Saccheggio di Stato
di Giacomo Gabellini - 30/01/2012Fonte: statopotenza
Non appena il capo dello Stato Giorgio Napolitano ebbe incaricato Mario Monti di formare il governo, Barack Obama telefonò immediatamente al nuovo inquilino di Palazzo Chigi per sbrigare i soliti convenevoli e, soprattutto, per caldeggiare la nomina a ministri di due personaggi strettamente collegati alle strutture atlantiche, ovvero il presidente del Comitato Militare della NATO, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola e l’ambasciatore italiano negli Stati Uniti Giulio Terzi di Sant’Agata.
In seguito, quando Monti ufficializzò la nomina di Di Paola come ministro della Difesa e di Giulio Terzi come ministro degli Esteri accogliendo le “raccomandazioni” di Obama, apparve immediatamente chiara la linea che avrebbe seguito il governo dei tecnici insediatosi a “furor di mercati”.
Una volta che questo governo ebbe varato la nota manovra finanziaria interamente incentrata sull’aumento delle imposte di base a carico di un tessuto produttivo composto essenzialmente da piccoli e medi imprenditori, alcuni osservatori esterni sollevarono la spinosa questione su come questa proclamata “austerità” finalizzata ufficialmente a raggiungere il pareggio di bilancio potesse sposarsi con l’erogazione di ben 16 miliardi di euro dei contribuenti per l’acquisto di 131 caccia F35 Joint strike Fighter prodotti dalla compagnia statunitenseLockheed Martin.
A recidere ogni nodo gordiano di sorta intervenne puntualmente il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, il quale ammonì i giornalisti che avevano posto il problema a non «avventurarsi su temi militari rispetto ai quali hanno poca dimestichezza».
In primo luogo, ha chiarito Tricarico, la cancellazione dell’ordine relativo a questi 131 F35 comporterebbe una relativa sottrazione di «miliardi di lavoro a una settantina di aziende italiane, dai giganti Finmeccanica e Fincantieri, a molte piccole e medie imprese».
In secondo luogo, ha proseguito il generale, l’acquisto di questi caccia non andrebbe interpretato come la soddisfazione di un salato capriccio, dal momento che l’F35 è destinato a fungere da «pilastro della Difesa italiana del XXI secolo», in assenza del quale l’Italia «potrebbe esser costretta a chiamarsi fuori se un altro dittatore sanguinario dovesse massacrare il proprio popolo».
La solita retorica imperniata sulla “complessità” dell’argomento, accompagnata dall’innata reticenza da parte di giornalisti e politici nell’entrare nel merito delle faccende che riguardano le forze armate, ha fatto in modo che nessuno interlocutore di Tricarico e del suo superiore Di Paola avanzassero la più elementare delle obiezioni, ovvero che Finmeccanica, azienda italiana di cui lo Stato detiene ancora (seppur per poco, a quanto pare) la Golden Share, controlla Alenia, società che progetta e realizza tra i più avanzati aerei da difesa e sistemi di volo e che ha ampiamente dimostrato di avere tutte le credenziali necessarie per dotare l’Italia di un avanzato e completo sistema di difesa, producendo le relative ripercussioni positive sull’occupazione e sull’economia, che trarrebbe ampio beneficio dal rilancio di una delle aziende di punta capace di porsi all’avanguardia nei settori, strategicamente fondamentali, della difesa e dell’alta tecnologia.
Ma proprio la significativa concatenazione di eventi che nell’arco del 2011 hanno riguardato Finmeccanica ha evidenziato in maniera piuttosto evidente quali siano gli interessi in ballo.
Nel corso del 2011 la quotazione in Borsa di Finmeccanica ha fatto registrare un sonoro -64% e dedurre a cosa sia dovuto questo impressionante e repentino tracollo rappresenta un enigma di non difficile risoluzione.
In seguito, quando Monti ufficializzò la nomina di Di Paola come ministro della Difesa e di Giulio Terzi come ministro degli Esteri accogliendo le “raccomandazioni” di Obama, apparve immediatamente chiara la linea che avrebbe seguito il governo dei tecnici insediatosi a “furor di mercati”.
Una volta che questo governo ebbe varato la nota manovra finanziaria interamente incentrata sull’aumento delle imposte di base a carico di un tessuto produttivo composto essenzialmente da piccoli e medi imprenditori, alcuni osservatori esterni sollevarono la spinosa questione su come questa proclamata “austerità” finalizzata ufficialmente a raggiungere il pareggio di bilancio potesse sposarsi con l’erogazione di ben 16 miliardi di euro dei contribuenti per l’acquisto di 131 caccia F35 Joint strike Fighter prodotti dalla compagnia statunitenseLockheed Martin.
A recidere ogni nodo gordiano di sorta intervenne puntualmente il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, il quale ammonì i giornalisti che avevano posto il problema a non «avventurarsi su temi militari rispetto ai quali hanno poca dimestichezza».
In primo luogo, ha chiarito Tricarico, la cancellazione dell’ordine relativo a questi 131 F35 comporterebbe una relativa sottrazione di «miliardi di lavoro a una settantina di aziende italiane, dai giganti Finmeccanica e Fincantieri, a molte piccole e medie imprese».
In secondo luogo, ha proseguito il generale, l’acquisto di questi caccia non andrebbe interpretato come la soddisfazione di un salato capriccio, dal momento che l’F35 è destinato a fungere da «pilastro della Difesa italiana del XXI secolo», in assenza del quale l’Italia «potrebbe esser costretta a chiamarsi fuori se un altro dittatore sanguinario dovesse massacrare il proprio popolo».
La solita retorica imperniata sulla “complessità” dell’argomento, accompagnata dall’innata reticenza da parte di giornalisti e politici nell’entrare nel merito delle faccende che riguardano le forze armate, ha fatto in modo che nessuno interlocutore di Tricarico e del suo superiore Di Paola avanzassero la più elementare delle obiezioni, ovvero che Finmeccanica, azienda italiana di cui lo Stato detiene ancora (seppur per poco, a quanto pare) la Golden Share, controlla Alenia, società che progetta e realizza tra i più avanzati aerei da difesa e sistemi di volo e che ha ampiamente dimostrato di avere tutte le credenziali necessarie per dotare l’Italia di un avanzato e completo sistema di difesa, producendo le relative ripercussioni positive sull’occupazione e sull’economia, che trarrebbe ampio beneficio dal rilancio di una delle aziende di punta capace di porsi all’avanguardia nei settori, strategicamente fondamentali, della difesa e dell’alta tecnologia.
Ma proprio la significativa concatenazione di eventi che nell’arco del 2011 hanno riguardato Finmeccanica ha evidenziato in maniera piuttosto evidente quali siano gli interessi in ballo.
Nel corso del 2011 la quotazione in Borsa di Finmeccanica ha fatto registrare un sonoro -64% e dedurre a cosa sia dovuto questo impressionante e repentino tracollo rappresenta un enigma di non difficile risoluzione.
Negli scorsi anni Finmeccanica aveva beneficiato dello stretto rapporto di collaborazione tra Italia e Libia ottenendo da Muhammar Gheddafi lucrose commesse che vanno dalla realizzazione di strutture ferroviarie lungo i litorali mediterranei alla cooperazione con la difesa libica per quanto concerne i settori dell’aeronautica e dell’elicotteristica.
Tuttavia, la crociata contro Gheddafi sferrata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna ha interrotto bruscamente questi affari e costretto l’azienda romana a rinunciare agli importanti affari in Libia.
Parallelamente, alcune indagini condotte dalla magistratura riguardo ad un oscuro giro di tangenti raggiunsero il vertice della società, ovvero il Presidente Pier Francesco Guarguaglini, contro il quale venne orchestrata una sontuosa campagna di pressione affinché abbandonasse spontaneamente l’incarico.
I più “autorevoli” organi di riferimento della grande finanza angloamericana, ovvero il Financial Times e il Wall Street Journal, colsero l’occasione per riversare ulteriore benzina sul braciere italiano, gettando enorme discredito sia sull’impresentabile governo in carica sia su Finmeccanica, che stava subendo durissimi attacchi in Borsa (-20% in un solo giorno).
Malgrado ciò che viene comunemente creduto, il mercato azionario necessita di essere inderogabilmente spogliato del carattere ludico (“giocare in Borsa”) che i principali organi informativi sono soliti affibbiargli, perché la grande speculazione persegue generalmente specifiche finalità strategiche e pertanto le tendenze di base di un quel tipo di investimenti vengono indirizzate a porte chiuse dai più navigati protagonisti della politica e della finanza, nell’ambito di riunioni di grandi consessi internazionali come il Club Bilderberg e la Commissione Trilaterale, ove si stabiliscono le regole del “gioco”.
Alla luce di questo fatto risulta quindi chiaro il motivo per cui al crollo pilotato di Finmeccanica abbia fatto seguito un significativo calo azionario delle compagnie possedute dal Primo Ministro Silvio Berlusconi, finito anch’esso, come Guarguaglini, nell’occhio del ciclone giudiziario.
Con il valore di Mediaset e Mondadori dimezzato (rispettivamente -53% e -50,5% annuale) e la considerevole flessione subita da Mediolanum (-12% nell’anno 2011) Berlusconi si è deciso a recidere il nodo gordiano relativo alla sua posizione di governo, dimettendosi dall’incarico di Primo Ministro.
Tuttavia, la crociata contro Gheddafi sferrata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna ha interrotto bruscamente questi affari e costretto l’azienda romana a rinunciare agli importanti affari in Libia.
Parallelamente, alcune indagini condotte dalla magistratura riguardo ad un oscuro giro di tangenti raggiunsero il vertice della società, ovvero il Presidente Pier Francesco Guarguaglini, contro il quale venne orchestrata una sontuosa campagna di pressione affinché abbandonasse spontaneamente l’incarico.
I più “autorevoli” organi di riferimento della grande finanza angloamericana, ovvero il Financial Times e il Wall Street Journal, colsero l’occasione per riversare ulteriore benzina sul braciere italiano, gettando enorme discredito sia sull’impresentabile governo in carica sia su Finmeccanica, che stava subendo durissimi attacchi in Borsa (-20% in un solo giorno).
Malgrado ciò che viene comunemente creduto, il mercato azionario necessita di essere inderogabilmente spogliato del carattere ludico (“giocare in Borsa”) che i principali organi informativi sono soliti affibbiargli, perché la grande speculazione persegue generalmente specifiche finalità strategiche e pertanto le tendenze di base di un quel tipo di investimenti vengono indirizzate a porte chiuse dai più navigati protagonisti della politica e della finanza, nell’ambito di riunioni di grandi consessi internazionali come il Club Bilderberg e la Commissione Trilaterale, ove si stabiliscono le regole del “gioco”.
Alla luce di questo fatto risulta quindi chiaro il motivo per cui al crollo pilotato di Finmeccanica abbia fatto seguito un significativo calo azionario delle compagnie possedute dal Primo Ministro Silvio Berlusconi, finito anch’esso, come Guarguaglini, nell’occhio del ciclone giudiziario.
Con il valore di Mediaset e Mondadori dimezzato (rispettivamente -53% e -50,5% annuale) e la considerevole flessione subita da Mediolanum (-12% nell’anno 2011) Berlusconi si è deciso a recidere il nodo gordiano relativo alla sua posizione di governo, dimettendosi dall’incarico di Primo Ministro.
Una volta insediatosi, il capo del governo Mario Monti ha convocato d’urgenza Guarguaglini per “accettare” le sue dimissioni, conferendo pieni poteri all’Amministratore Delegato Giuseppe Orsi ma tergiversando sull’opportunità di assecondare il “suggerimento” dato dal Financial Times lo scorso 26 novembre, relativo alla necessità di cedere la quota statale dell’azienda.
Ciò ha provocato la pronta reazione di Standard & Poor’s, che ha calato la propria scure su Finmeccanica affibbiandogli un BBB- con outlook negativo.
Un fuoco incrociato similare a quello sferrato contro Finmeccanica è stato recentemente aperto sull’ENI, l’altro grande caposaldo del potenziale strategico italiano colpito dalla guerra alla Libia e “attenzionato” dal Ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, che ha annunciato l’intenzione di inserire lo scorporo della SNAM, che gestisce la rete del gas, dal “cane a sei zampe”.
Scopo dichiarato dell’operazione è quello di «tagliare i costi e favorire gli investimenti»; un ritornello già sentito innumerevoli volte che si richiama all’intramontabile dogma del liberismo secondo cui la “concorrenza” assicurerebbe prodotti di buona qualità al minor prezzo possibile.
Tuttavia, come aveva già spiegato egregiamente Platone più di due millenni fa, la realtà non ricalca infallibilmente i concetti che risiedono nel mondo delle idee (iperuranio) e pertanto la cosiddetta “concorrenza” celebrata dai cultori del libero mercato non è mai “libera”, in quanto viene regolarmente strumentalizzata dai grandi agenti sociali dominanti che la inquinano o la distorcono a proprio uso e consumo allo scopo di ottenere la supremazia a scapito degli altri competitori.
Dal momento che l’ENI rappresenta l’unico soggetto in Italia a concepire strategie di politica estera – che hanno fruttato successi del calibro del gigantesco gasdotto South Stream – appare quindi estremamente controproducente promuovere misure che intacchino la sua capacità operativa in ottemperanza a direttive impartite da organi sovranazionali come l’Unione Europea che hanno ripetutamente mostrato la propria inadeguatezza prestando il fianco alle pugnalate dagli strateghi degli Stati Uniti, che a suon di manovre speculative e guerre commerciali non dichiarate stanno cercando, con discreto successo, di porre l’Europa sotto il tallone di ferro di Washington.
Ma la soglia del vero autolesionismo è stata varcata proprio in questi giorni, in occasione della crisi tra Iran e Stati Uniti (con Israele in agguato).
Nell’arco di qualche settimana le portaerei statunitensi Stennis prima, e Lincoln poi, hanno attraversato lo Stretto di Hormuz suscitando l’indignazione del governo di Teheran, che ha minacciato di chiudere l’angusto braccio di mare in cui transita qualcosa come il 20% circa del petrolio mondialmente estratto.
Le autorità statunitensi hanno immediatamente minacciato di intervenire militarmente qualora Ahmadinejad attuasse questa misura mentre il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha chiarito che «chiudere lo Stretto sarebbe una violazione del diritto internazionale», puntando direttamente il dito contro la Repubblica Islamica.
Tale affermazione assume un significato piuttosto eloquente se inserita nel contesto generale che è andato delineandosi nel corso dell’ultimo mese, e più precisamente dallo scorso 31 dicembre 2011, data in cui l’amministrazione Obama aveva approvato un pacchetto di ulteriori sanzioni da applicare all’Iran salvo poi attivare una massiccia campagna di pressione sull’Unione Europea e sui singoli governi del Vecchio Continente affinché tagliassero i ponti con Teheran.
In ottemperanza alle gerarchie atlantiste, il 23 gennaio l’Unione Europea ha approvato un embargo totale sulle importazioni di petrolio dall’Iran che entrerà pienamente in vigore nel giro di pochi mesi, malgrado questa decisione minacci seriamente la sicurezza energetica continentale e sia destinata a provocare un sensibile aumento del prezzo di carburanti.
Malgrado l’Italia sia il maggior importatore del greggio iraniano e il documento approvato il 23 gennaio vincoli i paesi aderenti all’Unione Europea a rescindere i contratti petroliferi stipulati con Teheran entro il primo luglio, il Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata ha affermato che l’impatto delle limitazioni adottate a Bruxelles sarebbe «trascurabile, se non nullo», in virtù del fatto che le fonti di approvvigionamento italiane sarebbero «in progressiva differenziazione».
Ciò ha provocato la pronta reazione di Standard & Poor’s, che ha calato la propria scure su Finmeccanica affibbiandogli un BBB- con outlook negativo.
Un fuoco incrociato similare a quello sferrato contro Finmeccanica è stato recentemente aperto sull’ENI, l’altro grande caposaldo del potenziale strategico italiano colpito dalla guerra alla Libia e “attenzionato” dal Ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, che ha annunciato l’intenzione di inserire lo scorporo della SNAM, che gestisce la rete del gas, dal “cane a sei zampe”.
Scopo dichiarato dell’operazione è quello di «tagliare i costi e favorire gli investimenti»; un ritornello già sentito innumerevoli volte che si richiama all’intramontabile dogma del liberismo secondo cui la “concorrenza” assicurerebbe prodotti di buona qualità al minor prezzo possibile.
Tuttavia, come aveva già spiegato egregiamente Platone più di due millenni fa, la realtà non ricalca infallibilmente i concetti che risiedono nel mondo delle idee (iperuranio) e pertanto la cosiddetta “concorrenza” celebrata dai cultori del libero mercato non è mai “libera”, in quanto viene regolarmente strumentalizzata dai grandi agenti sociali dominanti che la inquinano o la distorcono a proprio uso e consumo allo scopo di ottenere la supremazia a scapito degli altri competitori.
Dal momento che l’ENI rappresenta l’unico soggetto in Italia a concepire strategie di politica estera – che hanno fruttato successi del calibro del gigantesco gasdotto South Stream – appare quindi estremamente controproducente promuovere misure che intacchino la sua capacità operativa in ottemperanza a direttive impartite da organi sovranazionali come l’Unione Europea che hanno ripetutamente mostrato la propria inadeguatezza prestando il fianco alle pugnalate dagli strateghi degli Stati Uniti, che a suon di manovre speculative e guerre commerciali non dichiarate stanno cercando, con discreto successo, di porre l’Europa sotto il tallone di ferro di Washington.
Ma la soglia del vero autolesionismo è stata varcata proprio in questi giorni, in occasione della crisi tra Iran e Stati Uniti (con Israele in agguato).
Nell’arco di qualche settimana le portaerei statunitensi Stennis prima, e Lincoln poi, hanno attraversato lo Stretto di Hormuz suscitando l’indignazione del governo di Teheran, che ha minacciato di chiudere l’angusto braccio di mare in cui transita qualcosa come il 20% circa del petrolio mondialmente estratto.
Le autorità statunitensi hanno immediatamente minacciato di intervenire militarmente qualora Ahmadinejad attuasse questa misura mentre il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha chiarito che «chiudere lo Stretto sarebbe una violazione del diritto internazionale», puntando direttamente il dito contro la Repubblica Islamica.
Tale affermazione assume un significato piuttosto eloquente se inserita nel contesto generale che è andato delineandosi nel corso dell’ultimo mese, e più precisamente dallo scorso 31 dicembre 2011, data in cui l’amministrazione Obama aveva approvato un pacchetto di ulteriori sanzioni da applicare all’Iran salvo poi attivare una massiccia campagna di pressione sull’Unione Europea e sui singoli governi del Vecchio Continente affinché tagliassero i ponti con Teheran.
In ottemperanza alle gerarchie atlantiste, il 23 gennaio l’Unione Europea ha approvato un embargo totale sulle importazioni di petrolio dall’Iran che entrerà pienamente in vigore nel giro di pochi mesi, malgrado questa decisione minacci seriamente la sicurezza energetica continentale e sia destinata a provocare un sensibile aumento del prezzo di carburanti.
Malgrado l’Italia sia il maggior importatore del greggio iraniano e il documento approvato il 23 gennaio vincoli i paesi aderenti all’Unione Europea a rescindere i contratti petroliferi stipulati con Teheran entro il primo luglio, il Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata ha affermato che l’impatto delle limitazioni adottate a Bruxelles sarebbe «trascurabile, se non nullo», in virtù del fatto che le fonti di approvvigionamento italiane sarebbero «in progressiva differenziazione».
L’inasprimento delle sanzioni non provocherà alcun impatto agli Stati Uniti, che non importano petrolio dall’Iran, ma l’embargo petrolifero imposto dall’Unione Europea non può assolutamente essere indolore e sarà inesorabilmente destinato a sortire ripercussioni profondamente negative proprio su quei paesi, come l’Italia, che sono maggiormente esposti.
Il che la dice lunga sul cosiddetto “alto profilo” del Ministro Giulio Terzi di Sant’Agata, che omette di riconoscere il fatto che la maggior parte dei contratti con l’Iran erano stati stipulati dall’ENI , che a sua volta aveva costruito impianti di raffinazione “su misura” del greggio iraniano, ovvero adatti alla lavorazione di un greggio dotato di quelle specifiche caratteristiche.
E la sedicente “differenziazione delle fonti” appare nel migliore dei casi come una battuta di scarso spirito, perché rimpiazzare qualcosa come 180.000 barili di petrolio al giorno sarà un’impresa praticamente impossibile.
In definitiva, le fasi attraverso cui sta dispiegandosi l’attacco all’ENI mostrano, pur mutatis mutandis, svariate affinità rispetto a quelle che hanno contraddistinto l’aggressione a Finmeccanica; in entrambi i casi gli avversari geopolitici dell’Italia sono riusciti, attraverso la guerra alla Libia e l’isolamento dell’Iran – che riempirà il vuoto lasciato dall’Unione Europea (che era il secondo importatore di petrolio iraniano) incrementerà le proprie esportazioni verso Cina, India, Giappone e Corea del Sud – a sferrare un duro colpo alle due principali aziende capaci di garantire un seppur ridotto margine di autonomia e, in prospettiva, di sovranità al paese.
Nel mettere in atto le loro strategie questi avversari di Washington, Parigi e Londra hanno potuto contare sull’infima statura politica della classe dirigente italiana che in entrambi i casi ha assecondato i loro interessi e che pare accingersi ora a completare il lavoro, inserendo nel pacchetto di liberalizzazioni la frammentazione di Finmeccanica ed ENI in una miriade di piccole società, la cui privatizzazione finale concluderà la parabola inaugurata nel 1992, con “Mani pulite” e con la crociera sul Britannia da parte del gotha della finanza e della politica italiana.
Il che la dice lunga sul cosiddetto “alto profilo” del Ministro Giulio Terzi di Sant’Agata, che omette di riconoscere il fatto che la maggior parte dei contratti con l’Iran erano stati stipulati dall’ENI , che a sua volta aveva costruito impianti di raffinazione “su misura” del greggio iraniano, ovvero adatti alla lavorazione di un greggio dotato di quelle specifiche caratteristiche.
E la sedicente “differenziazione delle fonti” appare nel migliore dei casi come una battuta di scarso spirito, perché rimpiazzare qualcosa come 180.000 barili di petrolio al giorno sarà un’impresa praticamente impossibile.
In definitiva, le fasi attraverso cui sta dispiegandosi l’attacco all’ENI mostrano, pur mutatis mutandis, svariate affinità rispetto a quelle che hanno contraddistinto l’aggressione a Finmeccanica; in entrambi i casi gli avversari geopolitici dell’Italia sono riusciti, attraverso la guerra alla Libia e l’isolamento dell’Iran – che riempirà il vuoto lasciato dall’Unione Europea (che era il secondo importatore di petrolio iraniano) incrementerà le proprie esportazioni verso Cina, India, Giappone e Corea del Sud – a sferrare un duro colpo alle due principali aziende capaci di garantire un seppur ridotto margine di autonomia e, in prospettiva, di sovranità al paese.
Nel mettere in atto le loro strategie questi avversari di Washington, Parigi e Londra hanno potuto contare sull’infima statura politica della classe dirigente italiana che in entrambi i casi ha assecondato i loro interessi e che pare accingersi ora a completare il lavoro, inserendo nel pacchetto di liberalizzazioni la frammentazione di Finmeccanica ed ENI in una miriade di piccole società, la cui privatizzazione finale concluderà la parabola inaugurata nel 1992, con “Mani pulite” e con la crociera sul Britannia da parte del gotha della finanza e della politica italiana.
Nessun commento:
Posta un commento