Il ruolo delle Banche Internazionali all’origine del primo conflitto mondiale
di Gian Paolo Pucciarelli - 07/10/2011Fonte: Rinascita [scheda fonte]
Fra lo sconcerto generale che, come si può supporre, il menzionato articolo ebbe allora modo di provocare, si apprendeva che le potenze europee, sottoposte a rigidi vincoli finanziari, perché debitrici, sarebbero state costrette a seguire fra il 1887 e il 1914 determinati orientamenti politici tali da condurre a un conflitto senza precedenti nella storia, allo scopo di pagare il loro debito pubblico [public debts of Europe (sic)]. In breve la guerra (mondiale) sarebbe stata la sola alternativa alla bancarotta.
Il “trimestrale”, destinato a diventare prestigioso negli ambienti economici internazionali, attribuiva l’origine del colossale debito pubblico europeo (qualcosa come 5.300 milioni di dollari di allora da pagare annualmente in linea interessi) alle allegre gestioni dei cosiddetti “sinking funds” (fondi governativi, costituiti a garanzia dei bonds emessi dallo Stato), omettendo di precisare che proprio questi sono parte fondamentale del meccanismo adottato dal Sistema Bancario Internazionale per indebitare i governi e dichiararli insolventi, quando il prelievo fiscale non sia più sufficiente a rimborsare (in linea capitale e interessi) il “prestito” loro concesso. La tecnica, dell’Investment Banking, prevede fra l’altro la “mobilizzazione del credito”, cioè il reinvestimento dei fondi (attraverso i servizi della Banca Centrale), e particolare attenzione alle procedure di ammortamento cui sono soggetti gli strumenti (per esempio gli armamenti) che il debitore ha acquisito, grazie al prestito concessogli. Nell’Europa d’inizio Novecento il clima politico, carico di tensioni, sembrava prossimo a scatenare la tempesta, del resto annunciata da fermenti rivoluzionari e pressanti rivendicazioni delle forze sociali, restando alle diplomazie il merito di aver riconosciuto il diritto di autodeterminazione dei popoli, senza ledere naturalmente certi privilegi imperialistici. Circostanza da cui emergeva la necessità di provvedere comunque all’incremento delle spese per la difesa, malgrado il già insostenibile debito pubblico o, viceversa, proprio in conseguenza di questo. Le banche (internazionali e/o le affiliate, operanti nei rispettivi paesi), erogatrici del prestito, intendevano in ogni caso tutelare il proprio capitale investito con il reintegro e l’aggiornamento degli armamenti, resi obsoleti dal rapido sviluppo industriale, suggerendone in molti casi l’urgente impiego. Anche l’industria pesante si sarebbe adeguata al nuovo indirizzo, che obbligava i governi a disporre conversioni della produzione economica, da cui le banche avrebbero tratto doppio profitto, in previsione e nel corso dell’eventuale conflitto (acquisto di armi) e nella fase successiva alla fine delle ostilità (ricostruzione). Il Sistema Bancario Internazionale agiva in perfetta simbiosi con le proprie affiliate (acciaierie, chimica, munizioni) formando l’efficiente struttura finanziaria - industriale, chiamata anche “Conglomerate” o “Corporate Banking”, tesa ad alimentare ostilità di vecchia data nel teatro europeo e a seminare discordie col volontario aiuto delle diplomazie.
Gli effetti dell’influenza esercitata sui governi dalle banche internazionali sono evidenti in particolare nel cruciale periodo 1907 – 1914 (crisi finanziaria, intrighi a non finire intorno alla Anglo Persian Oil Company, piano di saccheggio del dissolvendo Impero Turco Ottomano, costituzione del Federal Reserve System) durante il quale si osservano chiari segnali dell’imminente conflitto. In questo scenario, la Gran Bretagna intende consolidare il proprio impero (India) e affermare il proprio dominio sugli oceani, senza dimenticare l’influenza finanziaria che essa esercita, grazie alla Bank of England, sulla sua ex colonia nordamericana, gli Stati Uniti d’America, attraverso il binomio, all’epoca costituito fra Re Giorgio V e Leopold Rothschild della Rothschild House di Londra (che a sua volta si avvale dei propri agenti negli States, Morgan e Rockefeller). Principale antagonista della Gran Bretagna è la Germania del Kaiser Guglielmo II (nipote del Re inglese Edoardo VII), incline a potenziare la flotta per la conservazione delle proprie colonie e a non rinunciare alle aspirazioni germaniche sui territori dell’Impero Turco Ottomano. Spinta dal revanscismo, dopo la sconfitta nella guerra franco prussiana, la Francia è acerrima nemica della Germania per l’eterna contesa dell’Alsazia-Lorena. L’Italia giolittiana, concluso a suo vantaggio nel 1912 la guerra con la Turchia per la Libia, si annovera fin dal 1850 fra i migliori clienti di Casa Rothschild, cui si dovrebbe, secondo alcuni, grazie ai pluriennali finanziamenti ai Savoia, la sospirata Unità Nazionale. Il quadro non è completo. Manca la Russia zarista, che nello scenario prebellico costituisce un caso a parte, se vogliamo credere a chi sostiene che tra gli equivoci delle Tesi su Feuerbach e le proteste sociali dell’epoca c’era di mezzo, come sempre… la Banca. Vale a dire che si può anche pagare lautamente l’aria fritta, purché, rivenduta in forma d’ideologia, svolga opportune funzioni livellatrici, determinando illusioni sufficienti a preferire alla fame i presunti benefici dell’economia collettiva. Ciò significa fra l’altro che la diffusione di un ideale rivoluzionario e l’indebitamento generale sono mezzi giustificati dallo stesso fine: il controllo delle masse. Nel contesto, il ruolo della “Banca” si svolge secondo le regole del già citato “Sistema” che comprende l’Istituto di emissione (Banca Centrale), le Banche d’investimenti, le Banche commerciali e l’intera rete delle banche locali. Il sistema, operante attraverso articolazioni nazionali, dovrebbe adeguarsi alla politica economica dei singoli Paesi, secondo le direttive impartite alla Banca Centrale dai Ministeri di Economia, Tesoro e Finanze. Ma così non avviene, perché la Banca Centrale controlla lo Stato, invece di essere da questo controllata. Questo succede perché il capitale di maggioranza dell’Istituto di Emissione è in mani private, dietro le quali operano tranquillamente le Banche d’Investimenti Internazionali. E’ del resto quanto precisamente prevede una “clausola” del contratto di prestito erogato dalle Investment International Banks, per cui il ruolo dell’“Istituto di emissione” diviene ad esse subalterno. Questo è determinato dalla progressiva cessione di quote o azioni del proprio capitale, pretesa ogniqualvolta le Banche d’Investimento internazionali erogano un prestito a favore dello Stato (procedura che può facilitare in tempi brevi l’acquisizione dell’intero capitale della Banca Centrale – vedi al proposito il caso dell’odierna Bankitalia).
Il creditore dello Stato può dunque pretendere il rimborso del prestito, quando a suo giudizio, il debito pubblico diventasse insostenibile. In tal caso la dichiarazione d’insolvenza permetterebbe al creditore di pretendere l’immediato rimborso del prestito, obbligando il governo ad adottare idonee misure finanziarie o, in alternativa, iniziative della politica estera miranti a creare nuove opportunità d’investimento, che prevedono fra l’altro il ricorso al più efficace degli strumenti finanziari, la guerra.
Nell’inverno del 1914, divenne urgente rispettare le scadenze, sotto la minaccia, incombente su molte teste coronate dell’Europa di allora, di veder confiscati i propri tesori, ben custoditi nei forzieri delle Banche londinesi, aderenti al “Sistema delle Banche Internazionali”.
Il caso dei Romanov è significativo.
Vale la pena al proposito osservare lo sviluppo delle relazioni anglo-russe a cominciare dal 1876, anno in cui si costituiscono a Londra, grazie anche agli introiti della Società del Canale di Suez (finanziata al 50 % dalla Rothschild Bank che acquista un anno prima per conto della Corona inglese la quota egiziana, pagando 4 milioni di sterline a Ismail Pascià), quelle che saranno poi chiamate “Accepting Houses”, speciali organismi bancari, affiliati alla Hambros e alla Rothschild Bank, che avranno il compito di amministrare il mercato dei bonds o obbligazioni emesse dallo Stato debitore (oggetto di particolari attenzioni sarebbe stato ad esempio il debito per le riparazioni di guerra di 31 miliardi di dollari della Repubblica di Weimar). Ma nel caso della Russia Zarista, sembra documentato il contratto a lungo termine che Alessandro II stipulò con la Rothschild Bank di Londra al fine di ottenere sostegno finanziario per muovere guerra alla Turchia nel 1877. Le pretese che lo Zar avanzò, a guerra conclusa, su Costantinopoli e il Bosforo, furono respinte dal primo ministro britannico Benjamin Disraeli, non solo perché intralciavano le rotte inglesi verso l’India, ma anche perché l’Impero di tutte le Russie risultava insolvente nei confronti dei Rothschild. Ragione per cui lo stesso Disraeli prospettò l’opportunità politica di concedere prestiti contro il rilascio di garanzie reali da parte del successore di Alessandro II, lo Zar Alessandro III, risultato poi altrettanto inaffidabile. La costituzione “in pegno” di buona parte del tesoro dei Romanov, custodita nelle casse delle Accepting Houses londinesi, faceva peraltro riscontro al successivo ingresso della Russia fra le Potenze dell’Intesa, dopo che Nicola II era stato convinto che un ulteriore aiuto finanziario dei Rothschild (secondo la procedure e le clausole sopra descritte) gli sarebbe stato necessario per potenziare un esercito sufficiente a fronteggiare la presunta minaccia degli Imperi Centrali. Visto poi che lo Zar continuava ad essere insolvente anche per gli esiti nefasti della guerra russo-giapponese, Londra (o meglio, le Filiali londinesi dell’Investment Banking) predisponevano il gigantesco tranello di cui sarebbero state vittime lo stesso Zar e il popolo russo. Non prima però che si fosse resa politicamente giustificabile quella guerra totale da tempo prevista per “salvare” i governi europei dalla bancarotta. Il tutto preceduto dall’avvio di un piano, concordato a tavolino con gli Stati Uniti, rappresentati dal presidente Theodore Roosevelt. Costui infatti si sarebbe proposto quale diligente servitore dell’International Banking fin dalla guerra ispano-americana, condotta allo scopo di favorire il nascente monopolio della canna da zucchero di Cuba e l’espansionismo degli States nei Caraibi e sul Pacifico (Porto Rico e Filippine). La collaborazione con le “Accepting Houses” londinesi sarebbe stata poi evidente nel pool di banche internazionali, costituito allo scopo di determinare il crollo dell’Impero Zarista. Il fine apparente sarebbe stato perseguito a tutela degli interessi delle banche inglesi e a salvaguardia dell’Impero Britannico. La potente Bank of England, che nel frattempo avrebbe fatto carte false per fondare negli Stati Uniti la propria filiale (cioè la Federal Reserve Bank), avrebbe avuto ampie possibilità di azione nelle Borse internazionali, principalmente Wall Street, attraverso cui sarebbero stati disposti flussi di denaro, destinati alla fondazione dell’Unione Sovietica. Sembrano ampiamente documentati i trasferimenti di denaro eseguiti a favore dei rivoluzionari Bolscevichi fra il 1905 e il 1920 attraverso la Kuhn Loeb & Company di New York, i banchieri Jacob Schiff e Olof Aschberg, i quali operavano sotto la regia di Alexander Helphand, alias “Parvus”, il coordinatore dei finanziamenti ai rivoltosi per conto delle banche tedesche Warburg. Fra i diretti beneficiari di tali fondi si contavano gli illustri Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin, e Lev Trotzki, profeti del marxismo e costruttori della futura società sovietica. (Nel 2008, all’Hoover Institution Archives di Stanford – California sono state declassificate ricevute bancarie dei trasferimenti di denaro, per complessivi 20 milioni di dollari, eseguiti da Jacob Schiff a favore di Lenin e Trotzky dal 1915 al 1917).
Manovre finanziarie d’indubbia efficacia, rispetto ai meno soddisfacenti risultati di analoghe operazioni, eseguite per esempio a sostegno della rivolta dei Boxer in Cina nel primo anno del XX secolo, che in ogni caso rappresentavano un banco di prova per i successivi interventi dell’International Banking al fianco d’ingorde corporations anglo-americane, decise in quel tempo a primeggiare nel sistematico saccheggio delle risorse minerarie cinesi. Gli americani, saldamente stabiliti a Canton, e gli inglesi nella valle del fiume Yang Tse, sembravano decisi a sloggiare i Russi da Port Arthur, i giapponesi da Formosa e dalla Corea, i tedeschi dalle miniere dello Shantung, i francesi dall’Indocina e dai territori meridionali. In quella circostanza i soldi consegnati ai rivoltosi (Boxer) sarebbero serviti a giustificare la presenza sul territorio cinese di ventimila Marines, guidati dal tecnico minerario e faccendiere Herbert Hoover (futuro presidente degli Stati Uniti) contro gli stessi Boxer; la conveniente tattica adottata dagli americani consisteva nel sostenere prima la rivolta, per poi sedarla, trasformandola in pretesto per acquisire nuove terre di sfruttamento, facendosi largo fra i concorrenti. Questo precedente potrebbe suggerire la risposta agli interrogativi che un dubbio troppo ingombrante obbligava a porsi: perché i Capitalisti occidentali avrebbero sostenuto la rivoluzione bolscevica e favorito la costituzione di una società comunista nell’Unione Sovietica? Una risposta che può avere chiunque osservi gli sviluppi del Capitalismo nell’arco di tempo, compreso tra il 1919 e il 1989, e possa rilevare, dietro la politica del confronto, che peraltro sarebbe stato necessario ribadire nel secondo conflitto mondiale, la funzione di controllo indiretto assegnata all’Unione Sovietica, allo scopo di impedire il pericoloso flusso sul mercato del libero scambio di materie prime, offerte a prezzi sensibilmente inferiori, rispetto a quelli stabiliti dai Cartelli occidentali, membri di un selezionato gruppo, chiamato anche Capitalismo oligarchico, cui sarebbe spettata, grazie alla proficua collaborazione dell’International Banking, la facoltà arbitraria ed esclusiva di condurre, direttamente o indirettamente, ogni attività produttiva e commerciale della libera economia di mercato. Fra gli obiettivi immediati del Sistema Bancario Internazionale che allora sosteneva i rivoluzionari bolscevichi, vi erano: il già citato crollo del regime Zarista, il sequestro del tesoro dei Romanov (conservato nelle casse della Rothschild Bank, dopo la messa in mora di Nicola II) e l’eliminazione di un pericoloso concorrente (lo stesso Zar) nella corsa al petrolio del Golfo Persico. Lo stesso Capitalismo, del resto, (in procinto di confrontarsi con un sistema che rappresentasse, più o meno formalmente, il suo esatto “opposto”) avrebbe anche (e proprio per questo) avuto modo di attestarsi su posizioni più radicali, per altro giustificate, o in via di eterna giustificazione, dalle teorie in esso congenite (legge del massimo profitto col minimo impiego). Il cosiddetto liberismo, in cui dominerebbe il principio del “laissez faire”, o delle limitazioni dell’intervento dello Stato nelle attività della libera impresa, avrebbe tratto dalle tesi marxiane occasione di svilupparsi in senso verticale, riducendo il libero mercato a un’area di privilegio, in cui il rischio d’impresa sarebbe stato sensibilmente ridotto, a giovamento esclusivo di chi potesse disporre di mezzi finanziari, idonei a influenzare l’economia dello Stato attraverso il perpetuo “debito – ricatto”. Superfluo aggiungere che la costituzione del sistema sovietico, in cui vige il divieto di attivare ogni libera impresa, e la prevista minaccia dell’espansione comunista, sarebbero stati funzionali all’idea di un “monopolio” del capitale, non solo dividendo il mondo in zone di competenza territoriale, ma favorendo l’affermazione in Occidente di un’esclusiva “Power Elite” capitalistica. Il Capitalismo oligopolistico avrebbe così avuto modo di consolidarsi, grazie al comunismo, scongiurando il rischio che dalla Russia Zarista potesse nascere una federazione di Stati, tesa ad espandersi nell’Est Europeo e in Asia per crearvi una nuova forza capitalistica, pronta ad entrare in competizione con gli Stati Uniti d’America. Il Manifesto del Comunismo avrebbe assunto così valore di simulacro a Wall Street, dove Lenin sarebbe stato selezionato quale guida di uno Stato accentratore, garante dell’illusorio potere conferito al proletariato, allo scopo di pervenire al controllo assoluto delle masse, attraverso il sistema dell’economia pianificata. Primo passo: la nazionalizzazione delle banche russe, e la costituzione di una Banca Statale Sovietica, prevista nel programma di Lenin e con favore accolta da Wall Street.
A sostegno di queste tesi, sembra opportuno osservare certi aspetti della strategia di mercato, legata agli sviluppi dell’industria petrolifera americana, a partire dai primi anni del Novecento. Di particolare interesse, a tal proposito, sono le iniziative adottate dal Gruppo Petrolifero Rothschild – Rockefeller, all’indomani dell’entrata in vigore della legge “antitrust”, lo Sherman Act, e in previsione dei piani Ford per la costruzione di automobili in serie. Circostanza che avrebbe spinto il Gruppo (l’associazione dei due imperi “Banche - Petrolio” non è ovviamente casuale) ad assumere un rigido controllo del mercato petrolifero internazionale, in conseguenza dello smembramento della Standard Oil e a seguito del cosiddetto “Caso Spindletop” (*). Il riferimento alla moneta statunitense (Petrodollari), sarebbe stato da allora preteso per ogni transazione sul mercato internazionale riguardante i prodotti petroliferi, adottando un sistema di contenimento delle fluttuazioni del prezzo del greggio che scongiurasse pericolose e non lucrative tendenze al ribasso. Il che avrebbe indotto il Gruppo Rothschild-Rockefeller a promuovere efficaci campagne di stampa tese a diffondere infondate notizie sulla presunta scarsità delle riserve (e risorse) petrolifere mondiali, al fine di evitare che si producessero dannosi effetti “dumping” nel mercato interno (visto che la domanda di combustibile era in crescita grazie al lancio dell’automobile Ford Modello T). Ma sarebbe stato soprattutto opportuno non limitare la capacità di competizione del Gruppo sui mercati internazionali. A tal scopo, era evidente che il controllo politico delle aree petrolifere mondiali più promettenti, come quelle del Golfo Persico, Medio Oriente, Caucaso e Caspio, sarebbe stato indispensabile. L’Impero Zarista, che comprendeva allora anche l’immensa area del Kazakhstan, avrebbe rappresentato uno dei più temibili concorrenti fra i potenziali produttori di petrolio, certamente deciso a sfruttare i propri giacimenti e a commercializzare il suo combustibile sul mercato internazionale a un prezzo assolutamente più basso rispetto a quello imposto dalle Compagnie del Gruppo Rothschild-Rockefeller, per via della scarsa domanda di petrolio, determinata dal non florido sviluppo industriale della Russia Zarista. Per evitare tale evenienza, il Gruppo in questione avrebbe così sostenuto i rivoluzionari bolscevichi e il nuovo regime che fosse stato in grado di garantire il controllo politico di popoli e territori dell’ex Impero Zarista, grazie al vasto consenso popolare, di cui si proponeva interprete, impegnandosi a costruire la società comunista e ad imporre e esportare (sotto il velo del nobile compito assegnato al Komintern) il severo divieto a intraprendere qualsiasi attività economica o industriale non sottoposta al controllo dello “Stato Accentratore” e dunque in contrasto col piano anti-concorrenza del Capitalismo occidentale.
Nello stesso progetto si possono inquadrare le ragioni che indussero il World Jewish Congress a realizzare il piano di costituzione di uno Stato ebraico in Palestina, posto a guardia del Canale di Suez e degli interessi petroliferi angloamericani in Medio Oriente. Non trascurando infine le iniziative, prese nel primo dopoguerra tendenti ad impedire la formazione di un secondo polo capitalistico nell’Europa continentale.
L’esordio della Federal Reserve avviene nel 1914 e qualche mese più tardi scoppia la Prima Guerra Mondiale. Una coincidenza!? La Fed opera a stretto contatto con la Borsa Newyorkese, autentico ponte costruito nell’occasione fra l’America e l’Europa, allo scopo di rendere vane le pretese del Kaiser sul territorio iracheno (ferrovia Berlino – Baghdad), e obbligando il suo naturale alleato, l’impero austro-ungarico, a far divampare la “polveriera balcanica”. A tale scopo sono costituiti il Belgian Relief Committee (per aiutare il “neutrale” Belgio invaso dalle truppe germaniche, ma soprattutto per permettere a queste ultime di continuare a combattere una guerra non voluta) e l’American International Corporation, grazie alla quale a Wall Street sarà dato il via a una serie di investimenti, da cui trarranno profitti colossali il gruppo Rothschild – Rockfeller e il “pool” di banche internazionali ad esso associato. Nell’occasione diventerà operativo il già citato Corporate Banking, creato apposta per obbligare i governi delle Potenze belligeranti ad usufruire del sostegno finanziario, destinato all’acquisto di armi dal War Industry Board di Bernard Baruch, banchiere associato al “pool”, esponente di spicco dell’Organizzazione Sionista Mondiale e persuasivo consigliere dei presidenti americani. Il grande business della guerra!? Non occorre chiederlo a Lord Walter Rothschild, né all’esimio Colonnello Mandell House che nel 1913 ha già stilato i Quattordici Punti, enunciati dal Presidente Wilson alla Conferenza di pace di Parigi del 1919 (valgono un Premio Nobel, la frantumazione di tre imperi e focolai infiniti d’odio e rancori dal mare del Nord all’Oceano Indiano). La strategia dell’Investment Banking, coordinata dalle Rothschild Houses e da quella che diverrà nota col nome di Standard Oil Company of New Jersey (poi Exxon), risulta dunque vincente anche negli States grazie al Sistema Fed, attraverso il quale sono già rientrati, sotto forma di tasse pagate dai contribuenti americani, i 25 miliardi di dollari, creati dal nulla, e anticipati ai belligeranti per dare inizio alla Prima Guerra Mondiale. Nell’occasione si distinguono i Chairmen della Fed, Charles S. Hamlin e William P.G. Harding, quest’ultimo manager del War Finance Corporation, attivissimo nelle forniture di armamenti ancor prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti il 6 aprile 1917.
Nel bel mezzo della guerra, ha modo fra l’altro di prendere forma la cultura dello stereotipo, o dell’estrema semplificazione cui tenderebbe a conformarsi il giudizio dell’immaginario collettivo, indispensabile alla costruzione del consenso e più tardi all’interpretazione “ragionata” del cosiddetto “politicamente corretto”. (Tante grazie a Walter Lippmann e al suo indimenticato “Public Opinion”!)
A Wall Street e alla Fed di New York intanto gli Investitori si fregano le mani. In attesa che il già concepito Committee on Foreign Relations, succursale a Washington del Royal Institut for International Affairs di Londra, dia inizio alle sue poliedriche attività, la strategia bellica anglo americana trova proficua applicazione in tre settori: finanziario (come abbiamo visto), militare e propagandistico. Compito della stampa americana è, ad esempio, inventare di sana pianta atrocità che i tedeschi avrebbero commesso, in pace e in guerra. La tecnica del reiterato inganno, perpetrato ai danni del popolo statunitense, sarà più tardi chiaramente visibile nell’intero operato dell’Amministrazione Wilson, per quanto un giudizio critico sul ruolo dei presidenti degli Stati Uniti fosse fin da allora apertamente ammesso dalla storiografia ufficiale. Presupposto che rende legittima, almeno sul piano etico, una piena adesione alle tesi del Professor Carroll Quigley, diffusamente espresse nel suo “Tragedy & Hope” , in cui si rileva, sulla base di indiscutibili prove, l’assoluta dipendenza della Casa Bianca dalla volontà dei Banchieri Internazionali. Esempi significativi della costruzione del consenso, teso a legittimare azioni impopolari del governo e comunque ritenute socialmente e politicamente dannose al rivestimento democratico della leadership statunitense, sembrano i casi Lusitania e Sussex, creati ad arte (come poi l’effetto Pearl Harbour e decenni più tardi, l’incidente del Tonchino, senza dimenticare il più recente “911”) per convincere l’opinione pubblica americana sull’opportunità dell’entrata in guerra (dichiarata o no) degli Stati Uniti.
Alla cultura dello stereotipo si affiancherà poi la cosiddetta “Spirale del Silenzio”, teoria sviluppata da Betty Neumann, secondo la quale il potere dei media (e dei più importanti “oracoli” accademici) si manifesta soprattutto attraverso gli effetti persuasivi che riesce a produrre sul pubblico di massa, il quale non può fare a meno, salvo rare eccezioni, di prendere per vera la versione di un fatto storico che gli è imposta, sebbene risultino chiari i propositi censori a fini propagandistici dei mezzi d’informazione. Per cui, chi dissentisse da una “verità multimediale” accettata e condivisa dalle moltitudini, rinuncerebbe alla fine a porla in discussione, constatando di rappresentare una minoranza ristretta e “inaffidabile”. (Per fortuna le vittime della spirale del silenzio tendono a diminuire, producendo stimoli a un’indagine non mutuata dai media “ufficiali”, e comunque propensa a considerare menzogne… le mezze verità.)
Nel 1916 fu compito di un giudice, membro della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Dembitz Brandeis, confermare per intero la menzogna dell’affondamento della “S.S. Sussex, ad opera del solito “criminale” U-Boat tedesco nel Canale della Manica. Lo stesso presidente degli Stati Uniti sarebbe stato pronto a dichiarare questa “verità”, costruita ad arte, quando avrebbe chiesto al Congresso, in data 2 aprile 1917, di approvare la dichiarazione di guerra alla Germania (malgrado l’offerta di pace da quest’ultima proposta alla Gran Bretagna, già sul punto di chiedere invece, visto il corso degli eventi bellici ad essa sfavorevoli, la resa incondizionata). Fra i pochi estimatori della Verità (quella che non offende il buon senso e il Divino Creatore), si annovera l’ebreo Benjamin Freedman, che dimostrerà sulla scorta di prove inconfutabili come le fotografie pubblicate dalla stampa americana e inglese non riproducessero la carcassa della S.S. Sussex, ma quelle di un traghetto francese in riparazione nei cantieri di Boulogne sur Mère.
L’affondamento del Lusitania (1915) acquistava peso politico dopo la seconda elezione del presidente Wilson (la Casa Bianca si conquista anche con le menzogne!). Ma l’opinione pubblica americana si convince con le buone o con le cattive. Ci penserà William Randolph Hearst ad avviare opportune campagne interventiste, per salvare la faccia di Woodrow Wilson dagli sputi dei suoi elettori. Intanto (dicembre 1916 ) i tempi per un ingresso degli Stati Uniti nella Guerra Mondiale sembravano maturi, perché qualcuno, che stava molto in alto, sapeva manipolare a tal punto la Casa Bianca e Downing Street da pretendere il rispetto dell’Accordo di Londra, sottoscritto in segreto alla fine del 1916, dal presidente Wilson e dal premier Lloyd George.
L’intervento degli States segnava una svolta decisiva negli sviluppi del primo conflitto. In pochi mesi a partire dall’aprile 1917, il corso della guerra, decisamente favorevole alle Potenze dell’Intesa, determinava fra l’altro le condizioni propizie per il successo della Rivoluzione Bolscevica nell’ottobre del 1917. Evento calcolato, nell’imminenza della prevista pace separata tra Russia e Germania, caldamente suggerita dagli anglo americani, visto il malcontento che regnava fra le truppe dello Zar. Il Kaiser, visto l’andamento della guerra, avrebbe poi accolto l’invito di levarsi dai piedi, archiviando per sempre le aspirazioni di un grande Impero Germanico, esteso a lambire le acque del Golfo Persico. Nell’occasione, gli sarebbe stato richiesto l’ultimo favore: consentire libero transito al treno blindato che trasportava Lenin e Company fino a Pietrogrado, per instauravi il nuovo regime, poco incline ad accettare le esitazioni “socialdemocratiche” di Kerenski, ma ben disposto a ricevere tanti auguri d’un radioso futuro dal liberale presidente americano Wilson, fin troppo pronto a manifestare alla Conferenza di Parigi la necessità d’un appoggio, morale e materiale, degli Stati Uniti al governo che Lenin avrebbe meditato e scelto di instaurare sulle rovine dell’Impero Zarista.
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