SCANDALO CARIGE – IL “CAVEAU” DEI DOSSIER SPORCHI ERA IN UN UFFICIO ANONIMO, DENTRO UN ARMADIO BLINDATO CON SU SCRITTO “PRATICHE DA RIORDINARE” – ADESSO LE “RIORDINA” LA MAGISTRATURA
Il cuore del sistema Carige era nel Centro fiduciario, la società che gestiva i patrimoni di Berneschi e della clientela vip. Le carte che spiegano tutti in movimenti di soldi, spesso con l’estero, erano nascoste in un armadio come tanti in un ufficio in condominio con uj circolo ricreativo…
Matteo Indice per Il Secolo XIX
Per entrare nel caveau bisogna salire sei piani, via Venti settembre numero 41, pieno centro di Genova, uffici che qualcuno - in questo palazzo - aveva scambiato soltanto per un circolo ricreativo (e in effetti la sede era condivisa): «Ma quello non è il posto dove si facevano i brindisi di Carige sotto Natale?». Non proprio, dice da tempo la Guardia di Finanza, che però nei giorni scorsi ha fatto bingo , trovando probabilmente ciò a cui dava la caccia da mesi.
Le Fiamme Gialle hanno ora scoperto l’armadio blindato in cui i dirigenti avevano imboscato l’indicibile, papelliprelevati dalle cartelline ufficiali e però necessari a orientarsi nei conteggi di clienti assai privilegiati, perciò conservati di nascosto. Al telefono (intercettato) lo chiamavano «il caveau», appunto, luogo per troppe settimane virtuale che ha rappresentato l’ossessione degli investigatori. E che alla fine, come succede quando s’afferrano sotto casa latitanti all’apparenza imprendibili, era stato approntato proprio lì.
Naturalmente era un contenitore anonimo, in un posto altrettanto anonimo dentro uffici che farebbero pensare a tutt’altro. Non solo: giusto per evitare che suquell’armadietto, e su quella scatola di cartone, si concentrassero troppe attenzioni, ci avevano messo una targhetta a depistare, con un’indicazione tipo «pratiche da riordinare» o «pratiche vecchie».
Nulla di nominale, insomma; nulla che potesse ricondurre al fiume di soldi riportato in Italia dall’ex presidente Carige Giovanni Berneschi, o dalle ereditiere farmaceutiche Livia e Susanna De Angelis, o dai coniugi industriali Vincenzo Cappelluto e Franca Roveraro e da altri ancora. Le cose che si potevano dire agli ispettori di Bankitalia erano nei fascicoli istituzionali, a disposizione con il nome del cliente in bella evidenza; il resto finiva dritto nel caveau.
Come ci sono arrivati, i finanzieri? E soprattutto: perché non era stato trovato il 17 luglio, quando i vertici di “Cf” finirono in manette con l’accusa di riciclaggio? Per orientarsi è necessario ripartire da loro. Si chiamano Antonio Cipollina, ex direttore e fedelissimo di Berneschi, Gian Marco Grosso, suo vice per lungo tempo, e Marcello Senarega, procuratore finanziario. Tre settimane fa, prima di accompagnarli in carcere, i militari chiedono siano messi a disposizione tutti gli incartamenti su alcuni personaggi che - tramite quel dipartimento - avevano gestito somme altissime e di provenienza dubbia. Cipollina e Grosso, in particolare e radunato un po’ di materiale, assicurano che è tutto lì, che non ci saranno altre sorprese.
La Finanza impacchetta, li arresta perché ciò che hanno fatto nei mesi precedenti è comunque grave, e finiscono nel penitenziario di Marassi. Nel giro di alcuni giorni entrambi ottengono gli arresti domiciliari (Senarega viene invece liberato del tutto, con l’unico obbligo di non occuparsi di attività finanziarie). Non solo. Fanno ricorso al tribunale del Riesame, e solo all’apparenza è un passaggio burocratico. Significa che vogliono mettere in discussione i «presupposti» dell’arresto, far dire a un pool di giudici che non c’era motivo per accanirsi così. Ma a un certo punto decidono di comportarsi diversamente.
Cipollina, l’uomo che per vent’anni ha custodito i segreti del Centro Fiduciario, che conosce vita, morte e miracoli dei milionari ai quali agevolava il viavai di denaro, lascia perdere. Si tiene insomma stretta la scarcerazione, il resto si vedrà. Grosso no, vuole l’en plein. E fa male. Perché nel frattempo il Centro è sfuggito al loro controllo. E alle scrivanie, coordinati da un commissario, sono rimasti solo gli impiegati; quelli che al telefono fisso, sospettando con ragione che fosse intercettato, ripetevano «finanzieri finanzieri è tutto vero ciò che si dice su questo dipartimento... indagate ancora...».
Sono loro, pochi giorni fa, a chiamare la Finanza e a dire che c’è un armadio strano, cui non si poteva accedere ai tempi dell’egemonia Berneschi-Cipollina. E nella testa di chi indaga rimbalza sempre quella registrazione dei mesi precedenti, quando i capi di Cf parevano dei complici, più che dei colleghi: «I documenti dell’affare sono nascosti nel caveau...», senza aggiungere altro.
Via venti settembre 41, allora, sei piani di ascensore, porta a vetri, qualche bancone, armadio grigio imboscato e scatolone. Eccolo, il caveau. E guarda caso dentro ci sono proprio i pezzi mancanti del puzzle che riguardava i clienti con i giri di soldi più spinosi. Fanno in tempo a scriverlo alla Procura, che a sua volta lo racconta al tribunale del Riesame. Ecco perché ieri mattina hanno detto a Grosso che c’erano parecchi motivi per arrestarlo, altro che annullare le accuse. E come minimo deve rimanere ai domiciliari.
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