La (finta) indipendenza tra Banche centrali e governi. A parte una
di Vito Lops - 05/11/2014Fonte: Il Sole24ore
Come
è stato raggiunto questo obiettivo? Spingendo i governi a staccarsi
dalla rispettiva banca centrale. In Francia il divorzio tra la il
ministero del Tesoro e la banca centrale risale al 1979, in Italia al
1981, e così via
A
fine anni ’70 il movimento iper-liberista ha ottenuto uno degli
obiettivi del suo “programma”: porre gli Stati nelle stesse condizioni
di una famiglia o un’impresa. Così come una famiglia e un’azienda devono
fare molta attenzione alle entrate e alle uscite (cercando di
bilanciarle) anche lo Stato non può eccedere nelle spese e deve far
quadrare i conti. Perché se non lo fa rischia di creare un’elevata
inflazione. Come è stato raggiunto questo obiettivo? Spingendo i governi
a staccarsi dalla rispettiva banca centrale. In Francia il divorzio tra
la il ministero del Tesoro e la banca centrale risale al 1979, in
Italia al 1981, e così via.
Prima
di allora i Paesi potevano tecnicamente fabbricare denaro a costo zero
(perché dopo lo sganciamento della convertibilità oro-dollaro decisa dal
presidente Richiard Nixon nel 1971 la moneta è diventata puramente
fiduciaria, cioè basata sulla fiducia dei cittadini nei confronti del
governo che la emette) o comunque al tasso di interesse stabilito a
priori dallo stesso governo (si offriva un tasso nelle aste di titoli di
Stato e in caso di invenduto per mancanza di offerta interveniva la
Banca centrale bloccando così la risalita dei tassi). La Banca d’Italia
lo ha fatto per anni innescando una repressione finanziaria (il tasso
pagato sui titoli di Stato era inferiore all’andamento dell’inflazione).
E’ questo il vero motivo per cui fino ad allora il debito pubblico in
rapporto al Pil era sotto controllo ed è invece raddoppiato negli anni
’80 dopo il divorzio che ha posto il debito italiano totalmente al
giudizio dei mercati. A quel punto è cambiato il paradigma: da allora
sono stati gli investitori e non più il governo a scegliere il tasso di
interesse che lo Stato doveva pagare sul debito pubblico. Agli
investitori, si sa, la repressione finanziaria non piace e quindi hanno
chiesto un tasso di interesse nominale più alto dell’inflazione per
riportare il tasso reale in territorio positivo.
Questa
è storia. Ma a questo punto le posizioni ideologiche si distanziano. Il
movimento iper-liberista sostiene che il divorzio è sacrosanto perché è
giusto mettere gli Stati sotto la disciplina del mercato. Se uno Stato
non è soggetto a tale disciplina non sarà mai virtuoso e tenderà a
generare “spese allegre” facendo lievitare la “tassa occulta”
dell’inflazione. Se uno Stato non è virtuoso pagherà in ogni caso: con
l’inflazione alta (in caso di tassi sul debito controllati dalle banche
centrali) oppure con uno spread alto rispetto ai Paesi più virtuosi (in
caso di divorzio)
La visione keynesiana, invece, si discosta profondamente, per almeno quattro motivi:
1)
i mercati, lasciati allo sbando e con poche regole e molto non-regole –
come quella che consente alle banche di svolgere contemporaneamente la
funzione di banca tradizionale (prestare soldi alle imprese sulla base
dei depositi, il che in realtà non è proprio così come spiega la Banca
di Inghilterra) e di banca di investimento (destinare gli impieghi ad
attività finanziarie, come l’acquisto di titoli derivati, anziché
all’economia reale) – non sono efficienti. Tendono a creare bolle, a
spingere i manager delle aziende, remunerati in stock option, a pensare
ai profitti a breve termine piuttosto che a quelli a lungo dettati da
logiche di investimenti pluriennali. Il tutto alimentando una
distribuzione del reddito sbilanciata tra chi opera nel campo
dell’economia reale e chi invece con la finanza. Gli stessi mercati poco
regolamentanti che hanno spinto le attività finanziarie bancarie oggi a
valere il 500% del Pil globale (a cui si aggiunge un 120% dal sistema
bancario ombra).
2)
per uno Stato che parte in svantaggio (quindi con tassi alti) diventa
complesso tornare virtuoso nei conti (posto che per i keynesiani non è
questo l’obiettivo di uno Stato) a fronte del pagamento di tassi reali
positivi sul debito. Alti tassi sottraggono risorse da iniettare nella
crescita. E quando il tasso reale è superiore alla crescita del Pil quel
Paese finisce lentamente per deindustrializzarsi. E’ quello che sta
accadendo in modo smaccato in Grecia da anni, che paga tassi reali sul
debito superiore al 6% e anziché crescere, decresce.
3)
una logica di repressione finanziaria favorisce l’industrializzazione
di un Paese, una logica di tassi reali dei mercati positivi invece
spingerebbe invece nella direzione opposta
4)
considerare lo Stato alla stregua di un normale operatore privato non
ha – a detta dei keynesiani – logica dato che lo Stato è l’unico
operatore che può essere spinto a compiere degli investimenti sociali,
che si incanalano nel concetto di vita buona e pensati per il benessere
della collettività anche se talvolta poco efficienti dal lato del
profitto, unico punto di vista invece di un attore privato.
Questi
i termini dello scontro ideologico, da almeno 30 anni, vinto dal
movimento iper-liberista. L’ultima crisi, però, ha evidenziato un
paradosso. I mercati si sono rivelati più “keynesiani” di quanto si
possa immaginare. Gli ultimi record di Borsa sono stati registrati
proprio grazie alle politiche ultra-espansive delle banche centrali (in
particolare Federal Reserve, Banca del Giappone e Banca di Inghilterra).
Politiche che tecnicamente, nella teoria economica, si configurerebbero
come inflazionistiche perché orientate sull’aumento del deficit e
quindi non certo orientate al controllo della spesa.
Politiche
in ogni caso che hanno messo in dubbio il concetto di indipendenza tra
governi e banca centrale. La scorsa settimana, quando la BoJ ha
annunciato un nuovo pacchetto di iniezioni monetarie per quasi 1.000
miliardi di dollari, lo ha fatto di concerto con il governo e con
l’intento dello stesso di innalzare l’inflazione oltre il 2%. Il
Giappone, quindi, tramite la Banca centrale, sta praticando la stessa
repressione finanziaria che applicava l’Italia prima del divorzio del
1981. Perché l’inflazione è più alta del rendimento (+0,5% a 10 anni)
pagato sull’enorme debito pubblico (220% del Pil). Difficile sostenere
il contrario per quanto successo negli ultimi cinque anni negli Stati
Uniti: con tre manovre di quantitative easing la Fed ha agito a
braccetto con le esigenze del Tesoro e lo stesso dicasi per la Banca di
Inghilterra.
Queste
tre economie hanno reagito alla crisi praticando politiche espansive
orchestrate dall’asse banche centrali-governi, formalmente indipendenti
ma nella sostanza tutt’altro quando si è trattato di reagire a una
crisi. Ed è lo stesso che fanno le banche centrali degli altri Paesi
asiatici. Nel frattempo al momento non si sono visti i temuti effetti
inflattivi di tali manovre.
L’unico
istituto a ostentare con orgoglio lo scettro dell’indipendenza (anche
se la sudditanza psicologica nei confronti della Bundesbank pare
evidente) è la Banca centrale europea. Anche perché gli Stati
rappresentati sono 18 e ognuno ha esigenze differenti (il Sud avrebbe
bisogno di manovre espansionistiche, al Nord non dispiacerebbe una
piccola stretta sui tassi). Un punto sul quale, al di là della posizione
ideologica di partenza, è doveroso compiere una riflessione comune per
provare a uscire dal guado.
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