Autoriciclaggio e capitali all’estero, rivoluzione copernicana
     
     
    
   
   
          
di Giovanna Corrias Lucente, 2 febbraio 2015
 
                     
                   
ROMA –  Con scarso risalto sulla stampa, all’interno della Legge titolata “Emersione e rientro di capitali detenuti all’estero” (del 14 dicembre 2014 n. 186 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 17 dicembre) è stato introdotto il delitto di autoriciclaggio,
 previsto dall’ art. 648 ter del codice penale (singolarmente inserito 
“dopo – il precedente – art. 648 ter che configura il delitto di impiego
 di beni o utilità di provenienza illecita).
La norma espressamente dispone la pena della reclusione da due ad otto anni e la multa da 5.000 a 25.000 euro per l’autore od il concorrente nel delitto
 che, con lo scopo di ostacolare l’identificazione dell’origine 
delittuosa del profitto, impieghi, sostituisca o trasferisca, in 
attività finanziarie, economiche o speculative, il denaro, i beni o le 
altre attività provento di altro delitto in modo da ostacolare 
concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.
La pena, invece, è minore: da 1 a 4 anni di reclusione, e alla multa da 2.500 euro a 12.500 euro, se il denaro o i beni provengono dalla commissione di un delitto non colposo
 punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Non sono 
invece punibili le condotte di coloro che hanno destinato il denaro, i 
beni e le altre utilità alla mera utilizzazione e al godimento 
personale.
Si tratta di una rivoluzione copernicana, perché sinora, l’autore del 
reato da cui era derivato il profitto da riciclare rispondeva soltanto 
per il primo reato (antefatto) e non concorreva nel riciclaggio, per cui
 venivano puniti gli autori delle condotte di occultamento o reimpiego. 
Per di più, il legislatore attuale non ha soppresso le clausole di 
salvaguardia contenute in esordio delle previgenti norme, secondo le 
quali: della ricettazione e del riciclaggio non rispondeva chi aveva 
concorso nel reato precedente. Rimane, dunque, nel sistema una stridente
 contraddizione fra la formula dei reati originali ed il nuovo 
antiriciclaggio.
Si comprende che il nuovo sia ritenuto un ulteriore deterrente al 
mascheramento dei capitali illeciti, in quanto duplica la responsabilità
 del loro titolare. Sennonché, la sua introduzione rompe un dogma da 
lungo tempo esistente: che l’autore del reato presupposto (quello da cui
 derivano i proventi illeciti) non possa rispondere dei reati successivi
 riguardanti l’impiego dei beni. E’ stato così per la ricettazione ad esempio, delitto conosciuto da tempo immemorabile. Era previsto altrettanto anche per il riciclaggio (stanti le sue evidenti affinità con il reato di ricettazione).
La speranza sottostante la nuova incriminazione è di diminuire od 
eliminare la circolazione del profitto di delitti. Due notazioni 
meritano di essere svolte. La prima è che la pena, durante il dibattito 
parlamentare, era stata ritenuta troppo lieve per l’autoriciclaggio
 di beni derivanti da delitti puniti fino a cinque anni di pena (in 
questo novero sono compresi diversi reati tributari, il falso in 
bilancio e, ad esempio, l’abuso di ufficio).
Il secondo: sembra un’anomalia aver sottratto alla punibilità il riutilizzo di capitali per godimento personale.
 Orbene, l’unica giustificazione che si può rinvenire al differente 
trattamento previsto per il riutilizzo in attività economiche e il 
godimento personale trova le sue radici in ragioni di politica 
economica.
L’uso di beni di provenienza illecita in attività 
economico-finanziarie altera l’ambito dei rapporti economici e vizia 
l’andamento del mercato, creando un ingiustificato privilegio per i 
criminali ed inquinando la concorrenza. L’impiego dei proventi illeciti 
per il semplice godimento personale consente, invece, di immettere in 
circolazione denaro ed in qualche modo di favorire l’economia.
Una volontà appartenuta al Governo è quella di incentivare anche l’uso dei risparmi per rilanciare gli acquisti
 e tale disposizione appare in linea con tale finalità. Infatti, la 
messa in circolazione del denaro o delle utilità provento del delitto 
per fini di godimento personale avvantaggerebbe le imprese e le attività
 commerciali virtuose. La distinzione tra le due ipotesi può risultare 
complessa, in quanto anche chi investa in borsa i proventi delittuosi 
può farlo per godere degli ulteriori profitti, tuttavia sembra che tale 
attività rientri fra quelle punibili. A prima vista, ritengo che la 
norma intenda per godimento personale soltanto le spese voluttuarie.
La distinzione, tuttavia, non risulta semplice, perché (ad esempio) 
l’acquisto di un’opera d’arte può essere finalizzato al mero godimento 
personale, ma al contempo può rappresentare un investimento. In questo 
caso, perciò, potrebbe arrivarsi all’assurdo che il reato si configuri 
soltanto al momento della vendita dell’opera, quando si rivela 
indubbiamente il reale intento che sorreggeva l’acquisto.
Le condotte del nuovo reato sono tre: l’impiego (ossia 
l’utilizzazione), la sostituzione (che rappresenta una forma di 
occultamento, in quanto rende altri apparenti titolari dei beni 
riciclati) ed il trasferimento (idest, qualsiasi atto che comporti 
l’occultamento dei beni e la loro titolarità); infine, sono le stesse 
condotte del riciclaggio ordinario. Spetterà alla giurisprudenza ed alla
 dottrina tracciare la differenza fra le due ipotesi, materia delicata 
perché comporta la non punibilità di una.
Il reato di autoriciclaggio è inserito fra i delitti contro il patrimonio,
 tuttavia pare piuttosto sorretto da un interesse di natura superiore e 
diversa, che coincide con la trasparenza dell’economia, pur non essendo 
necessario che ne sia alterato l’andamento.
 
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