10 anni di euro ma il dollaro resta leader, ecco perché
C’era la promessa di un mondo bipolare, alla nascita dell’euro dieci anni fa. Un equilibrio monetario, un sistema più equo e pluri-centrico, meno vulnerabile agli shock unilaterali venuti dall’America: a questo doveva assomigliare il futuro con l’euro. Dieci anni sono pochi nella storia di una moneta, eppure non si sfugge ai bilanci: e fin qui la promessa è stata delusa. L’euro non ha protetto il Vecchio continente dalla crisi finanziaria partita dagli Usa, anzi lo shock sistemico del 2008 è l’origine di una serie di convulsioni che pur avendo il loro inizio a Wall Street hanno finito per mettere in questione la stessa tenuta dell’unione monetaria europea. E il mondo di oggi non ci appare più stabile, almeno per l’assetto dei mercati finanziari, di quanto fosse dieci anni fa.
La visione globale è importante nella genesi dell’euro. Dentro il patto franco-tedesco che risale al binomio François Mitterrand-Helmut Kohl, e che spianò la strada alla riunificazione delle due Germanie, la moneta unica aveva molteplici funzioni. Era certo un prezzo pagato dai tedeschi – la rinuncia al solido e amato marco – per il ricongiungimento con la Germania Est che alterava gli equilibri geostrategici e i rapporti di forze in Europa. Ma l’euro voleva essere anche il pilastro di un nuovo ordine monetario internazionale. I francesi vi portavano in eredità la loro antica avversione al predominio del dollaro: dai tempi del generale Charles de Gaulle e del suo consigliere economico Jacques Rueff, la Francia aveva instancabilmente denunciato i pericoli del “privilegio di signoraggio” detenuto dalla valuta americana. La Francia era stata la prima a vedere il “bluff” della parità dollaro-oro minacciando di convertire tutte le proprie riserve valutarie nel metallo giallo. I fatti avevano dato ragione ai moniti francesi: dal 1971 Richard Nixon aveva esplicitamente abbandonato ogni finzione sulla garanzia aurifera del valore del dollaro; con la guerra del Vietnam gli Stati Uniti avevano iniziato a praticare in modo spregiudicato un gioco che in seguito è diventato familiare, lo stampare dollari per finanziare le proprie avventure imperiali. Inflazione, instabilità e disordine, crisi finanziarie, erano una conseguenza della capacità americana di “spalmare” i costi dei propri problemi sul resto del mondo, costretto ad accettare i dollari Usa per mancanza di alternative. La polemica lanciata da de Gaulle-Rueff aveva finito per convincere anche i tedeschi. Pur meno antiamericani dei francesi, i governanti della Repubblica federale si rendevano conto che ogni accesso di febbre del dollaro (memorabili le crisi del 1974, 1983, 1992 e 1995) generava caos anche all’interno dell’Europa. Più volte il Sistema monetario europeo fu sul punto di soccombere per le tempeste venute dagli Stati Uniti. Ad ogni tracollo del dollaro, il marco tedesco si rivalutava consolidando il proprio ruolo di bene-rifugio; e tuttavia le svalutazioni di altre monete come il franco e la lira mettevano a repentaglio la sopravvivenza del mercato unico e quindi gli interessi strategici dell’industria tedesca. La nascita dell’euro, moneta condivisa da un aggregato economico equivalente agli Stati Uniti, sulla carta doveva esercitare una funzione di stabilizzazione all’interno del Vecchio continente, e di bilanciamento nei rapporti di forze globali tra le valute. In una geografia ideale, gli equilibri mondiali dovevano fondare su un treppiedi: con una moneta asiatica come terzo punto di appoggio (all’inizio si pensò allo yen giapponese, più di recente al renminbi cinese).
A dieci anni dalla circolazione del primo euro, quel progetto appare sempre distante. Se c’è stato qualche progresso verso un ordine multipolare delle monete, è stato lento e parziale. L’euro si è fatto strada, è vero, come seconda moneta detenuta dalle banche centrali di tutto il mondo nelle rispettive riserve ufficiali. Ma è un secondo posto ancora troppo distante dal primo; la superiorità del dollaro resta schiacciante se misurata in percentuale delle riserve valutarie. Ancora più incrollabile appare il dominio del dollaro in alcuni mercati chiave come quello delle materie prime. La più importante di tutte le materie prime, il petrolio, continua ad avere un prezzo misurato in dollari; e in dollari vengono regolate le transazioni, nonostante le ripetute minacce di questo o quel petro-leader (dal fu Gheddafi a Chavez) di abbandonare la moneta americana in favore dell’euro. Qui la spiegazione è fin troppo chiara: dietro il dollaro c’è la forza militare degli Stati Uniti espressa dalle basi che costellano il pianeta dal Pacifico al Golfo Persico; dietro il dollaro c’è una politica estera unica, per quanto controversa, che viene espressa dalla Casa Bianca. Dietro l’euro non c’è un esercito, non c’è una Sesta Flotta a guardia delle rotte petrolifere; non c’è una politica estera unica; non c’è neppure un governo.
L’altra delusione riguarda lo status dell’euro come moneta-rifugio per i risparmi. Su questo fronte il tradimento delle promesse è recente. Quando esplose la crisi del 2008, con epicentro a Wall Street, si poteva sperare che l’euro ne avrebbe beneficiato. Al contrario, ad ogni accesso di panico, è verso il dollaro che sono fuggiti i capitali del mondo intero. Perfino sulla questione dei debiti sovrani la reazione è stata fortemente asimmetrica. Dopotutto gli Stati Uniti hanno un rapporto debito-Pil molto superiore alla Francia, e non troppo distante dall’Italia. Hanno subito, non a caso, un downgrading del loro rating sovrano. Eppure i mercati si comportano come se la solvibilità di Washington fosse una certezza; e probabilmente hanno ragione. Ma è sensato dubitare della solvibilità italiana, belga, francese? Il problema vero sembra essere un altro: gli investitori non sembrano convinti che un “euro tedesco” sia veramente la stessa cosa di un “euro italiano”. O magari temono che questo sia vero oggi, non necessariamente domani. Pesa anche la mancata unificazione della finanza europea; l’assenza di una piazza globale che possa competere con New York (ci sarebbe, si chiama Londra, ma è rimasta fuori dall’euro). Né ci hanno aiutato gli asiatici. Il Giappone ha rifiutato un ruolo globale per lo yen; la Cina non accetta ancora la piena convertibilità del renminbi. Alla fine le differenze si misurano anche in termini di autostima. Quando la moneta unica ha avuto dei cedimenti improvvisi nella sua parità col dollaro, gli europei si sono allarmati per “l’euro debole”. Ma per la maggior parte del decennio è il dollaro ad aver perso quota, restando ben al di sotto della parità; per gli americani “il dollaro debole” non fa neppure notizia. Lo considerano, non a torto, un problema nostro.
La visione globale è importante nella genesi dell’euro. Dentro il patto franco-tedesco che risale al binomio François Mitterrand-Helmut Kohl, e che spianò la strada alla riunificazione delle due Germanie, la moneta unica aveva molteplici funzioni. Era certo un prezzo pagato dai tedeschi – la rinuncia al solido e amato marco – per il ricongiungimento con la Germania Est che alterava gli equilibri geostrategici e i rapporti di forze in Europa. Ma l’euro voleva essere anche il pilastro di un nuovo ordine monetario internazionale. I francesi vi portavano in eredità la loro antica avversione al predominio del dollaro: dai tempi del generale Charles de Gaulle e del suo consigliere economico Jacques Rueff, la Francia aveva instancabilmente denunciato i pericoli del “privilegio di signoraggio” detenuto dalla valuta americana. La Francia era stata la prima a vedere il “bluff” della parità dollaro-oro minacciando di convertire tutte le proprie riserve valutarie nel metallo giallo. I fatti avevano dato ragione ai moniti francesi: dal 1971 Richard Nixon aveva esplicitamente abbandonato ogni finzione sulla garanzia aurifera del valore del dollaro; con la guerra del Vietnam gli Stati Uniti avevano iniziato a praticare in modo spregiudicato un gioco che in seguito è diventato familiare, lo stampare dollari per finanziare le proprie avventure imperiali. Inflazione, instabilità e disordine, crisi finanziarie, erano una conseguenza della capacità americana di “spalmare” i costi dei propri problemi sul resto del mondo, costretto ad accettare i dollari Usa per mancanza di alternative. La polemica lanciata da de Gaulle-Rueff aveva finito per convincere anche i tedeschi. Pur meno antiamericani dei francesi, i governanti della Repubblica federale si rendevano conto che ogni accesso di febbre del dollaro (memorabili le crisi del 1974, 1983, 1992 e 1995) generava caos anche all’interno dell’Europa. Più volte il Sistema monetario europeo fu sul punto di soccombere per le tempeste venute dagli Stati Uniti. Ad ogni tracollo del dollaro, il marco tedesco si rivalutava consolidando il proprio ruolo di bene-rifugio; e tuttavia le svalutazioni di altre monete come il franco e la lira mettevano a repentaglio la sopravvivenza del mercato unico e quindi gli interessi strategici dell’industria tedesca. La nascita dell’euro, moneta condivisa da un aggregato economico equivalente agli Stati Uniti, sulla carta doveva esercitare una funzione di stabilizzazione all’interno del Vecchio continente, e di bilanciamento nei rapporti di forze globali tra le valute. In una geografia ideale, gli equilibri mondiali dovevano fondare su un treppiedi: con una moneta asiatica come terzo punto di appoggio (all’inizio si pensò allo yen giapponese, più di recente al renminbi cinese).
A dieci anni dalla circolazione del primo euro, quel progetto appare sempre distante. Se c’è stato qualche progresso verso un ordine multipolare delle monete, è stato lento e parziale. L’euro si è fatto strada, è vero, come seconda moneta detenuta dalle banche centrali di tutto il mondo nelle rispettive riserve ufficiali. Ma è un secondo posto ancora troppo distante dal primo; la superiorità del dollaro resta schiacciante se misurata in percentuale delle riserve valutarie. Ancora più incrollabile appare il dominio del dollaro in alcuni mercati chiave come quello delle materie prime. La più importante di tutte le materie prime, il petrolio, continua ad avere un prezzo misurato in dollari; e in dollari vengono regolate le transazioni, nonostante le ripetute minacce di questo o quel petro-leader (dal fu Gheddafi a Chavez) di abbandonare la moneta americana in favore dell’euro. Qui la spiegazione è fin troppo chiara: dietro il dollaro c’è la forza militare degli Stati Uniti espressa dalle basi che costellano il pianeta dal Pacifico al Golfo Persico; dietro il dollaro c’è una politica estera unica, per quanto controversa, che viene espressa dalla Casa Bianca. Dietro l’euro non c’è un esercito, non c’è una Sesta Flotta a guardia delle rotte petrolifere; non c’è una politica estera unica; non c’è neppure un governo.
L’altra delusione riguarda lo status dell’euro come moneta-rifugio per i risparmi. Su questo fronte il tradimento delle promesse è recente. Quando esplose la crisi del 2008, con epicentro a Wall Street, si poteva sperare che l’euro ne avrebbe beneficiato. Al contrario, ad ogni accesso di panico, è verso il dollaro che sono fuggiti i capitali del mondo intero. Perfino sulla questione dei debiti sovrani la reazione è stata fortemente asimmetrica. Dopotutto gli Stati Uniti hanno un rapporto debito-Pil molto superiore alla Francia, e non troppo distante dall’Italia. Hanno subito, non a caso, un downgrading del loro rating sovrano. Eppure i mercati si comportano come se la solvibilità di Washington fosse una certezza; e probabilmente hanno ragione. Ma è sensato dubitare della solvibilità italiana, belga, francese? Il problema vero sembra essere un altro: gli investitori non sembrano convinti che un “euro tedesco” sia veramente la stessa cosa di un “euro italiano”. O magari temono che questo sia vero oggi, non necessariamente domani. Pesa anche la mancata unificazione della finanza europea; l’assenza di una piazza globale che possa competere con New York (ci sarebbe, si chiama Londra, ma è rimasta fuori dall’euro). Né ci hanno aiutato gli asiatici. Il Giappone ha rifiutato un ruolo globale per lo yen; la Cina non accetta ancora la piena convertibilità del renminbi. Alla fine le differenze si misurano anche in termini di autostima. Quando la moneta unica ha avuto dei cedimenti improvvisi nella sua parità col dollaro, gli europei si sono allarmati per “l’euro debole”. Ma per la maggior parte del decennio è il dollaro ad aver perso quota, restando ben al di sotto della parità; per gli americani “il dollaro debole” non fa neppure notizia. Lo considerano, non a torto, un problema nostro.
Nessun commento:
Posta un commento