà la breve stagione dei Soviet), «gli operai nell’Europa occidentale sono soli. Il proletariato in Europa occidentale è solo. Ecco la verità» (Risposta a Lenin, 1920). Gorter allora si limitò a prendere atto di una difficile e complessa situazione che rimanda alla dialettica sociale appena sommariamente delineata, con la quale chi si pone il problema della rivoluzione sociale nel XXI secolo deve fare i conti.
Fino a che punto la condizione umana sia disperata lo dimostra anche «Un recente studio pubblicato su General and Comparative Endocrinology», il quale «rivela che a soffrire di livelli di stress più alti non sono i soggetti gerarchicamente inferiori o quelli in continuo conflitto per mantenere la leadership, bensì i soggetti che si trovano in una posizione intermedia della piramide sociale. Insomma, la classe media soffrirebbe lo stress di essere in bilico continuo tra il non regredire nella gerarchia ma anche la difficoltà nell’accedere a posizioni socialmente più alte. Lo studio è stato compiuto da Katie Edwards, ricercatrice del Liverpool Institute of Integrative Biology, che ha osservato per più di 600 ore le attività quotidiane di un gruppo di macachi di Barberia». Avete letto bene: trattasi di «macachi di Barberia». Infatti, «Quanto scoperto da Katie Edwards si può facilmente applicare alla società umana: “è possibile applicare questi risultati anche ad altre specie sociali, inclusi gli esseri umani”» (G. Destro, Classe media sotto stress, anche tra i macachi, L’Unità, 7 aprile 2013). Non c’è dubbio: siamo messi davvero male. Questo anche a proposito di tragedia che si converte in farsa. E viceversa.
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