martedì 13 febbraio 2018

Avv. Storelli: Il signoraggio

Il signoraggio
 
 
Di seguito riporto il capitolo sul signoraggio del mio ultimo libro “Moneta e Democrazia” reperibile al seguente link
 
In merito alla quantificazione del reddito derivante dall’emissione di moneta, altrimenti definibile signoraggio, la Banca d’Italia osserva: “Con l’avvento della carta moneta le potenzialità di estrarre un profitto dal signoraggio si ampliarono, sia per via del costo minimo di produzione, sia perché ai biglietti cartacei si poteva imporre un valore arbitrariamente alto. (…) Quando la moneta è prodotta dallo Stato, è quest’ultimo che, spendendola ad esempio per acquistare beni e servizi, la mette in circolo nell’economia e realizza immediatamente il controvalore, al netto dei costi di produzione”.[1]
Quindi il reddito derivante dall’emissione monetaria è dato dal valore indicato sulle monete meno i costi sostenuti per produrle.
Per quanto abbiamo già osservato nel capitolo precedente, tale reddito equivale al valore monetario propriamente detto.
Resta, a questo punto, alquanto priva di idonea legittima motivazione la condotta della Banca d’Italia consistente nell’appostare al passivo il valore delle monete metalliche coniate,[2] così incrementando il debito pubblico e privando lo Stato del reddito che avrebbe dovuto percepire dal conio delle medesime.
Non si comprende, infatti, in base a quale titolo tali monete possano rappresentare una passività per lo Stato, essendo essa limitata ai costi vivi di conio e non certo al valore facciale delle monete coniate, che, invece, corrisponde al valore al quale sono spese, ossia all’utilità economica che con esse si ricava.
Analogamente resta priva di idonea legittima motivazione la condotta della banca centrale (prima nazionale, ora europea) consistente nell’appostare al passivo il valore delle banconote emesse.[3]
Tale valore, infatti, non rappresenta un costo per la banca, essendo esso limitato ai soli costi di stampa e non certo al valore facciale delle banconote emesse, che, invece, analogamente alle monete metalliche, corrisponde al valore al quale sono spese per ricavarne un’utilità economia, per esempio, l’acquisto di titoli di Stato.
In questo caso l’utilità economica, diversamente da quanto rappresentato dalle banche centrali, è data dall’intero ammontare dei titoli di Stato acquistati, non dai soli interesse da essi riconosciuti, poiché con la moneta emessa non si ottengono, in contropartita, i soli interessi, bensì il pieno valore dei titoli di Stato più gli interesse ad essi accessori.
Le banche centrali, invece, appostando al passivo l’intero valore della moneta emessa, evidenziano come reddito da emissione monetaria i soli interessi sui titoli di debito detenuti in contropartita della moneta emessa, poiché il valore di tali titoli, appostato all’attivo, viene bilanciato dalla corrispondente moneta emessa, appostata al passivo.
Analoga osservazione può essere avanzata per la moneta elettronica, ossia per quella che va a costituire le cosiddette riserve di banca centrale, anche esse indebitamente appostate al passivo.
In tal modo, come riconosce l’ex governatore di banca centrale Biagio Bossone, i ricavi dell’attività di emissione monetaria non transitano dal conto economico, ma vengono automaticamente ed erroneamente appostati al passivo, invece di integrare il capitale sotto forma di utili non distribuiti; analogamente a quanto fanno le banche centrali appostando al passivo la moneta emessa, le banche commerciali ottengono ricavi appostando al passivo “debiti verso la clientela”.[4]
In realtà, la condotta consistente nell’appostare al passivo il valore delle banconote emesse poteva considerarsi legittima quando le banconote erano convertibili in oro poiché erano titoli di credito.
L’appostamento al passivo, infatti, corrispondeva all’obbligo, nei confronti del portatore della banconota, di convertirla in una quantità di oro pari all’importo ivi riportato.
Venuto meno questo obbligo, e quindi divenuta la moneta cartacea non più un titolo di credito bensì mera carta-moneta, viene meno anche la legittimazione di appostare al passivo il valore delle monete cartacee emesse, giacché la banca centrale non è più gravata di alcun debito nei confronti dei relativi portatori.
In merito all’osservazione per la quale l’acquisto di titoli di Stato (titoli di debito) da parte della banca centrale non concorrerebbe alla formazione del debito pubblico, possiamo precisare che questa affermazione sarebbe corretta se la banca centrale fosse un ente pubblico poiché, in tal caso, il suo bilancio sarebbe consolidato in quello dello Stato, e quindi il debito dello Stato sarebbe compensato dal corrispondente credito di un ente pubblico.
Poiché la banca centrale europea non è un ente pubblico, tale affermazione non è corretta per gli Stati dell’eurozona.
In realtà, infatti, la banca centrale europea non può essere considerata banca centrale di alcuna nazione dell’eurozona e, conseguentemente, l’euro, ancorché moneta a corso legale in ogni nazione dell’eurozona, non può essere considerata moneta nazionale di alcuna di queste nazioni.
Per quanto concerne l’Italia, l’osservazione riportata era parimenti scorretta anche prima dell’adesione all’eurozona, giacché la Banca d’Italia, ancorché ente di diritto pubblico (in quanto il proprio statuto è disciplinato da legge dello Stato) non è un ente pubblico, come si evince dalla composizione del relativo capitale sociale,[5] i cui partecipanti non sono soltanto enti pubblici, anzi, tali enti (Inps e Inail) detengono delle quote assolutamente minoritarie (appena il 3% l’uno).
Come è stato opportunamente osservato: “Considerare la moneta come debito anche quando non lo è, ed immetterla come tale nel sistema, eleva artificialmente il costo di funzionamento dell’economia, e il servizio del debito che ne consegue drena liquidità dal sistema, sottrare risorse reali dall’economia, e richiede l’emissione periodica di nuovo debito affinché l’economia possa funzionare. La capacità di crescita economica viene erosa da tale meccanismo, allorché l’accumulazione di debito impone obblighi di contenimento e di aggiustamento. Finora questa contraddizione non sembra avere incontrato soluzioni serie: non lo sono certo l’aggressione fiscale dei patrimoni e dei redditi delle economie più deboli, o lo smantellamento dell’intera spesa pubblica, sempre a danno di settori o delle aree più vulnerabili, non solo per gli effetti sociali devastanti che essi provocano, ma anche perché dimostrano di non funzionare affatto”.[6]
Poiché nel sistema attuale sia le banche centrali che le banche commerciali erogano moneta soltanto in conseguenza di un debito, la necessaria conseguenza giuridica di tale situazione è che, in un’ottica di insieme, i debiti sono inevitabilmente impagabili.
Sarebbero tecnicamente pagabili solo ove la moneta per pagarli non fosse rinveniente da un debito.
Ed in realtà, un debito impagabile è un debito inesistente.
Oggi la maggior parte dei mezzi monetari in circolazione viene emessa dalle banche commerciali sotto forma di moneta bancaria o moneta scritturale emessa in conseguenza dell’erogazione di un prestito.
Al riguardo, nel 2014 la Banca d’Inghilterra ha riconosciuto che, in buona sostanza, le banche non sono intermediari finanziari poiché non sono i prestiti a seguire i depositi, ma i depositi a seguire i prestiti.[7]
La BCE, con un comunicato del 24 novembre 2015 (aggiornato il 20 giugno 2017)[8] ha ribadito che le banche commerciali possono creare moneta “interna” (moneta bancaria, moneta scritturale), ossia depositi bancari, ogni volta che erogano un nuovo prestito.
Ciò significa che non vi è alcuna necessità di una preesistente disponibilità – ancorché frazionaria - al fine dell’erogazione di un prestito, giacché la relativa disponibilità viene creata al momento, ossia all’atto dell’erogazione del prestito, mediante la creazione dell’opportuno deposito.
Il deposito non deve essere preesistente rispetto alla concessione del prestito, giacché viene creato alla bisogna. Non è necessario attingere ad alcuna preesistente disponibilità patrimoniale, quindi non si effettua alcuna intermediazione, ma una pura e semplice creazione di moneta, nella esatta misura in cui serve per l’erogazione del prestito: ti devo prestare 100? Creo 100 e li metto a deposito.
Pochi però hanno notato che, se è così, dov’è il rischio? Cosa rischia la banca se presta denaro che non ha, ma che crea al momento? Quale sarebbe il rischio d’impresa, idoneo a legittimare un profitto?
Se il denaro viene creato alla bisogna, che senso ha parlare di “costo del denaro”? Se la banca commerciale, al pari della banca centrale, può creare denaro in tal modo, non si può parlare di risorsa scarsa. Ma se la risorsa non è scarsa, perché ha un prezzo?
Ha forse un prezzo l’aria, la luce del sole, la capacità di scrivere numeri su un computer?
Allora, se il denaro cessa di essere una risorsa scarsa, forse sarebbe il momento di pensare a nuovi modelli economici giacché quelli attuali, tesi all’arricchimento ossia all’accumulazione capitalistica, sembrano avere sempre meno senso.
 
 
[1] Banca d’Italia, Signoraggio, http://www.bancaditalia.it/compiti/....

[2] Si veda, al riguardo, Banca d’Italia, Finanza pubblica, Fabbisogno e debito, http://www.bancaditalia.it/pubblica....

[3]Si veda, per esempio, lo stato patrimoniale consolidato al 2016 dell’Eurosistema al 31/12/2016, https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/o....

[4] Bossone B., Costa M., (2018), Economia e Politica, anno 10 n. 15, sem. 2.

[5] Per l’elenco dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia al 20/12/2017: https://www.bancaditalia.it/chi-sia....

[6] Bossone B., Costa M., cit.

[7] Bank of England, Quarterly Bulletin 2014 Q1, pp. 14 e ss., https://www.bankofengland.co.uk/-/m....

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