Il populismo è democratico
Machiavelli e gli appetiti delle élite
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
L’anti-populismo può facilmente diventare un’arma nella mani delle élite, un’arma che pone a rischio la stessa convivenza democratica. Questo ci può insegnare Machiavelli attraverso un dibattito anglosassone sui rapporti tra i Discorsi e il neo-repubblicanesimo contemporaneo
L’accusa di populismoricorre spesso nel lessico pubblico italiano. Interi movimenti politici sono spesso ricondotti a questa categoria. È il caso per esempio del Movimento 5 Stelle e, per alcuni aspetti, del cosiddettoberlusconismo, oltre che di vari soggetti dediti alla contestazione politica, inclusi i vari Occupy e le loro declinazioni locali.[1]A detta di quelli che lo criticano, il populismo consiste nella semplificazione eccessiva di questioni pubbliche complicate, ridotte a caricature adatte a soddisfare gli appetiti dei più e a suscitare in essi irrazionali e controproducenti istinti contestatori. Tale semplificazione agitatoria danneggerebbe non solo il perseguimento del bene collettivo ma anche quello degli interessi di coloro che si fanno attrarre da tale semplificazione. È implicita in questa concezione del populismo un’immagine negativa delle moltitudini: il “popolo” è spesso disinformato, distratto, disinteressato al bene comune, volatile nelle preferenze e nel giudizio politico, attratto dalle semplificazioni concettuali, estraneo alla razionalità e al senso civico richiesto dall’analisi dei problemi sociali ed economici più urgenti e complessi. Non solo: in tale accusa è implicita una valorizzazione paternalistica del ruolo delle élite tecnocratiche, considerate le più adatte a identificare e interpretare le vere esigenze e i veri interessi delle persone comuni. La maggioranza dei cittadini vivrebbe, secondo gli anti-populisti, in una sorta di falsa coscienza indotta da mancanza di competenze, da pigrizia cognitiva, e da un uso smodato della TV o dei social media, che non permetterebbero alle persone comuni di giudicare da sé del proprio destino politico.
Questa interpretazione anti-populista del significato politico dei populismi, ancorché egemone, è inadeguata. Per chi ritiene che gli appetiti delle oligarchie – per usare i termini di Machiavelli – costituiscano un elemento di rischio importante per quanto riguarda il perseguimento del bene comune, non è difficile vedere come l’accusa di populismo possa diventare facilmente uno strumento per mantenere ed estendere il potere di quelle stesse oligarchie, oltre che la loro influenza sulla vita e le decisioni pubbliche, riducendo così ogni tentativo di contestazione che viene dal basso a irrazionalità o pigrizia intellettuale o morale. L’anti-populismo può dunque diventare un’arma nella mani delle élite, un’arma che pone a rischio la stessa convivenza democratica. E il populismo, se propriamente articolato, può invece essere utile alla vita democratica. Questo ci insegna Machiavelli attraverso un recente dibattito anglosassone sulle tesi dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
L’anti-populismo e il dibattito neo-repubblicano su Machiavelli
In questo breve scritto, vogliamo spiegare la potenzialità contestatoria e anti-elitista del populismo, esplorandone le potenzialità democratiche. Il nostro punto di partenza è la lettura che il politologo John McCormick ha dato di ciò Machiavelli dice nei Discorsi a proposito delle istituzioni della Repubblica romana, lettura contrapposta a quella cosiddetta neo-repubblicana, e ormai divenuta ortodossa, di autori come lo storico Quentin Skinner e il filosofo Philip Pettit.[2] McCormick pone in risalto quegli aspetti che possono essere legittimamente – anche se anacronisticamente e provocatoriamente – chiamati populisti delle teorie di Machiavelli. Per Machiavelli la Repubblica romana offre un esempio, per quanto imperfetto, di un sistema istituzionale all’interno del quale anche coloro che non appartengono alle élite possono contestare efficacemente, e per di più per via istituzionale, il potere e le ambizioni delle oligarchie, la cui azione sarebbe altrimenti priva di limiti e dannosa per gli interessi delle persone comuni, oltre che per la sopravvivenza stessa della Repubblica, e quindi nel lungo termine per gli interessi di tutti, incluse le oligarchie stesse. Questo aspetto contestatorio si riscontra nelle magistrature plebee della costituzione mista della Repubblica romana, che garantiva ai semplici cittadini ampi poteri reattivi e propositivi tramite assemblee dedicate e potenti ruoli politici, in primo luogo il tribunato, a cui le élite non avevano accesso.
Tramite una lettura attenta di Machiavelli, è possibile mostrare la continuità tra l’anti-populismo e il pensiero conservatore e antidemocratico, ed è possibile contrapporre ai pericoli che derivano dagli istinti popolari i pericoli altrettanto seri costituiti dagli abusi, talvolta persino inconsapevoli e involontari, delle élite. Machiavelli cerca di elaborare principi e istituzioni anti-elitarie, anti-oligarchiche, propriamente democratiche e partecipative. Per quanto i tempi siano cambiati, le sue idee possono essere d’aiuto e d’ispirazione quando ci si accinge a progettare istituzioni adatte ad arginare la disaffezione per la politica e a restituire il controllo autentico delle decisioni pubbliche ai cittadini. Crediamo che il dibattito anglosassone su Machiavelli sia uno sfondo teorico adeguato per queste riflessioni perché permette di ricostruire con precisione le varie posizioni in campo.
Nel dibattito anglosassone, la rilettura di Machiavelli nell’ambito dell’analisi critica della politica contemporanea ha una storia ormai pluridecennale. Il lavoro di recupero dell’ideologia delle città italiane tra il tardo medioevo e il rinascimento, compiuto dagli storici di origine tedesca Felix Gilbert e Hans Baron, fu recepito nel contesto anglosassone come un salutare contrappeso all’interpretazione liberale (e lockeana) del costituzionalismo americano. All’individualismo, basato sulla proprietà privata, di questa interpretazione veniva contrapposta l’influenza che sui costituenti americani aveva esercitato l’ideale italiano del repubblicanesimo civico e delle virtù del buon cittadino, impegnato nel perseguimento del bene comune della Repubblica.[3] Fu il libro di John Pocock sul momento machiavelliano ad individuare in Machiavelli il perno cruciale di quella tradizione, mostrando come le idee di Machiavelli fossero penetrate all’interno del puritanesimo inglese e, quindi, delle colonie americane.[4] Pocock presenta l’ideale repubblicano di Machiavelli come centrato sulle virtù civiche e partecipative, viste come ultimo rimedio alla decadenza delle istituzioni repubblicane. Questo era stato un tema già di Polibio. Machiavelli lo aveva percepito in tutta la sua concreta drammaticità, da protagonista di quell’esperienza tarda di repubblicanesimo italiano che fu la penultima Repubblica fiorentina, la cui crisi fu l’occasione principale delle sue riflessioni. Il libro di Pocock contribuì a superare l’interpretazione allora corrente di Machiavelli come teorico del potere e dell’emergente sovranità statale.
Fu però Quentin Skinner a elaborare quell’interpretazione neo-repubblicana di Machiavelli che è oggi diventata ortodossa.[5] Mentre Pocock aveva associato l’ideale repubblicano alle virtù civiche, Skinner si concentra sull’ideale classico-romano di libertà personale. La costituzione repubblicana si caratterizza non come modello istituzionale ideale dove l’animale politico aristotelico può esercitare le sue virtù civiche, ma piuttosto come semplicemente uno strumento per garantire a cittadini imperfetti uno stato nel quale non siano costantemente minacciati da interferenze esterne. Questa è un’interpretazione di Machiavelli che trova riscontro in quei passaggi dei Discorsi in cui si insiste sul desiderio dei più di vivere in sicurezza, sia per quanto riguarda la propria persona che per quanto riguarda i propri averi, liberi da qualsiasi minaccia che potrebbe derivare dai desideri di ricchezza, potere o prestigio di altri. Come in Pocock, ma per motivi diversi, la teoria della libertà neo-romana è vista in Skinner come alternativa al liberalismo più ortodosso, dato che la protezione della libertà richiede che si pongano dei limiti precisi alle ambizioni politiche ed economiche dei singoli.
Queste svolte neo-romane negli studi su Machiavelli vengono recepite da McCormick, che però porta l’attenzione sulla decisa formulazione anti-elitaria e anti-oligarchica dell’ideale romano nei Discorsi. Nella lettura di McCormick, il valore che Machiavelli attribuisce a soluzioni romane è un valore strumentale: esse servono ad arginare quello che per Machiavelli è il problema centrale delle Repubblica, e cioè gli appetiti di dominazione delle élite politiche ed economiche. Secondo McCormick, Machiavelli è infatti democratico in un senso esplicitamente classista.
L’etimologia del termine democrazia suggerisce un riferimento al popolo e al suo potere, dove il popolo è concepito non come unità astratta, etnica o nazionale che sia, ma semplicemente come insieme multiplo e variegato di tutti quelli che non fanno parte dei ranghi dei potenti, come moltitudine. Una rapida scorsa alla storia del pensiero politico mostra che, fino a tempi recenti, il termine democrazia ha sempre avuto una valenza contestatoria e conflittuale. Il termine era utilizzato principalmente dalle élite con connotazione negativa, allo stesso modo in cui oggi si tende a invocare la parolapopulismo. Tale connotazione negativa si trova per esempio già nell’Etica Nicomachea, dove Aristotele descrive la democrazia come una perversione della forma di governo timocratica, nella quale invece il potere è attribuito ai soli possidenti.[6] L’uso dispregiativo del termine democrazia si ritrova inoltre nell’Italia rinascimentale, quando Guicciardini, proprio in opposizione a Machiavelli, metteva in guardia dai governi popolari e dal popolo, perché a suo avviso “è forse tanto più pestifera la sua tirannide [del popolo] quanto è pericolosa l’ignoranza, perché non ha né peso né misura né legge che la malignità”.[7]Si ritrova anche negli scritti dei fondatori degli Stati Uniti d’America, ad esempio in Madison, che lamenta lo “spettacolo di tumulti e rivalità” delle democrazie e l’intrinseca incompatibilità tra i governi popolari e la “sicurezza personale o il diritto di proprietà”.[8]
McCormick mostra chiaramente che a questa tradizione anti-popolare, Machiavelli è decisamente alternativo, dato che Machiavelli contrappone ai rischi posti dal governo popolare quelli altrettanto gravi attribuibili alle élite economiche e politiche. Per questo motivo, quella di McCormick è una rilettura importante dal punto di vista storico. Madison e gli altri padri fondatori della costituzione statunitense considerati tra i principali eredi di Machiavelli nell’interpretazione di Pocock e Skinner. McCormick mostra invece che Madison e gli altri padri fondatori sono gli eredi dell’elitarismo di Guicciardini.
Gli argomenti politici del Machiavelli democratico
Il potenziale profondamente democratico del pensiero di Machiavelli potrebbe non essere evidente a chi si limitasse a una lettura superficiale della sua opera più celebre, ilPrincipe, con la sua precettistica sulla conquista e sulla gestione del potere che può forse, come suggerito da Dario Fo in un noto e bellissimo sketch, essere utilizzata a scopi difensivi dalle potenziali vittime. Sono invece i Discorsi a costituire il principale oggetto della disputa interpretativa tra i neo-repubblicani e McCormick. Per i neo-repubblicani iDiscorsi sono il principale tramite tra il pensiero romano e la modernità politica, alla quale trasmettono un ideale di libertà intesa come godimento passivo di una condizione nella quale la sicurezza personale è garantita dalla legge, che ha la funzione primaria di proteggere i cittadini dagli arbitrii di maggioranze facinorose e imprevedibili.[9] Per McCormick, i Discorsi sono invece una lunga analisi delle virtù delle istituzioni popolari della Repubblica romana quale miglior garanzia per la libertà dei più e per proteggere la Repubblica dagli appetiti oppressivi delle élite politiche ed economiche.
Tra le altre cose, il contributo di Machiavelli permette di rilevare la potenziale insufficienza dei meccanismi elettorali come strumento di controllo popolare sul potere detenuto dalle oligarchie, in contrasto quindi con la teoria neo-repubblicana basata sulla rappresentanza e sulle elezioni intese come atto di autorizzazione delle decisioni politiche. Questa contrapposizione teorica era già evidente in epoca rinascimentale, dove la disputa sul destino della Repubblica fiorentina contrapponeva da una parte i pensatori aristocratici ed elitisti – come Guicciardini, che a partire dall’esplicita condanna degli umori e delle capacità del popolo preferiva governi “stretti” sul modello della costituzione della Repubblica di Venezia – e dall’altra Machiavelli, che si rifaceva invece alla Roma repubblicana per proporre correzioni contestatorie all’inevitabile deriva oligarchica delle repubbliche. Machiavelli unisce dunque uno sguardo duramente realista sull’inevitabilità sociologica delle oligarchie a un giudizio fortemente negativo sulle conseguenze del loro potere quando questo potere rimanga incontrollato.
È questo Machiavelli che, a nostro avviso, può servire ad analizzare le istituzioni politiche delle democrazie contemporanee. L’agnosticismo a proposito del conflitto di classe tra oligarchie e popolo è implicito nelle istituzioni attuali. Questo spiega i limiti democratici di queste istituzioni stesse, specialmente in situazioni in cui ricchezza e potere sono concentrati nelle mani di pochi individui. Questo discorso assume quindi oggi una valenza particolare, visti i dati sulla forte crescita negli ultimi trent’anni delle disuguaglianze economiche in molte nazioni, incluse le democrazie occidentali come l’Italia.[10]
Vogliamo sottolineare quello che secondo noi è l’aspetto più sconcertante del Machiavelli dei Discorsi, e cioè l’aperta ammirazione per la storia estremamente conflittuale della Repubblica romana. È al conflitto, ad un certo tipo di conflitto, che Machiavelli attribuisce il successo della Repubblica romana, successo che nel mondo classico si imputava al giusto equilibrio fra elemento popolare, senatoriale e monarchico della complessa costituzione romana.[11] La tesi di Machiavelli era probabilmente sorprendente agli occhi dei suoi stessi contemporanei, i quali erano familiari con la teoria politica comunale che indicava nella concordia civile il supremo valore repubblicano. In realtà Machiavelli condivide con i suoi immediati predecessori la condanna dei “tumulti” civili, ma distingue chiaramente la lotta partitica dovuta alla faziosità delle famiglie oligarchiche, in ogni caso da condannare, dalla salutare “discordia” fra gli umori dei più e il desiderio di potere e prestigio dei pochi.[12]
L’accumulo di ricchezze e di poteri è per Machiavelli una conseguenza inevitabile della libertà economica e personale concessa dalla costituzione repubblicana. Con altrettanta necessità, le due classi sociali che vengono così a costituirsi – le oligarchie da una parte e il resto dei cittadini dall’altra – sono caratterizzati da interessi e attitudini divergenti, che Machiavelli descrive con dovizia di particolari e con chiara simpatia per il popolo. I ricchi tendono immancabilmente ad aumentare il loro potere oppressivo, onde accrescere la propria fama e ricchezza, mentre le persone comuni sono piuttosto interessate a difendere quella libertà e quei pochi averi, sempre minacciati dai potenti, che il loro umile stato sociale può garantirgli (Discorsi I.7).[13] A sostegno di questa tesi Machiavelli cita la violenta e omicida reazione dell’aristocrazia romana a fronte del tentativo di riforme e di redistribuzione delle terre agricole portato avanti dai Gracchi (Discorsi I.5 e Discorsi I.37), a cui contrappone la pacifica secessione della plebe come reazione alle angherie dei patrizi e all’esclusione dalla vita politica nei primi anni della repubblica (Discorsi I.4 eDiscorsi I.40). È da questa contrapposizione tra i diversi desideri delle moltitudini e delle oligarchie che Machiavelli conclude che “i desideri de’ popoli liberi, rade volte sono perniciosi alla libertà perché e’ nascono, o da essere oppressi, o da suspizione d’avere a essere oppressi”(Discorsi I.4).
Machiavelli insiste in modo particolare sulla bontà del giudizio politico del popolo, per difenderne le prerogative dalle critiche che poi si ritrovano nella tradizione guicciardiniana e nel timore anche neo-repubblicano delle maggioranze ignoranti, pigre, oppressive e talvolta violente. Alcune delle idee che Machiavelli usa traggono ispirazione dal pensiero antico e vanno nella direzione di istituzioni in cui il potere decisionale è affidato largamente al popolo sulla base della varietà di prospettive e di approcci che l’inclusione delle classi popolari garantisce al governo pubblico. L’argomento più originale si basa però sulla migliore conoscenza da parte popolare dei pericoli generati dagli appetiti dei potenti e sull’interesse prioritario che i cittadini comuni hanno per la libertà personale (Discorsi I.58). Machiavelli riconosce i limiti di virtù e competenze delle persone comuni ma, in modo del tutto moderno, suggerisce che i problemi dovuti a tali limiti si possono attutire all’interno di istituzioni deliberative pienamente e genuinamente partecipative, portando ad esempio il caso in cui la plebe romana aveva combattuto duramente per ottenere il diritto all’elezione ad una certa magistratura per poi scegliere per quella posizione un membro dell’aristocrazia, dando dimostrazione di ragionevole imparzialità. La lezione metodologica di Machiavelli è qui importantissima: quando anche si riconoscessero i pericoli del populismo – i quali sono generalmente esagerati dai teorici di parte oligarchica – essi dovrebbero sempre essere contrapposti non sì ad un sistema politico nel quale degli esperti illuminati gestiscono virtuosamente il potere, ma alle oligarchie come le conosciamo dalla storia, composte cioè da persone appartenenti ai potentati economici o da tecnici e tecnocrati organici a questi potentati. Per quanto questi esperti possano dire – e anche credere – di voler perseguire il bene comune, i loro tentativi di perseguire questo bene comune sono inevitabilmente e talvolta involontariamente ancorati ai loro interessi privati e al loro desiderio di prestigio e di riconoscimento politico.
Su queste basi va riconsiderata l’importanza e la possibile attualità delle istituzioni popolari che Machiavelli discute. Guicciardini aveva osservato che le elezioni erano uno strumento elitista quanto mai funzionale: garantivano la puntuale ratifica da parte popolare delle deliberazioni che i “migliori” (cioè le élite) prendevano autonomamente. McCormick ravvisa nell’interpretazione elettoralistica del controllo popolare tipica di Guicciardini quella che diventerà in seguito la teoria rappresentativa della democrazia nelle mani dei costituenti americani o, più radicalmente, la teoria della selezione delle élite in Schumpeter.[14] Le risorse richieste dalla competizione elettorale escludono di fatto la parte popolare dalla vita pubblica esecutiva, lasciando alle moltitudini un ruolo del tutto passivo e di mera “autorizzazione” delle decisioni politiche prese da altri. Non per nulla Machiavelli contrappone alle elezioni il sistema di selezione delle magistrature politiche per sorteggio, diffuso nell’Atene classica e in modo più limitato nella Repubblica fiorentina. La lottocrazia evita almeno alcuni dei meccanismi che consentono alle élite di avere mano libera nella vita politica, come in particolare la superiore capacità degli appartenenti alle élite di mobilitare risorse per ottenere il consenso pubblico. Il sorteggio di alcune cariche pubbliche rende concreta la possibilità che cittadini estranei alle oligarchie riescano a ricoprire tali cariche, un’eventualità in larga parte solo teorica anche nei sistemi nei quali le cariche sono formalmente contendibili da ciascuno. Nelle repubbliche antiche, tale sistema aveva l’ulteriore vantaggio di indurre una condotta cauta nei “potenti”, i quali potevano aspettarsi di trovarsi cittadini di parte popolare in posizioni preminenti.[15]
Un’altra istituzione della Repubblica romana che Machiavelli giudica positivamente è il tribunato: una carica politica riservata al popolo il cui scopo principale è la limitazione del potere delle magistrature esecutive. Il tribunato ha caratteristiche del tutto estranee alle cariche delle moderne repubbliche democratiche, in quanto è riservato al popolo ed è quindi una magistratura esplicitamente “classista”. Questa soluzione non cristallizza lo stato subordinato della parte popolare ma, riconoscendo l’inevitabilità del conflitto e del dominio delle élite, fornisce alla parte popolare un importante strumento di contestazione. Inoltre, i poteri tipici del tribunato non si limitavano al diritto di veto, soluzione che configurerebbe un sistema politico nel quale le élite governano e la maggioranza dei cittadini ha un ruolo meramente passivo e reattivo, ma includevano poteri propositivi. A Roma, il tribuno poteva convocare le assemblee popolari e imporre ordini del giorno popolari alla discussione al Senato.[16]
L’importanza contemporanea del Machiavelli democratico
La natura “classista” del tribunato incarna una descrizione della vita politica in termini di conflitto fra gruppi caratterizzati socio-economicamente che sembra adeguata alle circostanze attuali. Il popolo per Machiavelli include tutti coloro che non appartengono ai ranghi dei potenti e che non hanno quindi risorse sufficienti per perseguire i propri interessi dirottando le istituzioni repubblicane. Il popolo dunque, nelle repubbliche contemporanee come ai tempi di Machiavelli, include la stragrande maggioranza dei cittadini. Questo permette di continuare a utilizzare l’utile linguaggio del conflitto – utile perché identifica dei meccanismi di dominio che andrebbero eliminati o almeno controllati – in un contesto come quello attuale che è estremamente plurale dal punto di vista dei processi produttivi. Si tratta infatti di un contesto in cui molti dei meccanismi di sopraffazione colpiscono anche lavoratori autonomi, piccoli e medi imprenditori, coloro che fanno parte della cosiddetta knowledge economy, ecc. Ossia, per dirla più semplicemente, in questa concezione, significativamente diversa da quella della vulgata marxista che a molti viene in mente non appena si parli di classi, vi sono solo due classi: quel 99% a cui si riferiscono quelli di Occupy Wall Street quando dicono “we are the 99%” e quel rimanente 1% costituito dalle oligarchie che controllano in maniera diretta il potere economico, finanziario e politico. Che poi i numeri siano effettivamente 99 contro 1 non ha particolare importanza. La valenza simbolica rimane.
Le soluzioni istituzionali che danno potere diretto alle moltitudini possono arginare, secondo Machiavelli, lo strapotere delle oligarchie, e il fiorentino ne propone surrettiziamente l’istituzione ai suoi amici aristocratici, a cui i Discorsi sono dedicati, insistendo pretestuosamente su presunti vantaggi che le élite ne deriverebbero in termini di gloria anche militare. Ma lasciando da parte i pretesti ed espungendo ovviamente qualsiasi motivazione militarista, auspichiamo che soluzioni analoghe possano essere escogitate anche per le costituzioni contemporanee, che devono affrontare, oggi come ai tempi di Machiavelli e della Repubblica romana, i problemi legati alla concentrazione del potere. Anche in Italia, per quanto con caratteristiche proprie, il problema è grave. Basta prestare attenzione alle revolving doors tra finanza, industria e politica, per cui alcuni dei Presidenti del Consiglio dei Ministri più recenti hanno occupato importanti posizioni in agenzie di consulenza finanziaria e banche d’investimento. Tale fenomeno è solo il caso più apparente dei molteplici meccanismi che saldano il potere economico e finanziario alle leve delle decisioni politiche. La sistematica devoluzione dei poteri degli stati a strutture sovranazionali e a banche centrali del tutto slegate dal controllo democratico è forse l’aspetto più preoccupante di tale sistema d’influenze, almeno se consideriamo l’impatto delle politiche monetarie, economiche e commerciali sulla condizione e le prospettive della maggioranza delle persone.
L’ampio potere di lobbying degli interessi industriali e finanziari, soprattutto a livello comunitario, dove il controllo democratico è più indiretto e quindi meno trasparente e meno limitabile, e più in generale l’influenza dei poteri economici sulla vita politica, anche quando ritenuti inevitabili e – in alcuni limitati contesti – persino positivi, andrebbero a nostro avviso affiancati a istituzioni populistiche che possano intralciare e infine bloccare il perseguimento di politiche che minacciano la libertà e il benessere dei più. Alcune decisioni cruciali sono ormai del tutto impermeabili alla contestazione e filtrano appena nel dibattito pubblico.[17] Se si vuole rimediare alla disaffezione verso la politica tradizionale, misurata da decrescenti affluenze elettorali nella maggior parte dei paesi più ricchi, occorre porre rimedio alla subordinazione della politica agli interessi pochi: la disaffezione non è necessariamente dovuta a pigrizia e può invece essere ben spiegata dalla commistione preoccupante tra forze politiche e interessi economici. L’efficace istituzionalizzazione del populismo, della contestazione e del conflitto, auspicata da Machiavelli per Firenze, è auspicabile anche nel contesto attuale.
Questo è importante anche per una valutazione del neo-repubblicanesimo non solo dal punto di vista storico ma anche dal punto di vista teorico e politico. Le tesi storiche di Skinner che abbiamo riportato sopra hanno infatti trovato un’elaborazione molto influente nel lavoro del filosofo Philip Pettit, che in varie pubblicazioni ha proposto di sostituire l’ideale liberale di libertà come non-interferenza con l’idea repubblicana di non-dominazione quale valore cardine delle società libere.[18] Pettit deriva la sua teoria istituzionale dalla lezione repubblicana classica, e quindi gli strumenti che dovrebbero garantire la non-dominazione all’interno della sua proposta sono la certezza del diritto e i meccanismi elettorali. È indubbio che tali dispositivi siano importanti per garantire le libertà civili, incluse quelle di minoranze potenzialmente oppresse dagli umori della moltitudine. Pettit per esempio ha giustamente difeso esperienze di governo particolarmente attente ai diritti delle minoranze, come quella spagnola di Zapatero.[19]Questi strumenti sono però inefficaci rispetto alla fonte di dominazione che deriva dal potere economico di una minoranza, quell’1%, che domina sempre più il funzionamento delle istituzioni. Non a caso, la contestazione dei meccanismi delle attuali democrazie elettorali-rappresentative è un tema caro ai movimenti “populisti” contemporanei, ed è un tema che andrebbe piuttosto affrontato con serietà che tacciato con le motivazioni tipiche dei pensatori di parte oligarchica.
Inoltre Pettit auspica che, nelle democrazie contemporanee, molte decisioni importanti vengano delegate a comitati di esperti, in modo che gli interessi di parte non prevalgano e che la discussione del bene comune non diventi ostaggio di agguerrite fazioni.[20] Ma anche se è certamente importante provare a superare i meccanismi perversi della lotta politica che paralizzano sistemi politici attuali, Pettit non considera che gli esperti, soprattutto in alcuni campi del sapere, sono spesso contigui per interessi e ideologia ai ranghi dei potenti, e che anche quando tentino onestamente di perseguire il bene comune, la mancanza di un forte e diretto input popolare pone a rischio gli interessi dei cittadini comuni. È il caso ad esempio della politica economica, dove molto spesso gli interessi dei potenti possono influenzare la scelta degli esperti e delle teorie economiche di riferimento a scapito dell’interesse generale.[21]
L’anti-populismo come strumento delle oligarchie
Parlando di un Machiavelli “populista” non intendiamo assimilare le teorie di Machiavelli ai movimenti populisti contemporanei. La provocazione ha piuttosto l’intento di indicare il valore teorico e politico delle idee anti-elitarie e anti-oligarchiche di Machiavelli, soprattutto rispetto agli argomenti dei vari osservatori critici dei populismi contemporanei, i quali sembrano mostrare eccessivo ottimismo per quanto riguarda la dedizione al bene comune delle élite politiche ed economiche.[22] Le idee di Machiavelli possono servire a formulare o a riformulare in maniera più precisa alcune delle preoccupazioni di quelli che vengono accusati di populismo.
L’accusa di populismo corre il rischio di distogliere l’attenzione dai problemi reali che affliggono le democrazie contemporanee. Per Machiavelli il pericolo vero non sta tanto in un duro conflitto tra popolo ed élite socio-economiche, quando il conflitto avvenga nell’ambito delle istituzioni repubblicane, ma piuttosto il pericolo sta in istituzioni repubblicane elitiste, che non permettono la contestazione e la partecipazione effettiva, e quindi inducono il popolo esasperato a reazioni violente.[23]
È interessante che in Italia l’accusa di populismo sia spesso affiancata a una denuncia della cosiddetta antipolitica.[24] Anche questo termine è normalmente utilizzato in senso negativo, per criticare coloro che si lamentano dell’attuale funzionamento del sistema politico ed economico senza usare i canali istituzionali ortodossi previsti dal sistema stesso. A noi sembra che l’antipolitica, che ormai sempre più spesso si associa a ciò che potremmo battezzare l’antifinanza, sia almeno in parte il sintomo di un crescente rifiuto da parte del popolo della pretesa delle attuali élite economiche e politiche di avere un controllo sempre più esteso delle istituzioni e delle decisioni pubbliche. Tale rifiuto spesso non trova la possibilità di esprimersi tramite mezzi istituzionali, visto che questi mezzi vengono percepiti, a torto o a ragione, come controllati dalle élite stesse che l’antipolitica e l’antifinanza vogliono contestare. Questo rifiuto perciò cerca espressione al di fuori delle istituzioni. La ricerca di canali extra-istituzionali e anti-istituzionali, per quanto forse non sempre e non del tutto negativo, può portare sicuramente a delle distorsioni pericolose che vanno evitate. Per questo bisogna istituzionalizzare il conflitto. Ma il conflitto può essere propriamente istituzionalizzato solo se le istituzioni stesse diventano più populiste, cioè più capaci di dare a quelli che non appartengono alle élite un potere contestatorio che sia efficace e che sia percepito come tale da quelli che ne possono fare uso. In mancanza di cambiamenti in questa direzione, la disaffezione nei confronti dei canali istituzionali è destinata a crescere e a raggiungere forse livelli pericolosi per l’intero sistema di convivenza civile.
Ovviamente, l’elaborazione di strumenti istituzionali populistico-democratici deve tenere conto delle differenze che esistono tra, da una parte, il contesto romano classico e il contesto fiorentino rinascimentale e, dall’altra, il contesto attuale. Gli schemi cooperativi della contemporaneità sono per certi versi molto più complessi e articolati di quello romano e fiorentino, in parte semplicemente perché coinvolgono interazioni tra un numero maggiore d’individui, interazioni mediate da complesse tecnologie e strutture che non erano presenti nella Roma antica o nella Firenze rinascimentale. È ovvio quindi che non si possono prendere le istituzioni della Repubblica romana, o quelle che Machiavelli avrebbe voluto implementare a Firenze, e semplicemente innestarle nel presente, in Italia o altrove, senza cambiamenti. Nonostante ciò, ci preme sottolineare che, per quanto riguarda l’asimmetria di potere tra le oligarchie e il resto della popolazione, le somiglianze tra il contesto attuale e quelli discussi da Machiavelli sono per certi versi molto più significative di quanto potrebbe sembrare ad un’analisi superficiale. Per questo motivo potrebbe forse avere senso pensare alla possibilità di sperimentare con adattamenti ed elaborazioni delle soluzioni che Machiavelli propone. Al di là di questo però è importante insistere sul fatto che qualsiasi proposta di revisione e riforma delle attuali istituzioni politiche deve focalizzarsi su questa asimmetria di potere, asimmetria che invece, sciaguratamente, è solo raramente menzionata e presa in considerazione nei dibattiti sulle varie possibilità di riforme istituzionali e costituzionali o nei dibattiti su come “curare” l’elettorato da tendenze populiste o antipolitiche, soprattutto in Italia.
Questo errore ci sembra, almeno in parte, motivato dagli stessi errori che affliggono il neo-repubblicanesimo laddove esso si concentra in maniera esclusiva sui pericoli che derivano dalle folle e dalla loro tirannia. L’uso dispregiativo del termine populistaappartiene a una tradizione teorico-politica caratterizzata dal timore tocquevilliano della “tirannia della maggioranza”, tradizione recentemente rivalutata dai neo-repubblicani. Nonostante i meriti di questo influente e importante filone di riflessione politica, le tesi di Machiavelli possono essere utilizzate per denunciare il potenziale elitista e antidemocratico del neo-repubblicanesimo e la sua incapacità di affrontare non solo i problemi di perdita di legittimità delle istituzioni democratiche ma anche i pericoli per i più che derivano dell’élite socio-economica che domina la vita e le decisioni pubbliche a livello globale. L’eccessiva influenza nelle decisioni pubbliche di tale gruppo ristretto di persone è peraltro denunziata da alcuni economisti, come Joseph Stiglitz, il quale attribuisce al potere dei super-ricchi alcune scelte di politica economico-finanziaria che si sono rivelate disastrose per le persone comuni e che hanno invece amplificato il potere delle oligarchie stesse a causa della recrudescenza delle diseguaglianze socioeconomiche che hanno generato.[25] La critica al neo-repubblicanesimo è importante perché questo filone teorico è senza alcun dubbio tra i più attenti ai meccanismi con cui il potere politico può degenerare, facilmente e talvolta subdolamente, in un dominio moralmente illegittimo sulla vita delle persone. La critica quindi si applica, a maggior ragione e con maggior forza, a tutte quelle teorie e proposte istituzionali meno attente a queste degenerazioni, come le varie versioni del liberalismo più o meno ortodosso.
Tutti coloro che vogliono appellarsi a valori democratici dovrebbero tener presente che la contrapposizione su cui bisogna concentrarsi non è quella tra giudizio popolare, con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni, ed élite illuminate, ma piuttosto quella tra giudizio popolare ed élite che fanno parte di oligarchie i cui interessi sono molto spesso lontani da quelli della stragrande maggioranza della popolazione. È per questo motivo che una rivalutazione del populismo è importante per la soluzione dei problemi che le democrazie contemporanee si trovano ad affrontare. Le fonti di tirannia non si limitano a quelle segnalate da Guicciardini e Madison – ossia le folle incostanti, ignoranti e malevole – ma includono l’enorme potere politico che la ricchezza garantisce a una piccola minoranza di individui. È per questo che la teoria di Pettit è per lo meno incompleta. Un pericolo importante per il cittadino è certamente il rischio che una maggioranza scelga di utilizzare i poteri pubblici per interferire con le sue scelte di vita, ma le interferenze dovute a quelle minoranze costituite dalle élite socio-economiche sono talvolta molto più pericolose, oltre che molto più subdole e quindi più difficili da identificare. Da una presa d’atto di questo fatto si avvantaggerebbe un discorso pubblico che deve certamente essere attento ai pericoli che possono correre le minoranze più deboli, ma deve anche affrontare in maniera schietta le asimmetrie di potere politico causato dalla concentrazione di risorse economiche e finanziare nelle mani di pochi.
La direzione del dibattito attuale è purtroppo condizionata da pregiudizi anti-populistici e tecnocratici e suggerisce soluzioni istituzionali del tutto opposte a quelle che Machiavelli preferirebbe. Ciò non è sorprendente se si presta attenzione al fatto che anche il dibattito culturale – soprattutto condotto attraverso i mezzi di comunicazione – è fortemente influenzato dalle oligarchie stesse, le quali ovviamente traggono vantaggio da un’impostazione teorica che ne oscura la loro natura potenzialmente pericolosa. Non è sorprendente se, in tali circostanze profondamente asimmetriche anche quanto all’impatto sui media, l’unico difetto delle istituzioni democratiche di cui si parla sembra essere l’inefficienza esecutiva. È per questo che, rinnovando la lunga tradizione di discussione politica condotta tramite Machiavelli, è importante controbilanciare un approccio che per ormai troppi anni ha ignorato i conflitti fra le oligarchie economiche e i cittadini e che sembra ormai insostenibile alla luce delle crescenti diseguaglianze socio-economiche e della palese inadeguatezza democratica di alcune delle istituzioni che decidono della nostra vita.
In Italia, dove l’odioso snobismo elitista e antipopolare che caratterizza troppo spesso l’analisi della vita politica è scambiato per progressismo e dove bollare come eversivi i movimenti contestatori è considerato un segno di serietà democratica, tale discussione è ancora più raccomandabile.
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