Un reddito per tutti i cittadini? |
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«Voi volete soccorrere i poveri, io, invece,
voglio sopprimere la miseria» (Victor Hugo, Novantatré) La società globale non è mai stata tanto ricca quanto oggi. Non sarebbe quindi ragionevole che le società ricche distribuissero una parte della loro ricchezza ai loro cittadini, anche solo in una prospettiva di «investimento sociale», per assicurare una coesione sociale più che mai minacciata? Dopo la creazione dello Smic (salario minimo garantito) nel 1950, quella del RMI (reddito minimo di inserimento) nel 1988, quella del RSA (reddito di solidarietà attiva) nel 2009, è forse tempo, in un momento in cui le disuguaglianze continuano a crescere, di passare dal semplice aiuto sociale a una concezione radicalmente nuova della solidarietà economica? A queste domande rispondono in senso affermativo i sostenitori di un reddito sociale garantito, cui si attribuiscono numerosi nomi: «reddito di cittadinanza», «reddito sociale», «reddito universale», «reddito di esistenza», «reddito garantito», «reddito d’autonomia», «sussidio universale», «credito sociale», «reddito di dignità», «dividendo universale», «dotazione incondizionata di autonomia», ecc. Il termine di «reddito di cittadinanza» ci sembra quello migliore, perché ha il merito di inscrivere il progetto nel quadro di una politia, cioè di una comunità politica data. Come il diritto di voto, il diritto al reddito di cittadinanza deriverebbe dal solo fatto di essere cittadino. Il principio è semplicissimo: si tratta di versare a ogni cittadino, dalla sua nascita alla sua morte, un reddito minimo che sia incondizionato, inalienabile, uguale per ciascuno, e cumulabile con qualunque altro reddito o attività senza altra degressività che quella del sistema fiscale in vigore. Contrariamente alle forme classiche del reddito minimo (come il RMI, poi il RSA), è un reddito versato a tutti, poveri e ricchi, su una base strettamente individuale e senza alcuna esigenza di contropartita (diversa dall’appartenenza alla comunità nazionale). Il reddito di cittadinanza manifesta così il riconoscimento politico di un diritto incondizionato alla sopravvivenza materiale di ogni cittadino. Rappresenta un atto di solidarietà che si esercita in permanenza, a priori, e non più su richiesta e a posteriori. «Questo reddito è accordato perché si esiste e non per esistere», dice Yoland Bresson; è «una sorta di “buono di partecipazione”, che ratifica un’appartenenza e impegna il cittadino nella comunità»[1]. Jean-Marc Ferry lo definisce anche come un «reddito sociale primario distribuito egualitariamente in modo incondizionato ai cittadini maggiorenni della comunità politica di riferimento». Non si tratta dunque affatto di «monetizzare» la cittadinanza – per definizione, la cittadinanza non ha prezzo – ma di aggiungere un attributo supplementare a quelli di cui i cittadini hanno già la prerogativa (alcuni di questi attributi avendo già un contenuto economico o finanziario). Non essendo soggetto ad alcuna condizione, il reddito di cittadinanza si distingue dai sussidi sociali che esigono come contropartita la ricerca di un’occupazione. Non può essere pignorato ai più poveri, ma rientra nel reddito imponibile dei più facoltosi. È un reddito di base che ciascuno integra o no in funzione dei suoi bisogni. L’idea non è nuova. Già Platone scriveva ne Le Leggi: «Se uno Stato vuole evitare […] la disintegrazione civile […], non bisogna permettere alla povertà e alla ricchezza estreme di svilupparsi in nessuna parte del corpo civile, perché ciò conduce al disastro. Perciò il legislatore deve stabilire ora quali sono i limiti accettabili della ricchezza e della povertà». Nell’antica Grecia, l’instaurazione da parte di Pericle della mistoforia, distribuita ai cittadini indipendentemente dal loro patrimonio affinché potessero soddisfare i loro obblighi civici, già testimonia d’altronde «l’esigenza di una solvibilità universale dei cittadini superiore a ogni altro criterio, come fattore di integrazione al gruppo sociale e di capacità di esercitare i diritti e gli obblighi loro incombenti» (Janpier Dutrieux). L’idea di un reddito incondizionato appare nel XVI secolo in Tommaso Moro (Utopia, 1516), ma sembra proprio che sia stato l’umanista spagnolo Joan Lluís Vives ad averne dato per la prima volta una definizione coerente nel suo De subventione pauperum (1526). Due secoli più tardi, l’esempio più frequentemente citato è quello di Thomas Paine che, in un manifesto sulla giustizia agraria (Agrarian Justice) indirizzato al Direttorio nel 1796 e pubblicato l’anno seguente, proponeva che una somma di 15 sterline – sufficiente per acquistare una mucca e un piccolo appezzamento di terra – fosse corrisposta a tutti i giovani pervenuti alla maggiore età e che a ogni ultracinquantenne si attribuisse una pensione annuale uniforme. Questa dotazione si basava sull’idea di una proprietà comune della terra e sulla mutualizzazione di una tassa sulla rendita fondiaria. «Il primo principio della civiltà», scrive Paine, «sarebbe dovuto e dovrebbe sempre essere che la situazione generale degli individui nati in uno stato civilizzato non debba essere peggiore di quanto lo sarebbe stato nello stato di natura»[2]. Questa dotazione incondizionata per ogni giovane che accede all’età adulta è l’antenata diretta del reddito di cittadinanza, che adatta alle economie moderne il progetto sostenuto da Thomas Paine per la società agricola del suo tempo. Nel XIX secolo, Charles Fourier (1772-1837) dichiara che «il primo segno di giustizia dovrebbe essere garantire al popolo un minimo crescente in ragione del progresso sociale». Questa idea di un reddito di base per tutti si ritrova nella Soluzione del problema sociale del fourierista di Bruxelles Joseph Charlier, pubblicata nel 1848. All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, Jacques Duboin (1878-1976), teorico dell’«abbondanzismo», definisce il «reddito sociale» (espressione che fu il primo a impiegare) come la materializzazione di una libertà nuova che dà accesso alla sfera dei valori non mercantili. Eletto deputato dell’Alta Savoia nel 1922, sottosegretario di Stato al Tesoro nel 1924, la sua teoria distributiva, esposta in numerose opere[3], prevede al contempo un reddito di esistenza garantito «dalla culla alla tomba» e l’introduzione di una moneta garantita dalla produzione. Tra i suoi discepoli, ci furono Jean Weiland e Jacques Sarrazin. In materia monetaria, Duboin sosteneva tesi abbastanza vicine alla teoria della «moneta deperibile» sviluppata sin dal 1916 dal tedesco Silvio Gesell (1862-1930), che voleva gravare la moneta di un tasso di svalutazione per attivarne la circolazione e impedirne la tesaurizzazione. Il punto di partenza del suo ragionamento è la constatazione che l’uso classico della moneta vieta di equilibrare i redditi distribuiti con le ricchezze messe in vendita, col risultato di installare la «miseria nell’abbondanza». «Occorre dunque sostituirla con una moneta creata a questo solo scopo. Ciò potrà essere fatto […] partendo dal principio che ogni cittadino ha il diritto di ricevere a vita dei redditi sufficienti purché adempia, per una parte del suo tempo, a un dovere di partecipazione, l’insieme essendo gestito attraverso l’intermediazione di una moneta di consumo, garantita dalle ricchezze offerte […] Alla moneta capitalista deve essere sostituita una moneta creata man mano che la ricchezza è prodotta, proporzionalmente a essa, per il tramite di prezzi politicamente definiti, e annullata man mano che è venduta per essere consumata. Questa moneta di consumo è un potere d’acquisto che serve una volta sola: non circola e non può produrre interessi. Ma resta la scheda elettorale del cliente sulla produzione da rinnovare, poiché egli conserva la sua piena libertà per scegliere i suoi acquisti»[4]. In questo sistema, l’ammontare della massa monetaria emessa durante un dato periodo è uguale al prezzo totale dei beni messi in vendita nello stesso lasso di tempo. A ogni nuova produzione corrisponde l’emissione di una nuova quantità di moneta. .Una parte di questa somma è destinata prioritariamente ai servizi pubblici, mentre il resto viene ripartito tra i cittadini. Si ritrovano idee abbastanza simili nello scozzese Clifford H. Douglas (1897-1952), fondatore della scuola del «credito sociale». Douglas si era convinto che la natura della produzione industriale, combinata al monopolio di creazione monetaria detenuto dal sistema bancario, ha l’effetto di creare situazioni di penuria artificiale per la maggioranza della popolazione. Il denaro, per lui, non doveva essere una misura del valore, ma un simbolo di valore, il cui valore di circolazione deve crescere e decrescere in stretta relazione con la crescita e la decrescita dei beni corrispondenti. La moneta doveva essere distribuita ai cittadini sotto forma di dividendo[5]. Teorie analoghe furono sostenute ancora durante il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale dai personalisti e federalisti della rivista L’Ordre nouveau (Alexandre Marc), i quali erano favorevoli a un «minimo sociale», e da Gustave Rodrigues, vicino a Georges Valois, che si sarebbe suicidato a Bordeaux nel 1940[6]. Lo stesso Valois vi si è ispirato per la messa a punto del suo «Progetto della Nuova Era» (17 febbraio 1936), di spirito comunalista e cooperativo. Alla fine degli anni Cinquanta, una proposta di riforma fiscale, presentata all’Assemblea nazionale da Jean-Pierre Parrot, deputato dell’Allier, aveva suggerito la creazione di un sussidio nazionale unico per tutti i francesi. Questa iniziativa non ebbe seguito. L’idea di un reddito di cittadinanza sembrava allora chiaramente utopistica, il che non le impedì, tuttavia, di essere sostenuta da personalità tanto diverse come Bertrand Russell, John K. Galbraith, Jan Tinbergen, James Tobin, Paul Samuelson, Sicco Mansholt, ecc. Ma è soprattutto a partire dall’inizio degli anni Ottanta che la si è vista risorgere con forza, e la cosa più straordinaria è che, a poco a poco, vi hanno aderito personalità provenienti dagli orizzonti più differenti. Il principio di un reddito sociale garantito è stato così successivamente sostenuto da Yann Moulier-Boutang, attuale direttore della rivista Multitudes[7], dalla rivista Cash, organo dell’Association des chômeurs et des précaires (ACP – Associazione dei disoccupati e dei precari), dal Comitato d’agitazione per un reddito garantito ottimale (Cargo) di Laurent Guilloteau, dalla rete No Pasarán, dal giornale libertario La Griffe, ms snche dal MAUSS di Alain Caillé, da Jacques Robin e Patrick Viveret all’epoca della rivista Transversales Science/Culture, da diversi movimenti ecologisti e dal gollista Yoland Bresson. Alcuni anni fa, la stessa Christine Boutin, presidente del partito democratico-cristiano ed ex ministro degli Alloggi ha aderito all’idea di un «dividendo universale» ispirato al cattolicesimo sociale. Nel 2009, infine, Olivier Auber ha lanciato un «Appello per un reddito vitale». Il reddito di esistenza ha sostenitori anche tra i liberali, che tuttavia lo concepiscono in una forma molto particolare – e che non deve creare illusioni. Così, l’economista americano Milton Friedman, riprendendo un’idea avanzata fin dagli anni Quaranta dall’inglese Juliet Rhys-Williams, si era pronunciato nel 1962 per un reddito minimo avente la forma di una «imposta negativa sul reddito» (negative income tax credit), al solo scopo di rendere più sopportabile la disoccupazione e la precarietà. Si trattava di un semplice credito d’imposta rimborsabile, calcolato su base familiare (invece di essere una prestazione individuale), da versare alle famiglie non soggette a imposta e che avrebbe funzionato, per i contribuenti tassabili, come una classica riduzione d’imposta[8]. Più recentemente, Charles Murray ha proposto anche lui di convertire tutti i trasferimenti sociali in un sussidio unico, forfettario e uniforme per tutti i cittadini[9]. La stessa soluzione è oggi raccomandata in Francia dal movimento Alternative liberali. In quest’ottica, il reddito di esistenza non ha, evidentemente, più niente a che fare con la ripartizione dei redditi, ma equivale a una sovvenzione mascherata alle imprese. L’idea è di accordare un reddito minimo garantito in cambio della libertà per i datori di lavoro di fissare i salari al di fuori di ogni vincolo legale, il che equivale ad abolire le convenzioni collettive e ogni regolamentazione del mercato del lavoro. L’imposta negativa costituisce, in effetti, un sistema di sovvenzione ai bassi salari che invita le imprese a usare ed abusare della «flessibilità» del lavoro e a ridurre le remunerazioni offerte, il che è esattamente l’obiettivo opposto a quello del reddito di cittadinanza[10]. I principali teorici del reddito di esistenza sono oggi Philippe Van Parijs, titolare della cattedra Hoover di etica economica e sociale all’Università di Louvain-la-Neuve, Jean-Marc Ferry e Yoland Bresson[11], ma anche André Gorz e René Passet. Van Parijs ha creato nel 1986 la rete BIEN (Basic Income European Network, ribattezzata Basic Income Earth Network nel 2004), che pubblica la rivista Basic Income Studies e di cui è segretario generale. In Francia, l’Associazione per l’instaurazione di un reddito di esistenza (AIRE), fondata dall’economista Henri Guitton e affiliata alla rete BIEN, diffonde le tesi di Yoland Bresson[12]. In certi paesi, si è anche registrato un inizio di applicazione pratica. Negli Stati Uniti, in Alaska, ogni cittadino riceve annualmente una quota (modesta, ma assegnata incondizionatamente) dei redditi petroliferi di questo Stato. Nel 2008, in Bolivia, è stato instaurato un reddito di base per le persone anziane. Nel 2004, in Brasile, il governo ha dato il via libera per la realizzazione progressiva di un reddito d’esistenza. In Gran Bretagna, i laburisti hanno introdotto un sussidio per ogni neonato, intoccabile fino alla maggiore età, ma che fino a questa età accumula interessi composti. Ma è anzitutto l’aumento della disoccupazione a spiegare la forte ripresa dell’idea di reddito di cittadinanza. Da più di trent’anni, infatti, nei paesi ricchi si sviluppa una disoccupazione di massa che niente sembra permettere di arginare, poiché progredisce in tutti i paesi industrializzati, quali che siano le politiche adottate. A causa della crescita della produttività, l’innovazione non crea più automaticamente occupazione. Il lavoro diventa raro. Ciò non vuol dire che sparirà, come aveva imprudentemente pronosticato Jeremy Rifkin negli anni Novanta, ma che a causa dell’automazione, dell’informatizzazione, della robotizzazione, si producono sempre di più beni e servizi con sempre meno ore di lavoro umano, e per finire con sempre meno uomini. Malgrado la crescita demografica, la produzione mondiale per abitante è stata moltiplicata per 2,5 tra il 1960 e il 1990. Ora, questa produzione è stata ottenuta con un ricorso sempre minore al lavoro umano, ragione per cui il volume totale di ore lavorate ha continuato a diminuire in quasi tutti i paesi sviluppati. Certi economisti prevedono persino il momento in cui il 20% della popolazione mondiale potenzialmente attiva potrebbe bastare a produrre tutte le merci e tutti i servizi di cui la società mondializzata potrebbe avere bisogno. L’era del pieno impiego sembra dunque terminata: «L’illusione di un lavoro salariato e debitamente remunerato per tutti si è volatilizzata con la crisi» (Olivier Auber). Ne consegue che la distribuzione della ricchezza tramite il lavoro continua a degradarsi e che diventa sempre più pesante farsi carico degli inoccupati (o dei non occupabili). In tali condizioni, prima o poi, il sistema cozza contro i suoi limiti interni. «La crescita non crea più occupazione», spiega Yoland Bresson, «perché gli effetti positivi che esercitava un tempo in questo campo sono ormai annullati dai continui incrementi di produttività. Tuttavia, i governi che si sono succeduti in questi ultimi decenni hanno continuato a trattare la disoccupazione come un incidente passeggero che era bene integrare in attesa del ritorno del pieno impiego. Essi hanno dunque privilegiato il trattamento sociale della disoccupazione e l’assistenza, il cui finanziamento è stato assicurato principalmente dal lavoro salariato. Poiché quest’ultimo continua a restringersi, si è entrati in un circolo vizioso»[13]. «L’occupazione viene a mancare», osserva ugualmente Gilles Yovan, «anche se la società non vuole sentir parlare di crisi del lavoro dipendente e rigetta questa evidenza, preferendo addebitare alla congiuntura il persistere di una disoccupazione di massa nei paesi europei»[14]. Ora, sin dall’istante in cui si riesce a produrre sempre più beni con sempre meno uomini, il problema essenziale smette di essere quello della produzione per diventare quello della sua distribuzione. In tali condizioni, si tratta infatti di sapere come un volume di merci sempre crescente potrà essere assorbito mentre si assiste a una riduzione globale del potere d’acquisto – continuando a crescere la capacità di vendita, mentre la capacità di acquisto diminuisce. Se non si risolverà questo problema, la disoccupazione aumenterà contemporaneamente alla produzione, e la crescita allargherà meccanicamente il fossato tra i più ricchi e i più poveri. Ma questa evoluzione, se si traduce negativamente nella disoccupazione e precarizzazione del lavoro, reca anche in germe la speranza di una progressiva emancipazione del lavoro salariato e dei fenomeni di sfruttamento del lavoro vivo che gli sono legati. Bisogna infatti comprendere bene che una macchina che sostituisce un uomo sopprime un posto di lavoro, dunque un salario, ma non il lavoro da effettuare. Non è dunque il lavoro a scarseggiare, ma l’occupazione. La generalizzazione di questo fenomeno potrebbe facilitare l’instaurazione di un reddito di cittadinanza. In un contesto di rarefazione dell’occupazione, scrive Jean Zin, «delle due l’una: o le protezioni sociali sono legate all’occupazione con le conseguenze di disuguaglianza ed esclusione che conosciamo, tanto più in quanto l’occupazione diventa discontinua e precaria, o le protezioni sociali sono legate alla persona, e ciò deve tradursi come minimo in un reddito garantito»[15]. Si passerebbe così da un’economia ridistributiva a un’economia distributiva (detta anche «economia dei bisogni»). «La ridistribuzione delle ricchezze tramite il lavoro», sottolinea Marie-Louise Duboin, «non riesce a impedire che il potere d’acquisto di una parte crescente della popolazione diminuisca a vantaggio dei patrimoni più grossi. Bisogna dunque sostituire questa ridistribuzione attraverso il lavoro con la distribuzione delle ricchezze prodotte, dal momento che esse lo sono con sempre meno lavoro»[16]. Per coloro che ne sostengono il principio, l’instaurazione di un reddito di cittadinanza avrebbe molteplici vantaggi. Un tale reddito «permetterebbe al contempo di sradicare la povertà, sopprimere la disoccupazione, ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie sociali ed emancipare l’individuo», esclama Baptiste Mylondo in uno slancio quasi lirico[17]. Poiché l’erogazione di un reddito di esistenza è un evidente fattore di integrazione sociale, essa permetterebbe in ogni caso di lottare contro l’esclusione, che continua a crescere malgrado l’esplosione dei trasferimenti sociali. Inoltre, provocherebbe matematicamente un aumento del potere d’acquisto, unitamente a una riduzione delle differenze di redditi. Favorendo l’autonomia, permetterebbe nuovi arbitrati tra tempo di lavoro e tempo libero. Non sarebbe stigmatizzante perché, «a differenza degli aiuti concessi salvo disporre di risorse economiche, i beneficiari non dovrebbero dimostrare la loro povertà. Detto altrimenti, il fatto di percepire il reddito di esistenza non sarebbe sinonimo di un qualunque stato di marginalizzazione»[18]. Essendo incondizionatamente distribuito a tutti, il reddito di cittadinanza sfugge peraltro a ogni mercanteggiamento politico e non induce alla frode, contrariamente alla maggior parte delle prestazioni sociali. Esso è ugualmente tale da far evolvere la relazione contrattuale tra i salariati e i datori di lavoro, i primi non trovandosi più nella condizione di dover accettare qualunque occupazione per sopravvivere (quanto meno si avrà bisogno di guadagnare denaro, tanto meno si sarà inclini ad accettare lavori mal pagati e degradanti). Contribuendo a realizzare la transizione tra due periodi in cui si dispone di un reddito da lavoro, permetterebbe di sopportare meglio i costi dell’attesa o di transazione. Dovrebbe anche permettere delle economie grazie alla riduzione dei costi di funzionamento dell’attuale sistema di prestazioni sociali. Philippe Van Parijs vi vede una «tecnica dolce di divisione del lavoro»; Yann Moulier-Boutang, il «riconoscimento del carattere sociale collettivo della creazione di ricchezza». «Il livello di produzione di una società […] incorpora l’apporto storico delle generazioni precedenti», scrive dal canto suo Alain Caillé. «Quindi, la distribuzione di un reddito d’esistenza manifesta la quota di produzione che rientra oggettivamente nell’ambito di questa eredità comune». Il reddito di cittadinanza potrebbe, infine, essere versato ai minorenni su un conto bloccato. «Al raggiungimento della maggiore età», osserva Yoland Bresson, «un bambino che avrà percepito il reddito d esistenza dalla sua nascita disporrà di un capitale monetario che gli permetterà di fare delle scelte: proseguire gli studi, viaggiare, realizzare un progetto produttivo personale che gli permetta di inserirsi nella società, ecc.»[19]. Tuttavia, il principale vantaggio del reddito di cittadinanza è con ogni evidenza che sarebbe tale da rimettere in discussione il lavoro salariato in quanto base del capitale e dei rapporti sociali. Aiutando ad uscire dal quadro del lavoro dipendente generalizzato, creando una sorta di alternativa al lavoro salariato, impedirebbe a quest’ultimo di colonizzare tutte le sfere dell’esistenza, contraddicendo nello stesso tempo l’idea, diffusa dal padronato come dall’ideologia dominante, che il lavoro salariato è l’unica base possibile della società, la sola fonte di coesione sociale, e che senza di esso non si può vivere «degnamente». «In maniera pienamente trasparente», sottolinea Philippe Van Parijs, «una parte molto più importante del reddito dei cittadini sarebbe loro distribuita dallo Stato in quanto cittadini, e una parte nettamente meno importante dai loro datori di lavoro in quanto lavoratori salariati»[20]. Con il reddito di cittadinanza, il lavoro salariato cessa di essere l’unica modalità possibile di inclusione sociale, nonché di socializzazione. Nei suoi saggi sulle Metamorfosi del lavoro e su L’immateriale, André Gorz, che alla fine della sua vita aveva accolto l’idea del reddito di cittadinanza dopo esservi stato a lungo ostile[21], oppone la «produzione di sé» al lavoro obbligato, che definisce «eteronomo». Quest’ultimo ha per l’individuo un valore solo strumentale: corrispondendo a un valore di scambio, non ha un senso in sé – ossia non merita di essere intrapreso in sé – ma trae la sua unica ragion d’essere dal reddito che permette di ottenere e dal privilegio simbolico che la società conferisce a tutti coloro che lavorano. Il lavoro come «produzione di sé» è, al contrario, un lavoro che per l’individuo ha senso: è il «lavoro vivo» che esprime lo sviluppo delle capacità grazie alle quali l’individuo può prodursi come soggetto singolare[22]. Ora, «i detentori del potere economico e politico», ricorda André Gorz, «temono soprattutto una cosa: che il tempo fuori dal lavoro salariato possa divenire il tempo dominante dal punto di vista sociale e culturale, che le persone possano osare impadronirsi di questo tempo per darsi da fare […] Il capitalismo bada che le persone si concepiscano solo in termini di forza lavoro su un mercato dell’occupazione e che, se non trovano un datore di lavoro, debbano prendersela solo con se stessi, ossia col fatto che non sono abbastanza “impiegabili”»[23]. Ma la produzione di sé non può limitarsi alla sfera del tempo libero o degli hobbies, ossia all’ambito del consumo. La società deve permettere il dispiegamento di attività autonome, sottratte al rapporto salariale nel campo stesso della produzione. Essa ha dunque per condizione il superamento, se non della società salariale stessa, almeno di un rapporto esclusivamente salariale con il lavoro. A ciò può contribuire il reddito di cittadinanza, permettendo di passare dal lavoro subito al lavoro scelto. Per Jean Zin, che vi vede un modo di «cambiare il lavoro per cambiare la vita», il reddito di cittadinanza costituisce «un considerevole progresso sociale della nostra autonomia che favorisce l’uscita dal capitalismo salariale a vantaggio del lavoro autonomo, così come un’economia rilocalizzata, integrante la dimensione ecologica e orientata verso lo sviluppo umano […] Il reddito garantito è l’istituzione che permette il passaggio dal lavoro forzato al lavoro scelto in una società più cooperativa e conviviale»[24]. Fare in modo che l’esistenza degli individui smetta di dipendere unicamente dalla vendita di sé in quanto forza lavoro e che il lavoro salariato non sia più l’unica fonte dello statuto sociale, implica in effetti una doppia sconnessione. Si tratta, in primo luogo, di sconnettere il lavoro e il reddito, ma anche di sconnettere il lavoro e l’occupazione, dato che la riduzione del primo alla seconda sfocia nell’esclusione di coloro che sono privi di occupazione, nella paura della disoccupazione tra i salariati e nel controllo sociale degli assistiti. Ancora una volta, è importante non confondere lavoro e occupazione. «L’occupazione non è altro che lavoro divenuto merce, contrattualmente sottomesso alla tutela e alle esigenze di un datore di lavoro e il cui prezzo è determinato dal mercato»[25]. A questo riguardo, il reddito di cittadinanza contraddice l’idea dominante che «la lotta contro la povertà passa attraverso l’occupazione» (Martin Hirsch). La povertà è, infatti, in primo luogo una faccenda di reddito. Il reddito di cittadinanza rappresenta un cambiamento nella distribuzione dei redditi e non, come il reddito di solidarietà attiva, un nuovo sussidio sociale redistributivo che va ad aggiungersi agli altri. La centralità del lavoro salariato deriva oggi dal fatto che permette il sostentamento. Vi si può vedere persino un «ricatto al sostentamento»[26]. Ma in realtà, è lo stesso sostentamento che dovrebbe essere centrale, non il lavoro. La realizzazione del reddito di cittadinanza potrebbe infine accompagnarsi a un certo numero di altre iniziative. Così, per André Gorz l’assegnazione di un reddito sociale è «inseparabile dallo sviluppo e dall’accessibilità dei mezzi che permettono l’auto-attività e vi incidono». Tra questi mezzi figurano tanto i «circoli di cooperazione», le monete locali e i sistemi di scambio locali (SEL)[27] quanto le «cooperative municipali» di cui Jean Zin propone la creazione ispirandosi alle tesi di Murray Bookchin, teorico dell’ecologia sociale e del «municipalismo libertario». Altri confidano semplicemente nelle attività associative, talvolta, d’altronde, con una certa ingenuità, perché è dubbio che possano da sole produrre un superamento delle secolari contraddizioni tra la dinamica storica della Forma-Capitale e le istituzioni del lavoro dipendente. Oltre ad averne sottolineato molto i vantaggi, all’idea di reddito di cittadinanza sono state, beninteso, mosse anche numerose obiezioni. Alcune sono obiezioni morali, altre obiezioni economiche. Le une riguardano il principio stesso del reddito di cittadinanza, molte concernono la sua fattibilità, in particolare il suo finanziamento. Altre ancora hanno una portata più generale. Passeremo ora in rassegna queste obiezioni. La critica morale si fonda, in generale, sulla vecchia idea cristiana secondo la quale il lavoro costituisce il destino obbligatorio dell’umanità dopo il peccato originale («chi non lavora, non mangia», diceva san Paolo). L’uomo sarebbe destinato per natura a guadagnarsi da vivere «con il sudore della sua fronte». Questa idea ha ispirato tutte le giustificazioni del lavoro che abbiamo visto fiorire, a destra come a sinistra, sul tema dell’«etica del lavoro», della «dignità del lavoro», del «diritto al lavoro» denunciato ai suoi tempi da Paul Lafargue. Essa è implicitamente presente nella maniera in cui, ancora oggi, i partiti di destra sviluppano una concezione incondizionata e illimitata del valore lavoro. Nella loro ottica, «lavorare è un imperativo categorico perché, oltre al fatto di essere necessario per produrre le ricchezze, il lavoro realizza l’esigenza morale di non divenire o restare un assistito» (Robert Castel). È anche il fondamento della denuncia, da parte dei liberali, dei «disoccupati volontari» e di altri refrattari al lavoro, assimilati a parassiti sociali, critica che lascia intendere che la disoccupazione di massa sparirebbe se tutti accettassero di lavorare in qualsiasi condizione[28]. «La Francia non deve essere un parco di divertimenti», diceva Jean-Pierre Raffarin nel 2003. Quattro anni più tardi, in occasione della sua campagna presidenziale, Nicolas Sarkozy lancia lo slogan «Lavorare di più per guadagnare di più». Ma guadagnare di più per fare che cosa? Per consumare di più, beninteso[29]. Ritroviamo questa critica morale nell’idea che l’istituzione del reddito di cittadinanza equivarrebbe a incitare alla pigrizia e a remunerare l’ozio. L’errore consiste qui nell’assimilare al «lavoro», e più particolarmente al lavoro salariato, ogni forma di attività umana. Ora, rifiutare il lavoro salariato non significa «non voler fare niente». Se intendiamo il lavoro nel senso di fare, realizzare, agire, creare, il lavoro non sparirà mai. Il lavoro salariato, dal canto suo, è stato a lungo percepito come una forma di schiavitù (mezzo secolo fa, l’abolizione del lavoro dipendente figurava ancora nel programma della CGT). Bisogna qui ricordarsi della distinzione che i Greci facevano tra il lavoro come fatica (ponos) e il lavoro creatore (poiesis), solo quest’ultimo essendo il vettore di una auto-realizzazione. Questa distinzione si ritrova sia in Hegel che in Marx (il quale raccomandava la trasformazione del lavoro in «auto-attività»). Bisogna anche ricordarsi che il capitalismo è la forma sociale che «ha potuto svilupparsi solo astraendo il lavoro dalla persona che lo fa, dalla sua intenzione, dai suoi bisogni, per definirlo in sé come un dispendio di energia misurabile, scambiabile con qualunque altra e i cui prestatori, i “lavoratori”, sono per molti aspetti intercambiabili. Il “lavoro astratto”, inventato dal capitalismo, è una merce che il padrone acquista e di cui determina sovranamente la finalità, il contenuto, le ore e il prezzo […] Il lavoro dipendente è dunque la completa espropriazione della persona attiva, che è espropriata del risultato o prodotto della sua attività, del suo impiego del tempo, della scelta delle finalità e dei contenuti del lavoro e dei mezzi di lavoro che i datori di lavoro, alla fine del XVIII secolo, hanno cominciato a monopolizzare per poter costringere le persone – in primo luogo i tessitori – a lavorare per un padrone e per uccidere ogni possibilità di auto-produzione, di auto-attività»[30]. Il timore di veder instaurarsi, con il reddito di cittadinanza, una società di oziosi e di fannulloni sembra infondato. L’introduzione di questo reddito non provocherebbe affatto un massiccio riflusso della partecipazione al mercato del lavoro, ma piuttosto libererebbe dall’obbligo di trovare un lavoro a qualunque prezzo, il che obbligherebbe i datori di lavoro a offrire migliori condizioni per numerosi posti di lavoro. Piuttosto, sono proprio le attuali indennità di disoccupazione a dissuadere spesso dal cercare un’occupazione, poiché esse vengono diminuite o soppresse quando i redditi lavorativi aumentano. Il reddito di cittadinanza, invece, non incita a non lavorare più, poiché lavorando lo si percepisce sempre. I modelli di simulazioni presentati in differenti congressi del BIEN prevedono, d’altronde, solo un abbandono del lavoro di scarsa portata da parte di lavoratori troppo mal pagati. Anche le sperimentazioni condotte negli Stati Uniti tra il 1968 e il 1980 smentiscono l’ipotesi di una massiccia diserzione dal mercato del lavoro in caso di introduzione del reddito di cittadinanza. Lo stesso André Gorz ha insistito molto sull’idea che il reddito garantito non si prefigge affatto di dispensare dal lavoro, ma piuttosto di dare migliori mezzi per scegliere il proprio lavoro. Negli stessi termini si esprime anche Jean Zin: «Il reddito garantito non è destinato a pagare persone che non fanno niente, ma a dar loro più autonomia nella scelta della loro attività». La critica secondo cui il reddito di cittadinanza trasformerebbe tutti i cittadini in assistiti, rafforzando così l’idea che essere cittadino vuol dire anzitutto essere un avente diritto, non è più accettabile: «Il reddito di esistenza non è un assistentato, perché, una volta munito del necessario, l’individuo prova il bisogno di agire e di realizzarsi»[31]. Un altro argomento è che la creazione di un reddito di esistenza costituirebbe una nuova «spinta» in favore dell’immigrazione. La risposta a questa tesi è che, nella misura in cui si sostituirebbe alla maggior parte delle prestazioni attuali, questa misura potrebbe anche contribuire a frenarla. Poiché il reddito garantito è riservato ai cittadini, si potrebbe anche pensare che l’introduzione del reddito di cittadinanza vada di pari passo con una revisione delle condizioni di attribuzione della nazionalità. «Lo statuto di cittadino», ritiene così Yoland Bresson, «deve poter essere acquisito solo a certe condizioni, in particolare quella di un sufficiente inserimento nella società francese e di una partecipazione agli scambi di tempo francesi»[32]. Ma l’obiezione più comune riguarda evidentemente la fattibilità del progetto. Il reddito di cittadinanza è vitale dal punto di vista economico e finanziario? E come finanziarlo? La risposta dipende evidentemente dal livello di questo reddito. È necessario che questo livello sia sufficiente per vivere, anche solo modestamente, altrimenti il reddito di cittadinanza sarebbe al contempo inutile per i benestanti e irrisorio per i più poveri. Appare difficile, ad esempio, sopprimere il reddito di solidarietà attiva sostituendolo con un reddito di base il cui ammontare sarebbe inferiore. Ma il reddito di cittadinanza deve anche essere compatibile con ciò che è economicamente e finanziariamente possibile tenuto conto del bilancio dello Stato. Il suo ammontare, infine, deve essere indicizzato sull’inflazione (ma bisogna notare che non è inflazionistico, poiché segue l’evoluzione del reddito nazionale). Moli equivoci dipendono dal fatto che, per alcuni (André Gorz), il reddito di cittadinanza deve, da solo, permettere di far vivere coloro che se ne accontenterebbero, mentre per altri (Yoland Bresson, Philippe Van Parijs) si tratta soltanto di un reddito di base che dovrebbe obbligatoriamente essere combinato con altri redditi. André Gorz auspicava che fosse fissato al livello del salario minimo garantito. Tra i Verdi, Yves Cochet milita per un «reddito minimo incondizionato» di 600 euro al mese. Jean Zin parla di un ammontare di 750 euro. Nel 2009, nel programma di Europe Ecologie, era ugualmente prevista la creazione di un reddito di 817 euro per adulto. Negli Stati Uniti, Richard C. Cook ritiene che potrebbe essere garantito all’insieme dei cittadini un reddito annuo di circa 12.600 dollari. Molte di queste proposte assumono come punto di riferimento la soglia di povertà (fissata in Francia al 60% del reddito mediano). Quanto alla questione dei finanziamento, essa deve essere anzitutto formulata bene. «Il problema posto dal reddito di esistenza non è quello del volume o della massa di risorse necessaire», sottolinea Yoland Bresson, «poiché il suo livello dipende precisamente da questo volume, ma unicamente quello della sua ripartizione. In altri termini, non pone un problema di costo, ma di ridistribuzione. Pensiamo, ad esempio, a quattro giocatori di carte. Invece di distribuire a caso le 52 carte del gioco, si dà prima un asso a ciascuno dei giocatori, e poi si distribuiscono a caso le restanti 48 carte. Il numero di carte del gioco non è variato, ad essere cambiato è il modo di distribuirle. Chi perde in questa nuova distribuzione? Gli estremi: il campione, che dovrà d’ora innanzi fronteggiare dei giocatori che possiedono almeno una buona carta, esattamente come il datore di lavoro che offrirà un posto di lavoro a un disoccupato indotto dal suo reddito d’esistenza a far valere meglio le sue scelte, e d’altra parte i cattivi giocatori, che non potranno più imputare alla sola sfortuna i loro successivi fallimenti. L’introduzione del reddito di esistenza è così riducibile a un semplice problema di ripartizione delle ricchezze esistenti»[33]. Nei computi che sono stati fatti, la fonte di finanziamento più frequentemente allegata è il trasferimento di una parte dei fondi oggi assegnati alla protezione sociale. Nel sistema del reddito di cittadinanza, questa protezione non ha più, infatti, la stessa ragion d’essere. Il reddito di cittadinanza si sostituirebbe alla maggior parte dei meccanismi redistributivi e degli aiuti sociali attuali (RSA, minimi sociali, assegni familiari, sussidi per l’alloggio, quoziente familiare applicato all’imposta sul reddito, supplemento familiare di trattamento, premi di occupazione, esoneri dalle tasse, tariffazioni sociali, sovvenzioni agricole, ecc.), eccezion fatta per la previdenza sociale (che è un’assicurazione e non un sussidio), per l’assicurazione contro la disoccupazione, certi aiuti all’alloggio e i sussidi agli handicappati. Bisogna qui ricordare che, secondo l’Insee, le prestazioni sociali rappresentano, da sole, il 44,1% della spesa pubblica, ossia 437 miliardi di euro nel 2007[34]. Su questo totale, il volume delle somme ridistribuite supera i 337 miliardi di euro all’anno, totale sul quale 288 miliardi potrebbero essere stanziati per il reddito di cittadinanza. Il resto del finanziamento sarebbe assicurato dalla soppressione di un certo numero di nicchie fiscali e da una riforma della fiscalità diretta e indiretta che preveda, in particolare, la soppressione delle aliquote e la loro sostituzione con un semplice sistema di progressività lineare fin dal primo euro percepito. Yoland Bresson ha presentato un progetto di finanziamento del reddito di esistenza basato su un sussidio di 300 euro mensili[35]. Questa cifra corrisponde a un sussidio annuale totale di 216 miliardi di euro per 60 milioni di persone, cifra da riferire a un PIL di quasi 2000 miliardi di euro. L’ammontare sarebbe fissato inizialmente nel quadro di una legge-programma, poi riaggiustato ogni anno in funzione del prodotto nazionale. È prevista una fase transitoria di cinque anni che permetta di passare progressivamente dal lavoro dipendente a forme di «partecipazione». Durante questo periodo di transizione, Bresson propone di prendere in prestito dal settore bancario a un tasso di interesse reale dell’1% annuo, ma a scadenza quasi illimitata sotto forma di rendita perpetua. Per il finanziamento complementare, pensa di ricorrere a un prestito di Stato sul risparmio. Anche Christine Boutin chiede l’introduzione di un dividendo di un ammontare mensile di 330 euro. La Modellizzazione del sussidio universale in Francia (MAUF) proposta da Marc de Basquiat prevede di prelevare un’imposta uniforme sul reddito, al massimo tasso attuale, e di ripartire le somme ridistribuite oggi in diverse maniere con un sussidio distribuito ad ogni cittadino sotto forma di un’imposta negativa pagata mensilmente, ossia un reddito di base di 385 euro per gli adulti. Altri, come si è visto, propongono un sussidio più elevato. L’associazione Vivant-Europe ha preso posizione per un reddito di base modulato in funzione dell’età (150 euro fino a 17 anni, 444 euro da 18 a 24 anni, 600 euro da 25 a 64 anni). Il liberale Jacques Marseille si è pronunciato per un sussidio mensile di 750 euro per gli adulti e 375 euro per i minorenni, questo sussidio sostituendo tutti gli altri, compreso quello delle pensioni[36]. René Passet situa il reddito di base al livello della soglia di povertà (circa 950 euro mensili) per gli adulti e alla metà di questo ammontare per i minori di 20 anni[37]. Questo progetto corrisponde a un sussidio totale di 470 miliardi all’anno, ossia quasi un quarto del PIL. Alcuni autori, come André Gorz, pensano che il reddito sociale non dovrebbe assumere la forma di classico denaro liquido, ma quella di una moneta differente, come la «moneta di consumo» di cui parlava Jacques Duboin. In questo sistema, ogni produzione commerciale sarebbe automaticamente accompagnata dall’emissione del suo «equivalente monetario», ossia dalla quantità di moneta di consumo che permetta l’acquisto delle merci prodotte. La moneta così emessa potrebbe servire una volta sola: sarebbe automaticamente annullata nell’istante dell’acquisto. Questo sistema è molto simile al «credito sociale» di C. H. Douglas o alla «moneta deperibile» di Sivio Gesell, di cui si è parlato prima. Esso pone, tuttavia, dei problemi di uci André Gorz era molto consapevole: «Come si fa a stabilire l’equivalente monetario di un prodotto al momento della sua produzione, soprattutto quando questa produzione richiede pochissimo lavoro? Il suo valore di scambio, il suo prezzo, non possono essere determinati dal mercato, poiché l’emissione di moneta di consumo deve aver luogo prima o nell’istante della immissione sul mercato. Affinché la quantità di moneta emessa corrisponda al prezzo di vendita, bisogna che i prezzi siano fissati ex ante, da un “contratto cittadino” tra consumatori, imprenditori e poteri pubblici. Detto altrimenti, bisogna che i prezzi siano prezzi politici, che il sistema dei prezzi sia il riflesso di una scelta politica, di una scelta di società concernente il modello di consumo e le priorità che la società intende darsi»[38]. Contro il reddito di cittadinanza sono state avanzate anche altre critiche, talvolta molto aspre, alcune delle quali meritano una riflessione. Ci si può anzitutto chiedere se abbia davvero un senso attribuire un reddito di cittadinanza ai più ricchi. Si deve dare la stessa somma ai barboni e ai miliardari? Non sarebbe meglio limitare l’attribuzione del reddito di cittadinanza a coloro i cui guadagni non superano un certo livello? Alain Caillé, ad esempio, si è pronunciato per un reddito di esistenza a «condizionalità debole» che sarebbe riservato alle persone più povere. Alcuni ritengono anche che la soppressione di un gran numero di prestazioni sociali a beneficio del reddito di base non sia accettabile, in particolare perché creerebbe un considerevole trasferimento a scapito dei pensionati (solo i pensionati che beneficiano di risorse diverse dalla loro pensione avrebbero un reddito superiore alla soglia di povertà). Essi si preoccupano di veder delineare una società divisa in due classi di popolazione: da un lato, quelli che avrebbero solo il reddito di cittadinanza per vivere e dall’altra quelli che avrebbero in più un posto di lavoro. «Ad esempio, il diritto alla casa», scrive Michel Husson, «sarebbe meglio garantito dalla distribuzione di sussidi in denaro o dalla socializzazione dell’offerta di case? […] Non sarebbe meglio estendere il campo dei servizi pubblici e della gratuità per assicurare la realtà dei diritti sociali?»[39]. Altri fanno ancora osservare che è abbastanza contraddittorio voler restringere la sfera produttiva attraverso un reddito di cittadinanza, mentre questo reddito sarebbe prelevato su quest’ultima[40]. Obiezione simile a quest’altra: poiché la distribuzione del reddito di cittadinanza è garantita dallo Stato, il cui bilancio dipende in parte dai profitti delle imprese, se questi profitti calano, non si rischia di non garantire più il reddito? È l’argomento avanzato da Jean-Paul Lambert, secondo il quale «a lungo andare, un tale reddito minaccia il suo stesso sistema di finanziamento»[41]. Il sociologo Guy Aznar giudica l’idea «perniciosa» perché, secondo lui, il reddito di cittadinanza porrebbe l’individuo in una situazione di dipendenza sociale totale. Per lui, come per Michel Husson, la società non deve fondarsi su un diritto al reddito, ma su una divisione del lavoro in nome del principio «lavorare meno per lavorare tutti». Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght hanno risposto a questo argomento evidenziando che anche il reddito di cittadinanza costituisce una modalità di divisione del lavoro[42]. Anche Jean-Marie Harribey è ostile al reddito di cittadinanza, per il fatto che il lavoro resta oggi un «vettore essenziale di integrazione sociale». Il diritto al lavoro dovrebbe dunque continuare a prevalere sul diritto al reddito, la sostituzione del concetto di «piena attività» a quello di piena occupazione non rappresentando altro che una «deriva liberale». «Solo il lavoro», ritiene Harribey, «è creatore di valore suscettibile di essere distribuito sotto forma di redditi monetari»[43]. Diversi autori, infine, temono che l’introduzione di un reddito di cittadinanza disarmi ogni contestazione radicale. Non soltanto il reddito garantito favorirebbe la flessibilità del lavoro, ma stabilizzerebbe, rafforzerebbe e perpetuerebbe il sistema attuale. Certi liberali, come si è visto, sono d’altronde favorevoli a un reddito di esistenza che assumerebbe la forma di un’imposta negativa. Michel Husson ritiene così che «è inutile voler sovvertire il capitalismo opponendogli la rivendicazione di un reddito garantito se gli si lascia il dominio della produzione commerciale»[44]. «L’erogazione di un reddito», aggiunge, «non tocca i rapporti sociali fondamentali», perciò egli pensa che sia preferibile battersi per la riduzione del tempo di lavoro e per la creazione di nuove gratuità. È questo, evidentemente, il problema fondamentale che era stato ben posto da André Gorz poco prima della sua morte, in un testo pubblicato nel giugno 2007 nella rivista Mouvements: l’introduzione di un reddito sociale garantito è tale da minare le basi della società capitalistica o, al contrario, da consolidarla, se non addirittura da salvarla? Si potrebbe, infatti, sostenere che, nel contesto di una progressiva rarefazione dell’occupazione, il capitalismo potrà sopravvivere solo mediante una distribuzione del potere d’acquisto che non corrisponda più al valore di un lavoro. Il reddito di cittadinanza sarebbe allora il mezzo per continuare a favorire il consumo di merci prodotte per trarre un profitto. Lo stesso Gorz rispondeva: «Non si tratta di perseguire, nella rivendicazione di un reddito sociale garantito, l’obiettivo illusorio di una ristrutturazione del capitalismo […] Si tratta, al contrario, di concepire questa rivendicazione come un modo di affrontare il capitalismo là dove si crede inattaccabile, ma diventa in realtà più vulnerabile: sul piano della produzione». Si tratterebbe, in altri termini, di far sì che il reddito sociale apra la strada a un’appropriazione del lavoro e della produzione – permettendo di liberarsi della produzione altrove che nella produzione. «Solo l’auto-produzione fuori mercato», aggiunge Gorz, «ossia l’unificazione del soggetto della produzione e del soggetto del consumo, offre una via d’uscita per sfuggire a questa determinazione da parte del capitale del contenuto dei bisogni e della modalità della loro soddisfazione». Come si vede, la discussione resta aperta. Bisognava, tuttavia, aprirla! Alain de Benoist (traduzione di Giuseppe Giaccio) NOTE 1 Yoland Bresson, «Revenu d’existence et participat: vers la fin du salariat?», intervista in Krisis, 18 novembre 1995, pag. 68. 2 Testo pubblicato ne La Revie du MAUSS, 1° semestre, 1996, pag. 26. 3 Cfr. in particolare Jacques Duboin, Kou l’ahuri, la misère dans l’abondance (1931), La grande relève des hommes par la machine (1932), Demain ou le socialisme de l’abondance (1944). 4 Marie-Louise Duboin, «L’économie distributive», in Agone, 21, 1999, pagg. 120 e 132 : Ripreso da sua figlia, il giornale La Grande Relève, fondato nell’ottobre 1935 da Jacques Duboin, è pubblicato ancora oggi (B.P. 108, 78115 Le Vésinet Cédex). 5 Cfr. C. H. Douglas, Economic Democracy, Bloomfield Books, Sudbury 1974. Sul «credito sociale» e la «democrazia economica», cfr. il giornale The Social Crediter, animato da Frances Hutchinson (P.O. Box 322, Silsden, Keighley, West Yorkshire BD20 0YE, Gran Bretagna). [6] Gustave Rodrigues, Le droit à la vie, Liberté, Paris 1934. [7] Cfr. Yann Moulier-Boutang, «L’autre globalisation: le revenu d’existence inconditionnel, individuel et substantiel», in Multitudes, 8, 2002. [8] Cfr. Milton Friedman, Capitalisme et liberté, Robert Laffont, Paris 1971. [9] Cfr. Charles Murray, In Our Hands. A Plan to replace the Welfare State, AEI Press, Washington 2006. [10] Negli anni Sessanta, la sperimentazione, negli Stati Uniti, nel New Jersey, di una imposta negative di cui hanno beneficiate per tre anni 30.000 famiglie ha anche mostrato che questa misura favoriva nettamente il lavoro “nero”. [11] Cfr. Philippe Van Parijs, Arguing for Basic Incombe, Verso, London 1992; Real Freedom for All. What (If Anything) Can Justify Capitalism?, Clarendon Press, Oxford 1995; Refonder la solidarité, Cerf, Paris 1996; Jean-Marc Ferry, L’allocation universelle. Pour un revenue de citoyenneté, Cerf, Paris 1996; Yoland Bresson, L’après-salariat. Une nuovelle approche de l’économie, Economica, Paris 1993. Cfr. anche Gilles Gantelet e Jean-Paul Maréchal (a cura di), Garantir le revenu. Une des solutions à l’exclusion, Transversales Science/Culture, Paris 1992; François Blais, Une revenu garanti pour tous. Introduction aux principes de l’allocation universelle, Boréal, Montréal 2001; Baptiste Mylondo, Ne pas perdre sa vie à la gagner. Pour un revenu de citoyenneté, Homnisphères, Paris 2008. [12] L’associazione pubblica anche un bollettino trimestrale, La Lettre de l’AIRE (33, avenue des Fauvettes, 91440 Bures-s/Yvette). [13] «Revenu d’existence et participat», art. cit., pag. 68. [14] Gilles Yovan, dibattito «Le revenu social: sortir de la société salariale», testo online, sito <Productions. Les péripheriques vous parlent>. [15] Jean Zin, «Vers la révolution du revenu garanti?», testo online, 5 aprile 2006. [16] «L’économie distributive», art. cit., pag. 129. [17] Baptiste Mylondo, Un revenu pour tous ! Précis d’utopie réaliste, Utopia, Paris 2010, pag. 7. [18] Jean-Paul Maréchal, Humaniser l’économie, Desclés de Brouwer, Paris 2008. [19] Art. cit., pag. 69. [20] Philippe Van Parijs, intervista in Multitudes, aprile 2002. [21] Fino al 1997, propendeva per un reddito sociale garantito, ma condizionale. Cfr. André Gorz, Misères du present, richesse du possible, Galilée, Paris 1997; «Qui ne travaille pas mangera quand même», in Futuribles, luglio-agosto 1986, pagg. 56-74. [22] Cfr. Gilles Yovan, «La production de soi dans le cadre du capitalisme de l’immatériel», testo on-line, sito <Productions. Les périphériques vous parlent>. [23] André Gorz, «“Oser l’exode” de la société du travail», in Les Périphériques vous parlent, primavera 1998. [24] Jean Zin, «Pour un New Deal: revenu garanti pour tous», testo on-line, 16 ottobre 2008. [25] Yoland Bresson, «RSA ou revenu d’existence», in La Lettre de l’AIRE, 57, estate 2008. [26] Sortir de l’économie, 2 maggio 2008, pag. 41. [27] I sistemi di scambio locale (SEL) hanno già creato, a partire dagli anni Novanta, delle monete a validità limitata nel tempo, che non possono dunque essere capitalizzate. L’obiettivo è di ridare un carattere locale alla moneta (cfr. Alternatives économiques, 157, marzo 1998). [28] Sottolineiamo, tuttavia, che la presenza di un tasso relativamente elevato di disoccupazione non va contro gli interessi del capitale, al contrario. Quando c’è poca disoccupazione, i lavoratori sono più esigenti sui loro salari e le loro condizioni di lavoro, perché sanno che non faranno fatica a trovare un altro posto di lavoro se decideranno di lasciare quello che già hanno. Quando c’è molta disoccupazione, essi sono, invece, pronti ad accettare qualunque cosa per essere certi di conservare il loro posto di lavoro. Cfr. David Schweickart, After Capitalism, Rowman & Littlefield, Lanham 2002. [29] I paesi che hanno il tasso di occupazione più alto sono in realtà quelli dove la durata del lavoro è più corta. Ricordiamo anche che, in Francia, le imprese passate alle 35 ore hanno registrato tra il 1997 e il 2000 un aumento del 6,7% della loro produttività oraria per un calo del tempo di lavoro di circa il 10%. Da questo punto di vista, «lavorare di più» significa il contrario di «lavorare tutti». Cfr. Brieuc Bougnoux, «Travailler plus ne permet pas de gagner plus», in Alternatives économiques, 263, novembre 2007. [30] André Gorz, «“Oser l’exode” de la société de travail», art. cit., pag. 44. [31] Louis Lievin, ne La Lettre de l’AIRE, primavera 2008, pag. 9. [32] «Revenu d’existence et participat», art. cit., pag. 75. [33] Ibidem, p. 72. [34] Nei redditi dei nuclei familiari, la parte relativa alle prestazioni sociali era già passata dal 22% nel 1970 a circa il 33% nel 1997. [35] La Lettre de l’AIRE, 62, autunno 2009, pagg. 20-21; Le partage du temps et des revenus, Economica, Paris 1994, pagg. 91-95. Cfr. anche la comunicazione di Marc de Basquiat, «Rationalisation d’un système distributif complexe : la piste de l’allocation universelle», presentata nel settembre 2009 alle XXIX Journées de l’Association d’économie sociale (La Lettre de l’AIRE, 64, primavera 2010). [36] Jacques Marseille, L’argent des Français, Perrin, Paris 2008. [37] René Passet, L’illusion néoliberale, Fayard, Paris 2000, pagg. 274-275. [38] Mouvements, giuugno 2007. [39] ContreTemps, 18 febbraio 2007. [40] Cfr. Jean-Marie Harribey, «Le cognitivisme, nouvelle société ou impasse théorique et politique?», in Actuel Marx, settembre 2004. [41] Prosper, 18, 2007, pag. 8. [42] Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, L’allocation universelle, La Découverte, Paris 2005, pag. 61. [43] Jean-Marie Harribey, «Allocation universelle ou plein emploi?», ne La Libre Belgique, 22 giugno 2005. [44] Critique communiste, estate-autunno 2003. |
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