di Thomas Fazi e William Mitchell, tratto da "Sovranità o barbarie", cap. 11
È giunto il momento di tirare le fila di quanto detto finora. Nel corso del
libro abbiamo visto come il processo di integrazione economica e valutaria
europea, fin dai suoi albori, abbia avuto una duplice finalità: il rafforzamento
delle élite economiche a scapito della maggioranza dei cittadini (e in
particolare dei lavoratori) e il superamento surrettizio – cioè all’oscuro della
popolazione – del modello democratico-costituzionale impostosi pressoché
ovunque in Europa nel dopoguerra, fondato sulla centralità del lavoro e
sull’estensione di diritti sociali ed economici a chi precedentemente ne era
stato escluso, nonché sul diritto dei cittadini a determinare, per mezzo dei
meccanismi offerti dalla democrazia rappresentativa, gli indirizzi di politica
economica dei loro rispettivi paesi. Tale obiettivo può oggi considerarsi
pienamente raggiunto: l’unione monetaria ha ormai assunto la fisionomia di un
sistema compiutamente postdemocratico e persino controdemocratico,
adoperato dalle oligarchie europee e nazionali per imporre politiche antisociali
e completare l’oligarchizzazione delle economie e delle società europee iniziata
almeno quarant’anni or sono. A tal fine non vengono escluse neanche
ingerenze dirette nei processi democratici degli Stati membri (come nel caso
della Grecia e dell’Italia): come ha scritto Luciano Gallino, il processo
democratico, già pesantemente compromesso dall’integrazione europea e in
particolare dall’unificazione monetaria, è ormai “stato svuotato di senso in
tutta l’Europa” 515 . Il risultato è stato un drammatico peggioramento delle
condizioni materiali dei lavoratori e delle classi popolari e medie in tutto il
continente (in particolar modo nei paesi della periferia, i più penalizzati
dall’integrazione europea). L’esempio dell’Italia è paradigmatico di tutto ciò.
Abbiamo altresì visto quanto siano velleitarie e irrealistiche le proposte di
riforma in senso progressivo e soprattutto di democratizzazione dell’Unione
europea. Al di là delle evidenti criticità di tali proposte – la difficoltà di pensare
a un elettorato postnazionale in presenza di rilevanti differenze linguistiche e
culturali, il tendenziale rafforzarsi sul piano sovranazionale della “presa
oligarchica” e dell’influenza delle lobby, la necessità di mutamenti radicali nelle
egemonie interne ai singoli Stati e ai rapporti di forza tra di essi per unaridefinizione complessiva delle istituzioni europee, ecc. –, esse tendono a
ignorare un punto cruciale: non si può democratizzare uno spazio che nasce e
si sviluppa proprio all’insegna della desovranizzazione, della de-democratizzazione e della depoliticizzazione. Il livello europeo è
strutturalmente postdemocratico e per questo irriformabile.
Per concludere, se si accetta la tesi, difficilmente contestabile a nostro avviso,
secondo cui la ridemocratizzazione e ripoliticizzazione dei processi politici ed
economici è la condizione necessaria per imprimere un nuovo corso alle nostre
società, radicalmente alternativo a quello vigente – nella direzione, secondo gli
auspici di chi scrive, della piena e buona occupazione; della difesa e
dell’espansione del welfare; della redistribuzione della ricchezza; della
(ri)nazionalizzazione di molte aree economiche strategiche; della ripresa in
chiave moderna del concetto di pianificazione (finalizzata anche alla
reindustrializzazione di quei paesi, come l’Italia, messi in ginocchio dalla crisi);
di una rinnovata centralità delle istituzioni democratiche nelle decisioni di
investimento, di produzione e di consumo, con particolare attenzione alla sfida
ecologica; di un asservimento della finanza ai bisogni della collettività; di un
uso attivo della politica fiscale a sostegno dei punti sopracitati, ecc. –, allora
non si può che ripartire dall’unico luogo in cui storicamente la democrazia è
stata possibile e in cui le classi subalterne sono riuscite a ottenere una reale
rappresentanza politica: lo Stato nazionale.
Bisogna, insomma, “ripartire da un’ovvia verità”, scrive Geminello
Preterossi: “che senza sovranità statale democratica è impossibile una politica
autonoma”, e tantomeno una politica di emancipazione radicale 516 . Lo Stato-
nazione è storicamente l’unico contenitore ad aver fornito un terreno comune
per l’azione del popolo come “soggetto collettivo” e conseguentemente ad aver
reso possibile l’esercizio della sovranità democratica. In altre parole, la
politicizzazione delle masse presuppone la “nazionalizzazione” delle stesse.
Come ricorda Domenico Moro, fu lo stesso Rousseau a osservare che la
volontà popolare non può che essere nazionale:
[D]ato che l’ordinamento sociale non può derivare dalla pura ragione, non se ne possono dedurre princìpi assoluti, e di conseguenza non si possono imporre, come pretendono gli illuministi, leggi universali valide per tutti. Visto che, invece, la sovranità e le leggi derivano dalla volontà popolare, come insiste a dire Rousseau, e che questa viene espressa dal popolo in base non a criteri universali astratti, ma alla propria condizione e ai propri bisogni specifici, la volontà popolare stessa non può che essere nazionale. 517 Senza sovranità nazionale e democratica, dunque, non può esistere sovranità popolare, perché, come già detto, “solo un’unità politica pluralizzata, differenziata al proprio interno ma capace di decisioni indipendenti, può costituire il contenitore di quei soggetti e corpi intermedi nei quali il ‘popolo’ deve articolarsi per non essere un magma indistinto, disponibile a ogni avventura passivizzante. Solo entro uno spazio politico concreto, territorializzato, è possibile ricostruire una rappresentanza politica del conflitto sociale che abbia la capacità di incidere, di spostare i rapporti di forza, di imporre compromessi e non subire diktat” 518 . L’esercizio della sovranità, dunque, implica una riconfigurazione e ridefinizione del ruolo stesso dello Stato, che da mero strumento del capitale deve tornare a essere, tra le altre cose, strumento di protezione dei cittadini. Come osserva Carlo Galli, si tratta di una “pretesa che di per sé non ha nulla di reazionario e che è insita nell’essenza della politica: protego ergo obligo è il cogito dello Stato, la sua ragion d’essere [...]” 519 .
È nondimeno evidente, però, per le ragioni che abbiamo evidenziato nel
corso del libro, che l’esercizio della sovranità democratica – soprattutto se
finalizzata all’implementazione di politiche presumibilmente invise alle
oligarchie nazionali e internazionali – presuppone il recupero della “cosa
principale che definisce l’indipendenza di una nazione”, secondo la definizione
di Wynne Godley: la sovranità monetaria, presupposto per l’effettivo esercizio
di qualunque altra forma di sovranità economica, a partire da quella fiscale. In
quest’ottica, la conclusione non può che essere quella maturata da Luciano
Gallino poco prima della sua scomparsa, ossia che “l’unica strada per
recuperare le sovranità perdute in tema di politiche economiche e sociali, oltre
che monetarie, consiste nell’uscita dall’euro” 520 . L’uscita dall’euro, dunque,
rappresenta una condicio sine qua non – una condizione necessaria ma di per sé insufficiente – per il recupero della sovranità democratica e popolare. Sarebbe a dire che l’uscita dalla moneta unica ha senso solo se è funzionale alla
(re)introduzione di “meccanismi economico-istituzionali che consentano di
ridefinire rapporti di forza più favorevoli al lavoro salariato” 521 e alle classi
subalterne più in generale, e dunque al ristabilimento di un contesto di lotta in
cui queste ultime non siano sconfitte in partenza, come nel sistema attuale. Tali
meccanismi devono concretizzarsi innanzitutto nel pieno recupero della
politica fiscale, che presuppone, appunto, il recupero della sovranità monetaria
– cioè del diritto di uno Stato di finanziare con moneta il proprio fabbisogno –,
giacché la condizione primaria affinché uno Stato sia libero dal giogo deimercati finanziari è non dover dipendere da questi per la propria capacità di
spesa. In altre parole, va ristabilito il principio secondo cui la “banca centrale è
uno strumento del potere esecutivo, e non un potere indipendente all’interno
dello Stato” 522 . Allo stesso tempo, la piena sovranità monetaria presuppone che la valuta nazionale sia lasciata libera di fluttuare liberamente sul mercato
valutario internazionale, rinunciando dunque a convertire la valuta in
questione con altre valute a un tasso di cambio fisso, giacché questo
introdurrebbe vincoli alla capacità e all’autonomia di spesa dello Stato e
dunque al pieno esercizio della sua sovranità monetaria.
Questa è la cornice economico-istituzionale minima per riportare l’esercizio
della politica economica nel perimetro del processo democratico. Tuttavia,
queste misure rischiano di essere insufficienti, se non addirittura deleterie, se
non vengono implementate sulla base di una corretta cornice teorica, cioè di
una corretta comprensione di come funzionano i moderni sistemi monetari fiat.
Nello specifico, come vedremo, questo vuol dire comprendere innanzitutto che
uno Stato che dispone della sovranità monetaria (cioè che emette la propria
valuta e non vincola quest’ultima a un tasso di cambio fisso) non è sottoposto a
vincoli finanziari di alcun tipo relativamente alla quantità di moneta che può
creare (il che non vuol dire che non abbia vincoli di altro tipo); da ciò ne
consegue che i governi che emettono la loro valuta non possono mai “finire i
soldi” o diventare insolventi (cioè fare default sui titoli di debito emessi nella
valuta nazionale). Tali Stati possiedono una capacità illimitata di spesa nella
propria valuta; cioè da un punto di vista tecnico possono acquistare senza
limiti tutti i beni e servizi disponibili nella valuta nazionale, per esempio
investendo in infrastrutture sociali e materiali e impiegando la forza lavoro non
occupata. Come ha scritto l’ex governatore della Federal Reserve Ben
Bernanke, “in un sistema monetario fiat, un governo (nella pratica, la banca
centrale in cooperazione con le altre agenzie) ha sempre la possibilità di
aumentare la spesa nominale e l’inflazione” 523 .
Un secondo punto altrettanto importante da considerare è che un paese che
opera in un regime di cambi flessibili non è sottoposto agli stessi vincoli della
bilancia dei pagamenti di un paese che opera in un contesto di cambi fissi: ciò
non significa che una nazione che fa fluttuare la propria valuta non sia
sottoposta ad alcun vincolo esterno, ma che tale nazione dispone di
un’autonomia maggiore in materia di politica economica di un paese che
sceglie di fissare il proprio tasso di cambio, giacché, se sceglie di perseguire
una politica economica espansiva, può, a certe condizioni, mantenere undisavanzo delle partite correnti anche per periodi prolungati senza
necessariamente incorrere in una crisi della bilancia dei pagamenti (e può
reagire a eventuali shock esterni con maggiore flessibilità).
Nelle pagine che seguono analizzeremo in maggiore dettaglio questi due
punti, anche in relazione a ciò che ci dicono sulle possibili conseguenze di
un’uscita di un paese dalla moneta unica. Partiamo dunque dal primo punto,
quello che riguarda le politiche monetarie e fiscali e l’interazione tra le due. Su
questo punto persistono ancora molti falsi miti, anche (se non soprattutto) a
sinistra. Tra questi, uno dei miti più persistenti e pervasivi è senz’altro quello
secondo cui la capacità di spesa degli Stati dipende dalle entrate fiscali, cioè
che i governi hanno bisogno di “finanziare” le loro spese per mezzo delle tasse
o, se registrano un disavanzo di bilancio (cioè se le spese superano le entrate),
attraverso l’emissione di titoli di debito. Da ciò ne consegue che i governi
devono astenersi dal “vivere al di sopra dei loro mezzi” (fare deficit), giacché i
disavanzi di bilancio determineranno nel tempo un accumulo eccessivo di
debito pubblico, a sua volta considerato “insostenibile” nel lungo termine. A
sinistra, poi, tale argomentazione trova ulteriore sostegno nell’idea che quando
lo Stato che si è “eccessivamente” indebitato sarà “costretto” a “fare austerità”,
saranno i lavoratori a farne le spese.
Secondo questa narrazione, ripetuta ossessivamente sui media mainstream, le finanze di uno Stato non sarebbero poi così diverse da quelle di una famiglia o di un’impresa: in quanto privati cittadini o imprenditori siamo fin troppo
consapevoli del fatto che per rimborsare un debito siamo costretti a intaccare
le nostre entrate, ridurre le nostre uscite o entrambe le cose (insomma a “fare
austerità”); che in caso di debito eccessivo possiamo diventare insolventi (“fare
default”); e che in qualunque momento possiamo letteralmente “finire i soldi”.
L’assunto di fondo è che lo stesso valga per uno Stato. Il paragone è
indubbiamente suggestivo; peccato che sia del tutto infondato da un punto di
vista macroeconomico, almeno per quanto concerne gli Stati che emettono la
propria valuta: le famiglie e le imprese, infatti, sono utilizzatori della valuta, nel
senso che devono procacciarsi i fondi prima di poterli spendere; gli Stati
sovrani, d’altro canto, emettono la valuta utilizzata dalle famiglie e dalle
imprese. Per questo motivo, come detto, da un punto di vista tecnico, non sono
sottoposti ad alcun vincolo di bilancio (a eccezione di quelli autoimposti), nel
senso che hanno la facoltà di spendere più di quello che incassano con le tasse;
per lo stesso motivo, non corrono alcun rischio di insolvenza. L’unico vincolo
reale, come vedremo, è quello dell’inflazione.
Per comprendere meglio quanto le finanze di uno Stato siano diverse da quelle di una famiglia, può essere utile un esempio pratico. Sebbene i dettagli istituzionali varino da nazione a nazione, in genere i governi che emettono la propria valuta spendono attingendo a un conto che hanno presso la banca centrale, che di per sé è una creatura dello Stato, indipendentemente dallo status giuridico della stessa (cioè dalla sua indipendenza formale). Quando deve effettuare un pagamento, il Tesoro ordina alla banca centrale di trasferire dei fondi dal suo conto al conto del destinatario della spesa pubblica presso la banca privata dello stesso. Allo stesso modo, quando il fisco riceve delle entrate, chiede alla banca centrale di registrare le entrate sul conto di tesoreria presso la banca centrale. Ora, la prassi comune vuole che i governi dispongano di fondi a sufficienza sul loro conto presso la banca centrale prima di poter spendere e, se non vi sono fondi a sufficienza sul conto (cioè se le uscite superano le entrate), che “coprano” il disavanzo (la differenza tra entrate e uscite) attraverso l’emissione di titoli di debito.
Tuttavia, questo non dovrebbe indurci a pensare che uno Stato sovrano
possa rimanere a corto di fondi nel caso in cui non vi siano investitori disposti
a comprare i titoli emessi dallo Stato; tantomeno che il governo possa vedersi
costretto ad alzare le tasse per rimborsare il debito o a fare default nel caso in
cui le entrate non siano sufficienti a coprire la spesa per interessi: questo può
avvenire solo in una situazione in cui uno Stato si indebiti in una valuta che
non controlla (come avviene nell’eurozona). Laddove un paese disponga di una
banca centrale disposta a garantire il debito pubblico emesso nella valuta
nazionale, infatti, quest’ultimo non rappresenta mai un problema – né il paese
sarà mai soggetto al rischio di fallimento/default – poiché la banca centrale può
sempre intervenire per sopperire a una eventuale carenza di acquirenti privati
o per rimborsare i titoli in scadenza (quello che in gergo tecnico si chiama
rollover) attraverso la creazione di denaro dal nulla, esattamente come faceva la Banca d’Italia prima del divorzio, senza considerare che è sempre la banca
centrale a determinare il tasso di interesse e dunque la spesa per interessi
complessiva. Come viene riconosciuto persino in un recente studio della BCE:
In uno Stato che dispone della propria moneta fiat, l’autorità monetaria e quella fiscale sono in grado di garantire che il debito pubblico denominato nella propria valuta nazionale non sia soggetto al rischio di default, nella misura in cui i titoli emessi dal governo sono sempre monetizzabili in modo equivalente. 524
Per contro, nota sempre lo studio in questione, “sebbene l’euro sia una
moneta fiat, le autorità fiscali degli Stati membri della zona euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza (non-defaultable debt)” 525 . In tal senso, uno dei vantaggi principali di un’uscita dalla moneta unica consisterebbe, per un paese come l’Italia, oltre che nel recupero della potestà di monetizzazione della spesa, nel fatto di riprendere il controllo del proprio debito pubblico ridenominando il debito esistente nella nuova valuta nazionale. Ciò non sarebbe particolarmente problematico da un punto di vista legale: secondo il principio legale universalmente accettato della lex monetae, un titolo di debito emesso secondo la legge di un certo paese può essere ridenominato in una nuova valuta se quel paese decide di cambiare valuta. Al 2017, solo il 2,5 per cento circa del debito pubblico italiano risultava essere stato emesso in base al diritto estero; il debito restante è stato emesso in base al diritto interno e potrebbe dunque essere ridenominato nella nuova valuta nazionale.
Per quanto riguarda il debito di nuova emissione, invece, questo potrebbe
essere sottoscritto direttamente dalla banca centrale: in questo caso, come
abbiamo visto in merito al rapporto tra Tesoro e Banca d’Italia prima del
divorzio, si tratterebbe di un debito che lo Stato ha nei confronti di se stesso e
dunque, a tutti gli effetti, fittizio. È opportuno comprendere, però, che in un
sistema fiat l’emissione stessa di titoli di debito a “copertura” del disavanzo
rappresenta una “barbara reliquia” di cui ci si potrebbe tranquillamente
sbarazzare: la banca centrale potrebbe semplicemente soddisfare il fabbisogno
del Tesoro accreditando i conti bancari dei destinatari della spesa pubblica,
cioè “monetizzando” la spesa pubblica in base agli obiettivi di politica
economica del governo, indipendentemente dalla posizione di bilancio dello
stesso (cioè che questa sia deficitaria o meno), senza che il Tesoro emetta titoli
di debito per un valore equivalente. In ultima analisi, l’idea che esista un
legame tra spesa in disavanzo e aumento del debito è una fallacia. Idealmente,
al fine di ottimizzare l’implementazione di tale politica, sarebbe auspicabile che
la banca centrale e il Tesoro fossero consolidati in un unico organo di governo.
In questo contesto, l’emissione di titoli di debito avrebbe unicamente lo scopo
di regolare il tasso di interesse sul mercato interbancario, fornendo agli
investitori un’attività fruttifera con cui drenare le riserve in eccesso presenti nel sistema bancario: si tratterebbe però di un’operazione di politica monetaria,
non di politica fiscale, solo indirettamente legata alla spesa in disavanzo. Il
finanziamento monetario della spesa pubblica secondo le modalità
sopraindicate viene definito nel gergo tecnico overt monetary financing (OMF)
e all’avviso di chi scrive sarebbe la soluzione istituzionale maggiormente auspicabile ai fini di un maggiore controllo democratico sull’economia. Lo stesso Bernanke ha recentemente indicato “un’espansione fiscale finanziata con la creazione di moneta”, cioè la monetizzazione del deficit senza contestuale emissione di titoli di debito per un valore equivalente, come “la migliore alternativa” in quei casi in cui la domanda aggregata sia particolarmente deficiente 526 .
Come scrive Massimo Pivetti, in un siffatto regime economico-istituzionale
“[l]a politica monetaria tornerebbe a essere una componente della politica
economica generale del governo, subordinata all’orientamento di politiche
fiscali e di bilancio finalizzate al sostegno dei livelli occupazionali, al
rafforzamento della protezione sociale e a una distribuzione del reddito più
equa” 527 . Un rapporto sinergico tra governo e banca centrale, tuttavia, non è
fondamentale solo al fine di sostenere l’occupazione e il welfare, ma anche a
quello di una efficace pianificazione degli investimenti. Come scrisse lo stesso
Guido Carli, la banca centrale va concepita come un organo pubblico al quale
è rimessa la “continua valutazione delle capacità di intrapresa, delle possibilità
di riuscita, dell’accettabilità dei calcoli e delle previsioni di quel ‘supercliente’
che è il sistema economico”, il quale, dopo aver preparato “per mezzo dei suoi
organi (governo, imprese, sindacati) un ‘superprogetto’”, desidera “ottenerne
l’appoggio finanziario” 528 , e che proprio per ciò deve sopperire ai fondi
necessari anche in caso di saldo negativo del bilancio statale.
Per quanto “radicale” possa apparire tale proposta, dunque, è evidente che
non si tratterebbe che di un ritorno a quella che fu la norma nel corso di buona
parte del dopoguerra. Fino agli anni Settanta, infatti, nella maggior parte dei
paesi sviluppati (inclusa l’Italia, come abbiamo visto), una completa autonomia
della banca centrale dal governo sarebbe stata inconcepibile. Al riguardo,
risulta particolarmente illuminante quanto veniva sostenuto in un documento
governativo britannico del 1959, il “rapporto Radcliffe”, che per molti anni
dettò la linea in materia di politica monetaria nel paese. Gli estensori del
documento rigettarono esplicitamente l’idea secondo cui “l’interesse pubblico
richiederebbe che alla banca centrale venisse concessa una completa
autonomia dall’influenza politica”:
Non condividiamo questo punto di vista [...] perché ci sembra che presupponga due enti statali separati e indipendenti, ciascuno dei quali in grado di determinare e perseguire una concezione sua propria delle esigenze poste dalla politica economica, oppure che assuma come vero obiettivo della banca centrale, unico e invariabile, la stabilità della moneta e dei cambi. Riteniamo che la prima alternativa [...] non sarebbe in armonia con le concezionigenerali di responsabilità politica che prevalgono in questo paese, e che la seconda [...] legherebbe la banca stessa a un solo obiettivo che è troppo limitato e, per di più, irrealizzabile senza un’azione complementare da parte del governo centrale. Ne segue che [la politica economica del governo], qualunque sia la forma che può assumere di volta in volta, deve comprendere la programmazione generale della politica monetaria e delle relative operazioni e che le politiche perseguibili dalla banca centrale devono dalla prima all’ultima essere in armonia con quelle dichiarate e difese dai ministri della Corona responsabili verso il Parlamento. 529
In quegli anni questa posizione rappresentava il consensus in pressoché tutti i
paesi sviluppati. Non a caso, il periodo che va dagli anni Trenta alla fine degli
anni Settanta fu caratterizzato praticamente ovunque da un’intensa
cooperazione monetario-fiscale che includeva forme dirette e indirette di
finanziamento monetario (in cui cioè il 40-50 per cento del debito pubblico
complessivo era finanziato dalla banca centrale e dalle istituzioni finanziarie
domestiche, che erano “obbligate” a investire una certa quantità di denaro in
titoli pubblici) 530 . Proprio quel periodo coincise con i livelli più bassi di
rapporto debito/PIL nel corso di tutto il XX secolo. Ma nei due secoli
precedenti la situazione non era così diversa. Come scrive Gallino, “le banche
centrali sono state create nei secoli per svolgere soprattutto una funzione:
creare il denaro necessario per coprire i disavanzi del bilancio statale, ripagare i debiti pubblici giunti a scadenza, finanziare la spesa sociale, promuovere
l’occupazione” 531 . Negli ultimi anni, vari esperti – tra cui Adair Turner,
William Buiter, Richard Wood, Martin Wolf, Paul McCulley e Zoltan Pozsar,
Steve Keen, Ricardo Caballero, John Muellbauer, Paul Krugman e persino,
come detto, l’ex governatore della Fed Ben Bernanke 532 – hanno rispolverato
l’idea di una qualche forma di finanziamento monetario del disavanzo
pubblico, indicandola come la soluzione più ottimale nell’attuale contesto delle
economie avanzate, proprio perché comporterebbe un aumento del deficit, e
dunque della domanda, senza far aumentare il debito pubblico. Trattasi, a ben
vedere, di una soluzione meno eretica di quanto potrebbe apparire a prima
vista (soprattutto se consideriamo che le operazioni di quantitative easing
possono essere considerate una forma di parziale monetizzazione de facto del
debito, giacché è lecito presumere che la quota di debito sovrano attualmente
detenuta dalle principali banche centrali del mondo rimarrà a bilancio delle
stesse a tempo indefinito).
Una delle critiche più comuni al finanziamento monetario della spesa
pubblica è che essa sarebbe intrinsecamente inflazionistica. Tuttavia, non vi è
ragione di ritenere che una politica di questo tipo sarebbe più inflazionistica dialtre politiche espansive, giacché è la spesa pubblica in sé che ha il potenziale di generare spinte inflazionistiche, indipendentemente da come questa è
finanziata (tramite la tassazione, la vendita di titoli di debito al settore privato
e/o alla banca centrale o la creazione di moneta non accompagnata da
un’emissione di titoli per un valore equivalente). Conseguentemente, l’impatto
del finanziamento monetario sulla spesa nominale e quindi potenzialmente
sull’inflazione dipende interamente dalle dimensioni dell’operazione: a
condizione che la crescita della spesa non superi la capacità produttiva
dell’economia, non c’è motivo di attendersi spinte inflazionistiche. Per
intenderci, se un governo continuasse a incrementare la spesa una volta
raggiunta la piena occupazione – e più in generale una volta che siano
impiegati tutti i fattori produttivi –, si avrà inflazione. Ma sarebbe un
comportamento del tutto irrazionale. Ciò significa che l’impatto della spesa
pubblica sull’inflazione in un paese che abbandonasse la zona euro
dipenderebbe in gran parte da fattori di domanda e offerta. Se il disavanzo
pubblico superasse la capacità produttiva dell’economia o fosse diretto verso
settori improduttivi, sarebbe lecito aspettarsi una spirale inflazionistica.
Tuttavia, paesi come l’Italia, la Spagna e il Portogallo registrano ancora tassi di
disoccupazione molto elevati e un alto sottoutilizzo della capacità produttiva
(l’Italia, come già ricordato, dall’inizio della crisi ha perduto un quarto della
propria capacità produttiva); questo significa che in questi paesi il margine per
incrementare l’occupazione e la produzione senza generare pressioni
inflazionistiche è molto ampio.
Da quanto detto, si evince che il potere di creare moneta in quantità illimitata
non significa certo che uno Stato debba spendere senza limiti e neanche che i
disavanzi di bilancio siano di per sé positivi. Non sono né buoni né cattivi,
come scrisse l’economista Abba Lerner negli anni Quaranta:
L’idea centrale è che la politica fiscale del governo – i suoi livelli di spesa, di tassazione e di indebitamento – andrebbe giudicata solo in base all’impatto di queste azioni sull’economia, senza badare a ciò che la dottrina economica tradizionale giudica virtuoso o meno. Tale principio, ossia quello di giudicare solo gli effetti di una certa azione, viene già applicato in molti campi dell’attività umana: si chiama metodo scientifico, in opposizione alla scolastica. Possiamo chiamare il principio secondo cui le politiche fiscali andrebbero giudicate in base al loro impatto sull’economia “finanza funzionale”. [...] [In base a tale principio] il governo dovrebbe adeguare i suoi livelli di spesa e di tassazione in maniera tale che la spesa totale nell’economia non sia né più né meno di quella che è sufficiente per generare la piena occupazione a prezzi correnti. Se ciò significa che bisogna fare deficit, “stampare denaro”, ecc., allora queste cose non sono né buone né cattive, sonosemplicemente i mezzi necessari per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione e della stabilità dei prezzi. 533
Sarebbe a dire che la politica fiscale di uno Stato può solo essere giudicata in
base agli obiettivi di politica economica che il governo si è dato. D’altro canto,
valutare la posizione di bilancio di un governo in base a regole fiscali fissate a
priori (come un tetto massimo del 3 per cento nel rapporto deficit/PIL, per
fare un esempio a caso), indipendentemente dal contesto economico e dagli
obiettivi del governo, è un approccio destinato a produrre esiti subottimali.
Pertanto, da una prospettiva progressiva – che parta cioè dall’assunto che
l’obiettivo di un governo debba essere la piena occupazione e il benessere dei
cittadini –, potrebbero effettivamente esserci delle circostanze in cui sia
opportuno per un governo perseguire un bilancio in pareggio o in avanzo;
tuttavia, il più delle volte sarà richiesto un disavanzo di bilancio. In
un’economia aperta, come lo sono tutte moderne economie industriali, la
posizione di bilancio discrezionale “corretta” (cioè in linea con gli obiettivi del
governo) dipenderà sia dalla propensione al risparmio/consumo del settore
privato, sia dal peso relativo del settore estero (cioè dal rapporto tra
importazioni ed esportazioni, che a sua volta dipende in larga parte dalla
propensione al risparmio/consumo del resto del mondo).
Quei paesi che in genere registrano un rilevante disavanzo delle partite
correnti alla piena occupazione (come l’Australia, il Regno Unito e gli Stati
Uniti), per raggiungere e mantenere la piena occupazione, necessiteranno di un
disavanzo di bilancio altrettanto rilevante, per compensare la perdita di
domanda dovuta alla spesa dei residenti in beni e servizi prodotti all’estero.
Paesi come il Giappone, che in genere registrano un modesto avanzo delle
partite correnti alla piena occupazione, necessiteranno di un disavanzo di
bilancio più contenuto. Infine, paesi che registrano rilevanti avanzi delle partite
correnti alla piena occupazione, come la Norvegia, necessiteranno in genere di
un avanzo di bilancio per evitare di surriscaldare l’economia. Da ciò ne
consegue che la “corretta” posizione di bilancio di uno Stato è determinata in
buona parte da fattori esogeni, cioè al di fuori del controllo del governo, tra cui
la propensione al risparmio/consumo del settore privato e del resto del mondo.
Come detto, la bilancia commerciale di un paese dipende in larga parte da
quest’ultimo fattore (al netto di fattori distorsivi quali un tasso di cambio
disallineato rispetto ai fondamentali di un paese, ecc.).
Ciò detto, è evidente che la bilancia commerciale di un paese dipende anche
da fattori endogeni: in un’economia aperta la spesa in disavanzo – poichéaumenta il reddito disponibile del settore privato (soprattutto se la spesa è finalizzata alla piena occupazione) e poiché una parte di quel reddito verrà
verosimilmente spesa in beni e servizi stranieri – tende a determinare una
riduzione dell’avanzo commerciale (se il paese è in avanzo) o, come spesso
accade, un (aumento del) disavanzo commerciale, anche in presenza di cambi
flessibili (giacché l’evidenza dimostra che il riallineamento automatico del
cambio tende a influire solo parzialmente sul rapporto tra importazioni ed
esportazioni). Questo fatto viene spesso tirato in causa – sia dal mainstream sia
dalla sinistra – per sconfessare l’idea che i governi possano utilizzare la politica
fiscale per raggiungere e mantenere la piena occupazione e migliorare le
condizioni materiali delle masse. L’assunto di fondo è che i disavanzi
commerciali sono di per sé negativi, perché comportano un accumulo di
debito estero, e che persistenti disavanzi di partite correnti sono insostenibili,
in quanto prima o poi risulteranno inevitabilmente in una crisi della bilancia
dei pagamenti, che costringerà il paese in questione a adottare dolorose
politiche deflazionistiche per comprimere la domanda interna, ridurre le
importazioni e riportare la bilancia commerciale in equilibrio. Come detto,
l’idea che un paese debba tendenzialmente puntare all’equilibrio esterno è uno
dei pochi punti su cui molti economisti eterodossi concordano con la teoria
mainstream. Per fare un esempio, lo stesso Alberto Bagnai, uno dei principali
fautori di un’uscita dell’Italia dall’euro, ha sostenuto che il principale beneficio
di un riallineamento del cambio, dovuto all’adozione di una nuova valuta
nazionale, “sarebbe di aprire qualche spazio fiscale. In assenza di un
riallineamento, ogni politica fiscale espansiva comprometterebbe l’equilibrio
esterno” 534 . Egli accetta dunque l’assunto secondo cui un’espansione fiscale
sarebbe possibile solo nella misura in cui non comprometta la bilancia
commerciale. Anche in presenza di un riallineamento del cambio, però, questo
ridurrebbe notevolmente il margine di manovra del paese.
Nella sezione che segue mostreremo perché dissentiamo dall’opinione
corrente secondo cui i disavanzi commerciali sarebbero di per sé negativi e
insostenibili nel medio-lungo periodo, e che dunque un paese debba tendere
all’equilibrio esterno (anche in un regime di cambi flessibili). Per inquadrare
meglio la questione, può essere utile rammentare che un disavanzo sul conto
corrente della bilancia dei pagamenti deve necessariamente corrispondere a un
afflusso finanziario netto dello stesso valore sul conto capitale della bilancia dei
pagamenti, che equivale a un aumento dei crediti esteri nei confronti del paese
in questione. Questo perché un disavanzo delle partite correnti devenecessariamente essere finanziato tramite un afflusso di capitali dall’estero.
Questo significa che gli stranieri – di solito coloro che risiedono in paesi che
registrano un avanzo delle partite correnti, cui deve necessariamente
corrispondere un deflusso finanziario netto uguale e opposto sul conto capitale
– stanno acquistando attività finanziarie (o di altro tipo) nazionali denominate
nella valuta di emissione del paese in disavanzo, prestando denaro ai cittadini
e/o al governo, e/o acquistando titoli azionari e immobiliari.
Da ciò ne consegue che la capacità di una nazione di mantenere un disavanzo
delle partite correnti su base continuativa dipende dalla disponibilità degli
stranieri ad accumulare crediti finanziari nella valuta emessa dalla nazione in
questione. In questo senso, un disavanzo delle partite correnti rispecchia la
volontà degli stranieri di “finanziare” la propensione al consumo del paese in
disavanzo. In altre parole, gli avanzi e i disavanzi delle partite correnti possono
essere compresi solo in termini relazionali: poiché il conto corrente del mondo
nel suo insieme deve necessariamente essere in equilibrio, ne consegue che,
affinché alcuni paesi possano accumulare avanzi delle partite correnti, altri
debbono necessariamente essere disposti a registrare dei disavanzi (finanziati
dai primi) e viceversa. Avanzi e disavanzi sono, in altre parole, due facce della
stessa medaglia, giacché è impossibile che tutti i paesi siano
contemporaneamente in surplus.
Fatta questa necessaria premessa, possiamo passare ad analizzare l’opinione
comune secondo cui i disavanzi commerciali andrebbero a detrimento del
benessere di una nazione. Per fare ciò, dobbiamo innanzitutto definire cosa
intendiamo per “benessere nazionale”. Sebbene questo dipenda, come è ovvio,
da innumerevoli fattori materiali e immateriali (molti dei quali trascendono
l’economia e la politica), in termini strettamente macroeconomici possiamo
equiparare il benessere di una nazione alla quantità di beni e servizi
“consumata” dai cittadini; sarebbe a dire che il tenore di vita del cittadino
medio non dipende da quanto la nazione produce ma da quanto consuma. Dal
punto di vista del consumatore è del tutto indifferente se i beni consumati sono
prodotti a livello nazionale o importati. Ne consegue che un disavanzo delle
partite correnti – che corrisponde a una quantità di beni e servizi consumati
maggiore di quella che un paese potrebbe permettersi in condizioni di
equilibrio o di avanzo con l’estero – accresce il benessere materiale di una
nazione nel periodo in cui si verifica. Ciò è particolarmente vero per i paesi in
via di sviluppo, che spesso mancano delle risorse reali (tecnologie, know-how,
ecc.) necessarie per aumentare la loro capacità produttiva. Come riconosceanche l’FMI, per questi paesi un disavanzo commerciale potrebbe essere l’unico modo per elevare il tenore di vita medio 535 . Viceversa, un avanzo delle partite correnti – che corrisponde a una quantità di beni e servizi consumati minore di quella che un paese potrebbe permettersi in condizioni di equilibrio o di avanzo con l’estero, solitamente a causa di politiche di contenimento della domanda (compressione dei salari e della spesa pubblica) – riduce il benessere materiale di una nazione nel periodo in cui si verifica. Come scrive Steven Suranovic, professore di economia alla George Washington University:
Un’eccedenza delle esportazioni rispetto alle importazioni rappresenta beni e servizi che si sarebbe potuto utilizzare per il consumo interno, gli investimenti e la spesa pubblica, ma vengono invece consumati dagli stranieri. Ciò significa che un’eccedenza del conto corrente riduce il potenziale di consumo e di investimento di un paese al di sotto del livello che sarebbe realizzabile in condizioni di equilibrio con l’estero. Se l’avanzo commerciale sostituisce il consumo interno e la spesa pubblica, allora l’avanzo commerciale ridurrà il tenore di vita medio del paese. Se l’avanzo commerciale sostituisce gli investimenti interni, il tenore di vita medio nell’immediato non ne risentirà, ma ne risentirà il potenziale di crescita futura. In questo senso, le eccedenze commerciali possono essere viste come un segno di debolezza di un’economia. Le eccedenze commerciali possono ridurre gli standard di vita e il potenziale di crescita futura di un paese. 536
La Germania è un ottimo esempio. Anche se il paese viene spesso presentato
come un modello da seguire, proprio in virtù del suo enorme avanzo
commerciale, Marcel Fratzscher, presidente del prestigioso istituto di ricerca
tedesco DIW, nel succitato libro Die Deutschland-Illusion scrive che
l’ossessione della Germania per le eccedenze commerciali ha generato un
sottoinvestimento privato cronico nell’economia del paese, giacché l’intero
sistema si basa sul deflusso di capitali tedeschi all’estero 537 , per non parlare del fatto che l’avanzo delle partite correnti tedesco, come abbiamo visto nell’ottavo capitolo, è in gran parte dovuto alle politiche di compressione dei salari perseguite dal governo a partire dalla metà degli anni 2000, che ha portato alla proliferazione di lavori precari, scarsamente retribuiti e poco qualificati e al soffocamento della domanda interna e quindi delle importazioni. A causa di ciò, i cittadini tedeschi hanno sperimentato – e continuano a sperimentare – un tenore di vita inferiore a quello di cui avrebbero goduto in condizioni di equilibrio o di disavanzo con l’estero. Come ha osservato Philippe Legrain, ex consigliere dell’ex presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, il persistente avanzo commerciale della Germania, lungi dall’essere il segno di una maggiore competitività dell’economia tedesca, “è in realtà sintomatico di un’economia profondamente malata” 538 .In base a quanto detto, è dato comprendere perché chi scrive appartiene a una scuola di pensiero che ritiene che le esportazioni rappresentano un costo reale per il paese in avanzo, mentre le importazioni rappresentano un beneficio reale per la nazione deficitaria. Questa nozione si basa sulla distinzione tra risorse reali misurate in beni e servizi e ricchezza nominale misurata in crediti finanziari. Le esportazioni rappresentano risorse reali negate ai cittadini del paese e inviate ad altre nazioni, in cambio di ricchezza nominale (crediti finanziari), mentre le importazioni rappresentano risorse reali ricevute da altre nazioni, in cambio di ricchezza nominale. In questo senso, l’affermazione secondo cui i paesi deficitari starebbero “vivendo al di sopra dei loro mezzi” ha poco senso; semmai sono i paesi in avanzo a “vivere al di sotto dei loro mezzi”.
In definitiva, la questione è se un paese preferisce spedire all’estero moneta fiat in cambio di beni e servizi reali o spedire all’estero beni e servizi reali in
cambio di moneta fiat. A ciò si potrebbe obiettare che i cittadini di un paese
non sono solo consumatori ma anche lavoratori, e che un disavanzo
commerciale tende a ridurre l’occupazione in quanto l’acquisto di beni e
servizi stranieri va a discapito dei beni e servizi nazionali e dunque delle
aziende (e dei lavoratori) che li producono. Ma il settore privato non è l’unico
in grado di creare occupazione: come già detto, uno Stato che emette la
propria valuta potrebbe tranquillamente impiegare i lavoratori che dovessero
perdere temporaneamente il lavoro nel settore privato a causa della perdita di
domanda aggregata derivante dal disavanzo commerciale, nonché ovviamente
promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore privato attraverso
la politica industriale.
A ogni modo, a prescindere da ciò che si ritiene essere l’impatto di un
disavanzo commerciale nel periodo in cui si verifica, secondo l’opinione
comune persistenti disavanzi sarebbero comunque insostenibili nel medio-
lungo periodo, in quanto comportano un accumulo di debito estero che prima
o poi risulterà inevitabilmente in una crisi della bilancia dei pagamenti. Ciò è
destinato a verificarsi perché prima o poi il paese deficitario non sarà più in
grado di servire il suo crescente debito estero e/o i mercati capitali perderanno
fiducia nella capacità del paese di rimborsare il debito e decideranno di
investire altrove, causando un deflusso di capitali dal paese in questione.
Questo determinerà una contrazione della domanda e un forte deprezzamento
della valuta, causando un significativo calo degli standard di vita; a sua volta, il
governo sarà costretto a adottare politiche recessive e a far aumentare il tasso
di disoccupazione. La conclusione che ne viene tratta è che i paesi dovrebberoevitare i disavanzi commerciali proprio per scongiurare il doloroso riequilibrio che prima o poi questi renderanno necessario.
L’argomentazione è persuasiva perché contiene un elemento di verità.
Tuttavia, si tratta di un altro esempio di applicazione della logica obsoleta di
Bretton Woods alla realtà radicalmente diversa dei sistemi monetari fiat in
regime di cambi fluttuanti. A differenza di quanto avveniva nel regime
precedente, in un sistema di cambi flessibili la nozione secondo cui “un paese
non può indebitarsi indefinitamente” non ha alcun senso. Come detto
poc’anzi, un disavanzo delle partite correnti riflette il fatto che un paese sta
accumulando passività nei confronti del resto del mondo, che si manifestano
sotto forma di afflussi finanziari netti sul suo conto capitale. Tuttavia,
l’opinione comune secondo cui questi debiti vadano “ripagati” è ingannevole:
fintanto che l’economia globale cresce, non vi è ragione di credere che la
volontà del resto del mondo di diversificare i propri investimenti non possa
risultare in un continuo accumulo di crediti nei confronti di un certo paese.
Finché la nazione in questione continua a svilupparsi e a offrire un contesto
economico e politico sufficientemente stabile, così da rassicurare il resto del
mondo sulla sua capacità e volontà di rimborsare i propri debiti, non c’è
nessun automatismo per cui la domanda per le attività di quel paese, a fronte
di un crescente debito estero, sia destinata a calare.
Pertanto, ciò che conta è se il disavanzo estero è associato a investimenti
produttivi che accrescono la capacità del paese di servire il proprio debito.
Come riconosciuto anche dal Fondo monetario internazionale, la capacità di
un paese di gestire persistenti disavanzi delle partite correnti dipende in ultima
analisi dalla possibilità che “l’indebitamento vada a finanziare investimenti che
hanno un prodotto marginale più alto del tasso di interesse che il paese deve
pagare sulle proprie passività estere” 539 . Se questa condizione è garantita, un paese può mantenere un disavanzo delle partite correnti anche a fronte di un aumento del rapporto debito estero/PIL, aumentando il tenore di vita del
paese sia nel breve sia nel lungo termine. Questo spiega perché tanti paesi sono
in grado di mantenere per anni persistenti deficit delle partite correnti senza
incorrere in crisi della bilancia dei pagamenti.
Ciò detto, è senz’altro vero che la volontà del resto del mondo di accumulare
crediti nei confronti del paese deficitario può declinare indipendentemente
dalla bilancia commerciale e/o dai fondamentali economici del paese in
questione, costringendolo a ridurre la sua eccedenza di importazioni rispetto
alle esportazioni, il che potrebbe rivelarsi doloroso nel breve termine. Questoperché nel mondo di oggi il tasso di cambio tende a essere determinato
prevalentemente dai flussi finanziari transfrontalieri, che tendono a
comportarsi in maniera piuttosto irrazionale. Pertanto, sebbene i paesi che
operano in un regime di cambi flessibili non siano sottoposti agli stessi vincoli
della bilancia dei pagamenti dei paesi che operano in un contesto di cambi
fissi, tutte le economie aperte sono suscettibili a fluttuazioni (anche
improvvise) nella bilancia dei pagamenti, soprattutto se i capitali in entrata
sono di natura puramente speculativa, e tendono cioè ad alimentare bolle
economiche (soprattutto nel mercato immobiliare) piuttosto che a finanziare
investimenti in attività produttive.
In tal senso, va sottolineato che un cambio fluttuante di per sé non è in grado
di evitare l’insorgere di crisi della bilancia dei pagamenti, in quanto, come
detto, l’andamento delle importazioni e delle esportazioni dipende
prevalentemente dalla domanda interna ed estera (il che non toglie che un
tasso di cambio flessibile possa fornire un parziale riequilibrio automatico delle
partite correnti a fronte di consistenti avanzi/disavanzi e dunque una difesa nei
confronti di comportamenti commerciali scorretti). Tantomeno un tasso di
cambio flessibile fornisce di per sé una difesa contro i flussi speculativi.
Tuttavia, la casistica dimostra che (i) le crisi della bilancia dei pagamenti (e le
improvvise fluttuazioni della stessa dovute ad afflussi/deflussi improvvisi di
capitali speculativi) sono molto più comuni nei regimi a cambio fisso (tutte le
crisi finanziarie dei mercati emergenti si sono verificate in presenza di una
qualche forma di aggancio valutario) 540 ; e (ii) che l’impatto di queste
fluttuazioni sui paesi che operano in un regime di cambi fissi è molto più
doloroso che sui paesi che fluttuano la propria valuta: anche in questo caso la
casistica dimostra che la svalutazione “esterna” (cioè del tasso di cambio) è
un’opzione meno dolorosa della svalutazione “interna” (cioè dei salari e della
spesa pubblica), l’unica opzione disponibile per i paesi che operano in un
regime di cambio fisso, come dimostra il caso dell’eurozona 541 . La ragione è
semplice: laddove la svalutazione interna riduce sia la domanda di beni e
servizi esteri che quella di beni e servizi prodotti a livello domestico, con
pesanti ricadute deflazionistiche sull’occupazione e sul sistema produttivo
nazionale, la svalutazione esterna si ripercuote soprattutto sulla domanda di
beni e servizi esteri, limitando l’impatto sui salari e sulla produzione nazionale.
A ogni modo, per ridurre le fluttuazioni del tasso di cambio, è auspicabile che
anche i paesi che operano in un regime di cambio flessibile favoriscano le
condizioni per ridurre la propria dipendenza dall’estero, sia attraversopolitiche ben mirate di sostituzione delle importazioni, sia attraverso controlli
sui capitali speculativi, come suggerito ormai persino dal Fondo monetario 542.
Un’altra opinione molto diffusa, infine, è quella secondo cui il deprezzamento della valuta cui è potenzialmente esposto un paese che fluttua la propria valuta (o la svalutazione della stessa che un paese potrebbe decidere di attuare in maniera discrezionale) generi automaticamente inflazione. Ciò si basa sull’assunto secondo cui i prezzi delle importazioni aumentino in eguale proporzione all’entità del deprezzamento, e che l’aumento del prezzo delle merci estere si trasferisca automaticamente sui prezzi interni, generando una
pericolosa spirale deprezzamento-inflazione, con un conseguente crollo del
tenore di vita del paese. A prima vista potrebbe apparire come un ragionamento ovvio, il che spiegherebbe perché il nesso tra svalutazione/deprezzamento e inflazione sia una delle argomentazioni
apparentemente più persuasive addotte per spiegare gli effetti devastanti cui
andrebbe incontro un paese che abbandonasse l’euro a seguito del
deprezzamento della nuova valuta nazionale rispetto alle principali valute di
riferimento.
In realtà, l’evidenza empirica mostra che per molti paesi “la correlazione tra
le variazioni dei prezzi al consumo e le variazioni del tasso di cambio nominale
è stata piuttosto bassa e decrescente negli ultimi due decenni” 543 . Un recente
paper della Banca d’Inghilterra conclude che “gli effetti dei movimenti dei tassi
di cambio sull’inflazione – e anche solo sui prezzi delle importazioni – non
sembrano essere coerenti nel tempo” 544 . Un altro studio sul tema mostra che
nei paesi europei di norma solo un terzo della svalutazione si trasferisce sui
prezzi interni 545 . D’altronde abbiamo visto come nel 1992 una svalutazione
improvvisa del 20 per cento non ebbe praticamente alcun impatto
sull’inflazione. Lo stesso euro dall’inizio della crisi finanziaria ha perso circa il
30 per cento del suo valore rispetto al dollaro senza che questo sia stato
accompagnato da un’inflazione galoppante in Europa; al contrario, come è
noto, l’inflazione è rimasta costantemente sotto l’obiettivo della BCE del 2 per
cento. In definitiva, pare abbastanza chiaro che, sebbene il deprezzamento
della valuta crei qualche trasferimento sui prezzi interni, non vi è motivo di
ritenere che questo sarebbe sufficiente a impedire un’espansione fiscale
finalizzata alla piena occupazione. Quanto detto finora ci permette anche di
analizzare i probabili effetti sull’inflazione dell’uscita di un paese come l’Italia
dall’euro. Sebbene nella vulgata giornalistica si dà per scontato che la nuova
valuta registrerebbe un deprezzamento di proporzioni bibliche rispetto allealtre valute, la maggior parte degli studi prevede un deprezzamento della
nuova valuta nazionale nell’ordine del 20-30 per cento 546 , con riflessi sul prezzo della benzina attorno al 6 per cento e un impatto sull’inflazione molto
inferiore, pari a 2 o 3 punti percentuale 547 .
Ovviamente analizzare nel dettaglio gli effetti di un’uscita unilaterale di un
paese dalla moneta unica va al di là delle possibilità oltre che delle finalità di
questo libro. Riassumendo la questione, è indubbio che la transizione a una
nuova valuta nazionale presenterebbe sfide tecniche ed economiche non
indifferenti e comporterebbe costi significativi, soprattutto nel breve termine.
Tuttavia, la nozione secondo cui questo comporterebbe inevitabilmente
conseguenze catastrofiche è semplice allarmismo: esistono varie soluzioni per
gestire e minimizzare l’impatto di una transizione dall’euro a una nuova valuta
nazionale. In ultima analisi, le conseguenze complessive dipendono dal quadro
economico che sottende l’uscita. Se il governo uscente si attiene ai dogmi
dell’economia mainstream, rifiuta di liberarsi dei vari vincoli esterni
autoimposti che caratterizzano i regimi neoliberali e continua sulla via
dell’austerità fiscale e della moderazione salariale, allora un’uscita rischia di
essere ancora più costosa di una permanenza nella moneta unica. Se, d’altro
canto, il governo uscente utilizza la sua rinnovata sovranità monetaria e fiscale
per riportare in uso le risorse attualmente inutilizzate o sottoutilizzate (tanto la
manodopera disoccupata quanto la capacità industriale), ristabilendo al tempo
stesso un certo grado di controllo sui flussi di capitali e di merci, nonché sul
settore finanziario nazionale e su altri settori chiave dell’economia, non vi è
motivo di ritenere che non si possa ristabilire la piena occupazione in tempi
relativamente rapidi, senza necessariamente incorrere in problemi
insormontabili in termini di bilancia commerciale e/o di inflazione. Come
sempre, il diavolo è nei dettagli. Più in generale, comunque, per certi paesi,
inclusa l’Italia, la presente situazione è di una gravità tale che ci sentiamo di
sottoscrivere quanto scritto da Luciano Gallino: “Il costo economico, politico e
sociale delle sovranità perdute a causa dell’euro supera il costo di uscirne” 548.
Un punto che ci preme sottolineare è che, sebbene la ridemocratizzazione del
livello nazionale, finalizzata alla ricostruzione di una sovranità democratica,
popolare (e costituzionale), implichi necessariamente un conflitto con quei
livelli sovranazionali che ne impediscono l’effettiva democratizzazione, questo
necessario processo di riterritorializzazione della politica non è assolutamente
in contraddizione con una politica di reale collaborazione e cooperazione
internazionale, in primis con gli altri paesi europei. Al contrario, ne è lapremessa necessaria. È ormai evidente come la morsa della moneta unica abbia enormemente acuito le divergenze intraeuropee, causando una diffusa
devastazione sociale e fomentando sentimenti di rivalità tra Stati che non si
vedevano dai tempi della Seconda guerra mondiale: questo rappresenta un
ostacolo alla cooperazione multilaterale tra paesi europei su temi cruciali quali
l’immigrazione, il clima, ecc. Abbandonare la moneta unica non
comprometterebbe questo tipo di cooperazione; al contrario, mettere i singoli
Stati nelle condizioni di poter tornare a operare nell’interesse dei cittadini
rappresenta la condicio sine qua non per il rinnovamento del progetto europeo
su basi radicalmente diverse, cioè sulla cooperazione tra Stati sovrani.
In questo senso, la democratizzazione dello spazio europeo e la sua
ricostruzione in chiave realmente solidaristica e paritaria – e non
gerarchizzante, neocoloniale, come quella dell’eurozona – presuppone la
ridemocratizzazione dei singoli Stati e persino “la ricostituzione di un senso
forte del nostro interesse nazionale” 549 . Solo in quest’ottica è possibile
reimmaginare l’Europa come uno spazio di pace, di cooperazione e di
democrazia, ma anche di rispetto della pluralità e della diversità delle varie
comunità nazionali e dei vari sistemi economici e produttivi. Come scrive Carlo
Galli, l’Europa “deve insomma configurarsi come una fornitrice di ‘servizi’ –
anche giuridici –, come una cornice leggera che contorna Stati sovrani liberi di
allearsi e di praticare modelli economici convergenti ma non unificati” 550 .
All’interno di questa cornice è possibile immaginare – e anzi dovremmo
auspicare – una collaborazione molto più stretta in campi – quali la politica
industriale, la ricerca, l’ambiente, lo scambio interculturale, ecc. – che non
hanno nulla a che vedere con l’integrazione monetaria ed economica e in cui
l’Europa può già contare numerosi successi. Basti pensare all’Airbus,
all’Agenzia spaziale europea, al Programma Ariane, al CERN, ecc. In breve,
un’altra Europa è non solo possibile ma necessaria; un’altra Unione europea
no.
Note:
515 L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, cit., capitolo 3.
516 G. Preterossi, Ritorno alla sovranità democratica, cit.
517 D. Moro, La gabbia dell’euro, cit., pp. 36-37.
518 G. Preterossi, Ritorno alla sovranità democratica, cit.
519 C. Galli, La guerra delle parole, “Ragioni politiche”, 26 luglio 2018.
520 L. Gallino, Come (e perché) uscire dall’euro, ma non dall’Unione europea, cit., conclusioni.
521 D. Moro, La gabbia dell’euro, cit., pp. 83-84.
522 A. Bagnai, Il tramonto dell’euro, cit.
523 B.S. Bernanke, Deflation: Making Sure “It” Doesn’t Happen Here, relazione al National Economists Club, Washington, 21 novembre 2002.
524 M. Jarocin ́ ski, B. Mac ́ kowiak, Monetary-fiscal interactions and the euro area’s malaise, ECB Working Paper Series n. 2072, giugno 2017, pp. 4-5.
525 Ibid.
526 B.S. Bernanke, What Tools Does the Fed Have Left? Part 3: Helicopter Money, Brookings, 11 aprile
2016.
527 M. Pivetti, Per una finanza al servizio dell’economia reale, in “MicroMega”, n. 4, 2017, pp. 183-196.
528 G. Carli, Problemi odierni di un istituto di emissione, “Bancaria”, 1966, p. 678.
529 Cfr. M. Pivetti, Per una finanza al servizio dell’economia reale, cit.
530 Cfr. J. Ryan-Collins, F. van Lerven, Bringing the helicopter to ground. A historical review of fiscal-
monetary coordination to support economic growth in the 20th century, UCL Institute for Innovation and
Public Purpose, Working Paper IIPP WP 2018-08, agosto 2018.
531 L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, cit., p. 188.
532 Cfr. F. van Lerven, A Guide to Public Money Creation, Positive Money, 2016.
533 A.P. Lerner, Functional Finance and Federal Debt, in “Social Research”, vol. 10, n. 1, febbraio 1943.
534 Citato in S. Cesaratto, Sei lezioni di economia, cit., p. 202.
535 A. Ghosh, U. Ramakrishnan, Current Account Deficits: Is There a Problem?, “Finance & Development”, 28 marzo 2012.
536 S. Suranovic, International Finance: Theory and Policy, v. 1.0.1, Flat World, 2017.
537 M. Fratzscher, op. cit.
538 P. Legrain, Germany’s Economic Mirage, “Project Syndicate”, 23 settembre 2014.
539 A.R. Ghosh, U. Ramakrishnan, op. cit.
540 Cfr. J.D. Ostry et al., Capital Inflows: The Role of Controls, IMF Staff Position Note SPN/10/04, 19 febbraio 2010.
541 Cfr. Y. Carrière-Swallow et al., No Pain, All Gain? Exchange Rate Flexibility and the Expenditure-Switching Effect, IMF Working Paper WP/18/213, settembre 2018; M. Weisbrot, R. Ray, Latvia’s Internal Devaluation: A Success Story?, CEPR, dicembre 2011.
542 J.D. Ostry et al., op. cit.
543 J. Bailliu et al., Has Exchange Rate Pass-Through Really Declined? Some Recent Insights from the Literature, Bank of Canada Review, autunno 2010, p. 4.
544 K. Forbes, Much Ado About Something Important: How Do Exchange Rate Movements Affect Inflation?, relazione alla 47esima conferenza annuale del Money, Macro and Finance Research Group della Banca d’Inghilterra, Cardiff, 11 settembre 2015.
545 I. Goldfajn, S. Werlang, The Pass-Through from Depreciation to Inflation: A Panel Study, Banco Central do Brasil Working Paper n. 5, 2000.
546 Cfr. A. Bagnai, C.A. Mongeau Ospina, The impact of an exchange rate realignment on the trade balance: Euro vs. national currency, a/simmetrie Policy Briefs Series 1401, 2014.
547 Cfr. Banca centrale europea, Exchange rate pass-through into euro area inflation, Economic Bulletin n. 7, 2016.
548 L. Gallino, Come (e perché) uscire dall’euro, ma non dall’Unione europea, cit., conclusioni.
549 M. D’Angelillo, L. Paggi, Riformismo in tempo di crisi, cit.
550 C. Galli, Tesi sull’Europa, “Ragioni politiche”, 15 febbraio 2017.
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