lunedì 9 gennaio 2012

Il fisco protagonista dell'Italia unita


" Il malcontento è grave, un senso di malessere si diffonde in tutte le classi della società. Le sorgenti della ricchezza vanno a disseccarsi. Noi facciamo il lavoro di Tantalo o di Penelope. Il signor Rothschild, re del milione, è, finanziariamente parlando, re dell'Italia" - Senatore Sotto-Pintor, 1863

Il fisco protagonista dell'Italia unita
di Francesco Mario Agnoli - 08/01/2012

Fonte: Arianna Editrice

   La  prima carica dello Stato (on. Napolitano, presidente della Repubblica) ha la certezza che la crisi  sarà superata dalla coesione  del popolo italiano, ritrovata o rinvigorita dalle celebrazioni del 150° dell'Unità.  Invece la seconda (on. Schifani, presidente del Senato) dubita della coesione per via dei sindacati, che non solo non si accodano a Mario Monti, ma fanno la guerra alla sua  riforma “Salva Italia”. Forse Schifani non ha prestato la dovuta attenzione  alle celebrazioni e, quindi, non ne ha colto i salvifici effetti.
    Comunque sia, se, invece di dedicarsi al restauro di miti  obsoleti, avesse dato spazio anche alle pagine oscure dell'Unità, il 150°  avrebbe  potuto darci non pochi insegnamenti, per esempio  aiutandoci ad individuare  il filo rosso che  fin dal principio unisce i vari periodi della nostra storia unitaria:  il torchio fiscale e la corruzione. Dato che in questo momento l'attenzione è concentrata  sul prelievo fiscale (la corruzione è sempre all'ordine del giorno  e si potrà trattarne un'altra volta) il Comitato dei Garanti delle celebrazioni avrebbe potuto utilmente riesumare le vicende che portarono all'elaborazione e all'applicazione della famosa tassa sul macinato e le reazioni popolari che ne seguirono sopratutto in Padania (in molti altri luoghi si ricorse al più semplice rimedio  di non pagarla e di non  riscuoterla). Gli italiani avrebbero così ricordato o scoperto  che, per effetto dei debiti  ereditati dal Piemonte  sabaudo, già  a fine  1865,  a pochissimi anni dalla parziale unificazione (mancavano ancora Roma e il Veneto), il bilancio  del nuovo Regno versava  in gravissime condizioni per il continuo aumento del deficit, e che l'allora presidente del Consiglio, l'ingegnere piemontese Quintino Sella (un tecnico prestato alla politica), il 13 dicembre di quello stesso anno presentò un progetto di legge per l'introduzione di un'imposta sulla macinazione dei cereali.
    L'Italia era all'epoca un  paese in larghissima misura rurale, sicché, scelta la strada dell'aumento  dell'imposizione fiscale (la contemporanea  proposta di  riduzione della spesa pubblica aveva anche allora fini puramente ornamentali), questa doveva colpire  agricoltura e attività connesse. In un  paese che viveva  di pane, pasta e (al nord) polenta la via più semplice sembrò quella  dell'imposta sulla macinazione, già scelta da molti governi pre-unitari con   esiti  finanziariamente modesti  e, in compenso,  forti avversioni popolari, ma il Sella  contava di  applicarla con  aliquote più pesanti, grande rigore e spese all'osso. Da buon ingegnere, aveva  previsto di affidare il controllo  del  macinato non ai finanzieri o a personale stipendiato, ma a contatori meccanici installati presso ogni mulino per misurare  il numero di giri delle macine, e di   trasformare in esattori gli stessi mugnai..
   Il  suo discorso  di presentazione della proposta  alla Camera  avrebbe  riscosso   il plauso  degli  odierni ammiratori  di Mario Monti: “Venuta altre volte in odio, aveva l'aspetto di un ingrato balzello, poteva divenire e divenne il soggetto di avversioni più o meno spontanee, e minacciava di uccidere chi avesse osato nominarla. Ebbene, o signori, tra me e il Paese, tra la popolarità del mio nome e la salvezza d'Italia la mia scelta non poteva essere né dubbia né lenta. Forte delle più salde convinzioni ho avuto, come vedete, il coraggio  di invocare sull'ingrato balzello le deliberazioni del  parlamento; ed ho avuto in me la coscienza di avere così portato alla patria il più arduo fra i servigi che dal mio posto si potesse”.
  I deputati però presero tempo, favoriti  dalla caduta del  governo e dalla sostituzione  del Sella col   La Marmora, ma l'anno successivo (1866) le spese per la guerra contro l'Austria  e le entrate fiscali più modeste delle previsioni aggravarono  la situazione  al punto da  far balenare lo spettro  della bancarotta dello Stato (allora non si diceva ancora “default”). Di conseguenza, nel giugno del 1867 il ministro delle  finanze ripescò la proposta, il cui  esame venne affidato  ad un'apposita  commissione parlamentare, che nel febbraio 1868 depositò le proprie conclusioni. Queste, pur dichiarando indispensabile la tassa,  prevedevano modalità molto diverse da quelle elaborate dal Sella sicché i deputati vennero chiamati a scegliere fra due progetti  e ne seguì un dibattito in tutto degno  dei nostri giorni.
    A chi paventava il rischio  di un danno per  i  mulini più poveri a favore dei  più ricchi ed efficienti aveva già risposto lo stesso Sella, affermando che  i  mugnai sarebbero stati indotti  a migliorare le proprie macchine investendo capitali in nuova  tecnologia. Insomma, col penalizzare  i mulini tecnologicamente arretrati  l'imposta avrebbe agito da elemento propulsivo di modernizzazione. A chi  attaccava il progetto della Commissione paventando  rincari del costo di macinazione, si replicò che  a tutto avrebbe rimediato la mano invisibile del libero mercato e della concorrenza.
   Non mancò nemmeno chi la buttò sul patriottico e gli impegni d'onore, che “semper sunt servanda”. Francesco Crispi ricordò  che in occasione dello sbarco dei Mille in Sicilia per   alienare i siciliani dai Borbone era stato preso solenne impegno  “di ristabilire tutti i benefici conquistati con la rivoluzione del 1848”, fra i quali, appunto, l'abolizione  della tassa sul macinato .
   Infine, dal momento che  nessuna delle due proposte   aveva  la maggioranza  per l'approvazione, si formò in parlamento un terzo partito, composto (scrive Stefano Cammelli in un libro del 1984) da quei parlamentari che  “stanchi di sentirsi  rimproverare per la mancata approvazione della tassa sul macinato, e forse rasseganti all'idea di intervenire nuovamente e con pesantezza sui livelli di vita  delle classi popolari, erano disposti a tutto purché in qualche modo, in qualunque modo, la questione venisse risolta una volta per tutte”.   Fra questi un  precursore dei nostri  Bersani e Berlusconi. il deputato Breda, che, non potendo invocare come oggi l'Europa, così  si espresse:  “L'imposta è detestabile ed io personalmente la detesto. E se mi induco sotto  certe condizioni a votarla, lo faccio come il naufrago che, per salvare la vita, si attacca non a una tavola soltanto, ma anche  ad un rasoio”..
   La tassa, approvata il 6 aprile 1868 con 182 voti favorevoli e 164 contrari (decisivi i 135 deputati assenti), entrò in vigore   il 1° gennaio 1869. Nello stesso  mese moltissimi mugnai, non potendo accettare un compito di esattori che li esponeva  alle reazioni anche fisiche degli esasperati clienti (allora era questione di autentica fame, oggi ancora no, ma non è detto...),  chiusero il loro mulino. Immediata la   reazione dell'intero mondo rurale,  tanto violenta, soprattutto nell'Italia settentrionale  e nella pianura padana, che per reprimerla si fecero intervenire l'esercito e il generale Cadorna.

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