Note sul debito pubblico italiano
di Dario Di Nepi
In questi mesi il dibattito sui debiti sovrani è stato orientato prevalentemente alle discussioni in merito al rischio di default della Grecia, ai problemi relativi agli aiuti da dare al Portogallo e alla situazione irlandese. In Europa si parla dei Pigs e del loro ruolo destabilizzatore, dei rischi per l’economia europea e per il futuro dell’Euro.L’Italia, pur non essendo inserita all’interno dei Pigs, e pur non avendo subito l’attacco speculativo a cui è stata sottoposta la Grecia, non può essere considerata esente da problemi riguardanti sia il debito pubblico, sia il deficit di bilancio. Come sappiamo questi due elementi sono strettamente legati e connessi tra di loro, anche se non bisognerebbe fare l’errore tipico degli analisti liberisti di vedere una relazione diretta causa-effetto tra spesa sociale – deficit di bilancio – debito pubblico.
Sin dagli albori dello Stato moderno il debito pubblico infatti era legato principalmente al finanziamento di attività militari o coloniali, determinanti per l’espansione commerciale, necessaria alla nascente economia mercantilista. Da questo punto di vista gli esempi possono essere molteplici, basti pensare che sino alla Rivoluzione Industriale la Banca d’Inghilterra compie la maggior parte delle operazioni di credito con il governo reale.[1] Gli Stati (e dunque, in forma indiretta, l’intera collettività tramite imposte o tagli alla spesa sociale) sono stati quindi tra i principali finanziatori dello sviluppo di tutto il mercato finanziario internazionale, attraverso i loro debiti infatti hanno garantito delle rendite pressoché costanti ai propri debitori (inizialmente le banche nazionali, in seguito le banche private, le compagnie di assicurazioni, i fondi di investimento, etc).
Questo piccolo excursus storico ci permette di comprendere come anche la logica che ha causato lo sviluppo e la crescita smisurata del debito pubblico italiano è legata principalmente agli interessi messi in campo dal capitale finanziario, più che da una “eccessiva” crescita della spesa sociale.
Da questo punto di vista risulta utile analizzare brevemente la storia e le origini del debito pubblico italiano, per comprendere al meglio sia la situazione attuale, sia le relazioni e le affinità con la natura intrinseca di questo problema.
Come si può vedere dal grafico 1 il debito pubblico italiano ha avuto una evoluzione abbastanza costante fino al 1979, in seguito ha subito una crescita notevole, aumentando considerevolmente la sua percentuale rispetto al PIL. Questo trend si inserisce in un contesto internazionale che vede una situazione abbastanza simile in quasi tutti i Paesi a capitalismo avanzato, basti pensare che ad oggi il rapporto debito pubblico/PIL degli USA è quasi raddoppiato rispetto al 34% del 1980.
Grafico 1
Gli anni 80 dunque sono visti da molti analisti come il momento decisivo per la crescita del debito pubblico italiano, effettivamente se si guardano i dati che ci fornisce la banca d’Italia questa tendenza è di fatto confermata: il rapporto debito pubblico/PIL è infatti del 60% nel 1980, mentre raggiungerà il 121,5% nel 1994. In questo stesso periodo il deficit italiano raggiungerà una media del 10,7% ( consideriamo che la media europea era del 4%), mentre la spesa pubblica passò dal 36% del Pil nel 1970 al 50% del Pil nel 1985.
Questi dati dunque sembrerebbero confermare la tesi secondo cui a causare l’incremento del debito pubblico, sia stata proprio la crescita della spesa pubblica e in particolare della spesa sociale. Un’impostazione di questo tipo è ormai accolta dalla maggior parte degli schieramenti politici che giustificano qualsiasi taglio alla spesa sociale in nome dell’enorme debito pubblico italiano.
Questo tipo di analisi però risulta alquanto ideologica, infatti se si analizza più in profondità la struttura della spesa pubblica italiana di quel periodo possiamo vedere come la spesa primaria (ovvero la spesa effettuata al netto degli interessi sul debito pubblico), è stata quasi sempre inferiore alla media dei Paesi europei tra il 1980 e il 1993. A dircelo è la stessa Banca d’Italia come dimostra il grafico 2. Dal grafico infatti appare chiaro che, più che un aumento sconsiderato della spesa pubblica italiana, c’è stato un progressivo allineamento verso gli standard europei, basti pensare infatti che in Italia la previdenza sociale è stata istituita solo nel 1970 e il sistema sanitario nazionale nel 1978.
La spesa sociale dunque non fu affatto “gonfiata”, né può essere definita eccessiva, ciò che ha causato direttamente l’aumento del disavanzo degli anni 80 è stata la mancanza di entrate adeguate ad una spesa sociale dignitosa.
Grafico 2: Confronto tra spesa al netto degli interessi in Italia e spesa al netto degli interessi in Europa.
Il principale fattore della mancanza di entrate adeguate è stato certamente l’evasione fiscale, questo elemento è caratteristico del sistema economico italiano ma, al contrario di quanto si possa pensare, non si riferisce solamente all’evasione prodotta dalle singole persone. A pesare più di tutto sulla mancanza di entrate fiscali adeguate è stato, ed è tuttora, l’evasione procurata dai redditi imprenditoriali e da capitale che già nel 1980 si aggirava intorno al 60 %.
L’aumento del disavanzo dunque si legava sempre di più con l’aumento del debito pubblico, che veniva utilizzato per colmare i vuoti causati dalla mancanza di entrate adeguate (basti pensare che nel 1985 la pressione fiscale in Italia era del 34,5% del Pil mentre la media europea era del 41% e la Francia era al 46%). L’aumento del debito pubblico, che come abbiamo detto stava di fatto sostituendo in parte la necessità di una lotta contro l’evasione dei redditi da capitale, veniva usato come pretesto per scatenare la battaglia ideologica neoliberista contro il ruolo redistributore dello stato e contro l’aumento dei servizi sociali.
Ma le scarse entrate fiscali non sono l’unica spiegazione dell’aumento del debito pubblico negli anni 80 e nei primi anni 90. Prima della crisi degli anni 70 il debito pubblico era finanziato con l’emissione di moneta da parte della banca centrale. Dal 1975 la Banca d’Italia era obbligata a comprare i titoli di stato rimasti invenduti, di conseguenza il debito era finanziato da un’istituzione pubblica, all’inizio degli anni 80 però si consumò la separazione tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia e si concluse il periodo del finanziamento obbligatorio del debito. A sostituirsi al creditore pubblico furono dei creditori privati, in particolare banche e compagnie di assicurazione. I governi di allora avevano quindi scelto di affidare il debito pubblico a dei soggetti privati, interessati ovviamente a massimizzare i propri profitti finanziari.
L’obiettivo degli investitori privati che decidevano di acquistare i titoli di stato italiani era infatti palese, basti pensare che già nel 1985 oltre il 40% era posseduto da banche e istituti di credito. Un altro elemento su cui riflettere è il fatto che, in poco tempo, l’acquisto dei bot people diventò un meccanismo di elusione “legale” del fisco da parte delle grandi imprese. Aziende come la Fiat o l’Olivetti infatti nel 1984 ottenevano rispettivamente il 57% e il 64% dei loro utili dagli interessi sui titoli di stato, il meccanismo che veniva messo in campo era abbastanza complesso ma efficace: le imprese infatti ottenevano dalla banche dei prestiti per acquistare bot e cct, alla fine dell’anno avrebbero dunque inserito nei bilanci degli interessi passivi (dovuti al fatto che erano prestiti bancari), l’inserimento di questa voce riduceva l’utile imponibile, mentre quelli che venivano segnalati come interessi attivi erano principalmente i titoli di stato, che però erano totalmente esenti da qualsiasi tipo di imposta. Un modo efficace per evadere il fisco e ridurre ulteriormente le entrate della collettività.
Il momento in cui il debito italiano subì un’impennata decisiva fu però il 1992 quando, con il trattato di Maastricht, venne liberalizzata la circolazione dei capitali all’interno dell’Unione Europea. In quel periodo infatti iniziò una forte speculazione sulla lira, quest’ultima, unita alla scadenza media molto breve dei titoli di stato italiani (più o meno 2,96 anni), faceva scendere ulteriormente il tasso di cambio della lira. Il ministero del Tesoro dunque, a causa dei fattori esposti precedentemente, scelse di aumentare ulteriormente la remunerazione dei titoli di stato, così dal 1992 al 1994 il debito pubblico passò dal 98% al 121% del Pil. Questa improvvisa impennata era dovuta effettivamente all’aumento del disavanzo ma, a differenza di quanto sostenevano gli economisti liberisti, quest’ultimo era stato causato proprio dalla crescita degli interessi che l’Italia doveva pagare agli investitori privati che avevano finanziato il debito pubblico.
Attualmente il debito pubblico italiano è pari al 120% del Pil, secondo un rapporto CIA riportato dal New York Times l’Italia è l’ottavo Paese più indebitato al mondo. Dal 1995 al 2005 si era verificato un rallentamento della crescita del debito, che però ha subito una nuova impennata a partire dal 2008, anno di esplosione della crisi economica. Chiaramente questa data non è affatto casuale, anche se in Italia non si sono verificati casi del livello di Leheman Brothers o della crisi greca, il principio di aumento del debito rimane legato a due elementi, diversi ma connessi tra di loro: da un lato il debito privato è stato trasferito verso il pubblico e da un altro la necessità di mantenere alti i tassi d’interesse sui titoli di stato, indispensabili per garantire la rendita finanziaria.
Quest’ultimo punto in particolare è emblematico del circolo vizioso creato ad arte per garantire delle rendite quasi certe agli investitori privati; lo Stato infatti per coprire il fabbisogno necessario per ripagare i prestiti ottenuti colloca sul mercato i titoli di stato a tassi appetibili e competitivi. Gli investitori privati, banche, assicurazioni, grandi imprese, acquistano questi titoli certi del fatto che lo Stato garantisce più di chiunque altro il pagamento degli interessi sui prestiti ottenuti. Tutto ciò fa aumentare ulteriormente la spesa pubblica destinata al rimborso degli interessi e, conseguentemente, riduce quella destinata alla spesa sociale, tramite l’attuazione delle politiche di austerity che si stanno sviluppando in tutta Europa.
Quanto detto finora ci permette di arrivare a due conclusioni, che risultano vere e realistiche anche per quanto riguarda un Paese a capitalismo avanzato come l’Italia: la prima ci dice che il debito finora contratto è illegittimo in quanto creato appositamente per garantire adeguate rendite finanziarie a imprese e banche, la seconda invece rende evidente come l’evasione fiscale dei redditi da capitale sia stata costantemente accettata da tutti i governi, che evidentemente hanno preferito aumentare il debito e tagliare la spesa sociale, piuttosto che attaccare i profitti e i privilegi di banche e grandi imprese.
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