I Monti di Pietá
I Monti di Pietà come rimedio all’usura delle banche
I Monti di Pietà nascono come enti pubblici dove, posta una somma di denaro come fondo o riserva, si concede una parte di questa stessa somma di denaro come mutuo o prestito a chi ne ha bisogno, per lo più ai poveri, in proporzione di un oggetto prezioso che colui il quale chiede il mutuo depone al Monte di Pietà, a condizione che la somma prestata sia restituita al tempo che è stato fissato (normalmente un anno) il dì del prestito per riottenere l’oggetto impegnato o depositato con un leggero interesseunicamente allo scopo di ammortizzare le spese dei Monti di Pietà e mantenerli in vita di modo che non vadano falliti. Dopo il tempo pattuito, se il mutuo non viene restituito, il pegno è venduto e l’eventuale sovrappiù va a chi ha ottenuto il prestito (mutuatario), mentre l’equivalente del prestito va al fondo del Monte di Pietà.
«Lo scopo di Monti di Pietà è di prestare denaro in cambio di un pegno, con un pagamento minimo di un tenue contributo, per coprire le spese di mantenimento di esercizio del Monte e dei suoi impiegati, per combattere l’usura e venire in aiuto delle classi meno abbienti. […]. La fondazione dei Monti di Pietà fu un’innovazione importantissima dal punto di vista sociale, sorta attorno al Quattrocento […] se ne avvantaggiarono quanti non avevano solide garanzie da offrire e sarebbero stati costretti a ricorrere agli usurai» (Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1952, vol. VIII, col. 1378 e 1380, voce “Monti di Pietà”).
Il pagamento di un contributo minimo (circa il 4%) da parte di chi aveva ricevuto il prestito o mutuo (mutuatario) era fatto per sovvenire al mantenimento del Monte di Pietà e al pagamento del salario dei suoi impiegati e non per lucro o interesse da parte del Monte e quindi per usura. Infatti gli scolastici consideravano, a partire dalla dottrina economica di Aristotele, il denaro solamente un semplice mezzo di scambio, in sé improduttivo, quindi ogni interesse o guadagno proveniente dal mero prestito di denaro era considerato usura.
Lo scopo dei Monti di Pietà è di evitare che chi chiede il prestito cada nelle mani degli usurai e delle banche, le quali prestano ad interessi leciti legalmente, ma moralmente ingiusti (30-35% circa) e quindi in realtà sono usurai legalizzati o “bankster”.
I Francescani riformati del XV secolo (il Beato Bernardino da Feltre, S. Giacomo della Marca, S. Bernardino da Siena) idearono e attuarono i primi Monti di Pietà a scopo caritativo, che concedevano assistenza ai bisognosi mediante mutui quasi gratuiti con il riscatto di un pegno. Essi erano chiamati anche Montes Christi o Deposita Apostolorumper distinguerli dalla banche a scopo lucrativo.
Il primo Monte di Pietà nacque nel 1462 in Umbria a Perugia ad opera del padre Michele Càrcano, poi se ne aprirono altri in Orvieto nel 1463, in Toscana, in Romagna, nell’Italia settentrionale e quindi in tutta Italia.
I fondi erano costituiti dalle pie elargizioni lasciate dai fedeli facoltosi ai Francescani. Poi, una volta venutasi a formare una consistente e sufficiente disponibilità di denaro liquido, chi ne aveva bisogno ne faceva richiesta, depositando come pegno al Monte di Pietà un oggetto prezioso che veniva stimato in denaro corrispondente, con l’impegno di restituire al tempo stabilito la somma di denaro pattuita e ricevuta. Allo scader del tempo il mutuatario restituiva la somma di denaro con l’aggiunta di un piccolo interesse del 4% circa l’anno per mantenere in piedi il Monte di Pietà, che sfruttava il lieve guadagno per sovvenire alle spese che il Monte doveva sostenere (impiegati, mantenimento della casa…). Il resto aumentava i fondi permettendo di prestare ancor di più ai bisognosi, senza ulteriori interessi che non dovevano superare il 4%. Se il pegno non veniva richiesto o non poteva essere riscattato, dopo un tempo ulteriore allo scader di quello pattuito, era venduto e il prezzo ricavato entrava nel fondo del Monte per il mutuo ai poveri.
Per il primo Monte di Perugia (1462) le regole erano tre: 1°) il mutuo doveva darsi solo ai poveri, e non ai benestanti, in piccola quantità e non per oltre un anno; 2°) chi riceveva il mutuo doveva depositare presso il Monte un pegno, valutato e custodito dai responsabili del Monte stesso. Dopo un anno se il mutuo non veniva restituito, il pegno era venduto el’eventuale sovrappiù andava al mutuatario, mentre l’equivalente del prestito andava al fondo del Monte di Pietà; 3°) i mutuatari dovevano dare un modico interesse (il 4% circa)unicamente per il giusto salario dei dipendenti del Monte e per le altre spese (affitto, mantenimento della casa, pulizie, restauri…).
Se all’inizio solo i poveri potevano ottenere il mutuo, col passar del tempo e la crescita dei fondi dei Monti si concessero mutui anche alle autorità civili, qualora vi fossero delle necessità pubbliche, ma sempre all’interesse minimo (4%). Il sopravanzo veniva reinvestito dai Monti in altre opere pie (ospedali, scuole, mense, ostelli per i poveri…).
Liceità morale dei Monti di Pietà
La nascita dei Monti di Pietà suscitò molte dispute, soprattutto tra i Domenicani (contrari ai Monti) e i Francescani (favorevoli).
Infatti il Concilio di Vienna (1311, DB 749) aveva proibito l’usura ed anche il minimo guadagno per il prestito di un bene di scambio o “fungibile” come lo è il denaro. Ora i Monti prestavano denaro e guadagnavano un minimo da tale prestito. Quindi i Domenicani ritenevano l’attività dei Monti del tutto illecita e usuraia, mentre i Francescani obiettavano che il guadagno non derivava dal prestito del denaro, ma dal contributo dovuto al pagamento del mantenimento e funzionamento dei Monti con i loro dipendenti.
Secondo la Teologia scolastica solo due fonti possono dare un lucro lecito: la natura o la sostanza (albero da frutta, terreno, casa…) e il lavoro (seminare, irrigare, mietere, potare, raccogliere, fare i conti, insegnare…). Ora nel caso dei Monti di Pietà vi è la casa in cui si concede il mutuo e i dipendenti che vi lavorano facendo i conti. Inoltre vi sono tre eccezioni, che confermano la regola e che rendono lecito il guadagno sul mutuo di una cosa in sé infruttuosa come lo è il denaro: 1°) se ne subisco un danno (non ho più il milione che ho prestato, con cui potevo comprare una casa); 2°) se cessa il lucro che ottenevo dalla cosa prestata (la mia famiglia deve pagare l’affitto poiché non ho acquistato la casa); 3°) se corro il pericolo di non riavere il bene che ho prestato (Tizio è poco serio e forse non vorrà restituire il dovuto). In questi tre casi si ha il diritto di esigere qualcosa, ma non in forza del mutuo o prestito o dell’uso del denaro, bensì per motivi estrinseci al mutuo in quanto tale o all’uso del denaro (cfr. Billuart, Cursus Theologiae. Tractatus de contractibus, diss. IV, a. 5 § 4, che cita in suo favore sant’Antonino, Gaetano, Ferrarensis).
Benedetto XIV nella parte teorica della sua Enciclica Vix pervenit (1° novembre 1745) ha confermato le leggi precedenti e le dovute eccezioni che confermano la regola: «Dal prestito, per sua natura, si esige che sia restituito solo ciò che fu prestato. Se si chiede più di ciò che si prestò, pretendendo che oltre il capitale sia dovuto un certo guadagno in ragione del prestito stesso, vi è usura. […] Non si nega che talvolta nel contratto di prestito possano intervenire alcuni altri titoli esterni al mutuo stesso […] e che da essi derivi una ragione lecita per chiedere qualcosa in più del capitale che si prestò» (Benedetto XIV). Mentre nella parte pratica dell’Enciclica il Papa mitiga la disciplina, senza cambiare la dottrina, sull’usura o sul concetto di denaro, perché «questo cambiamento viene attribuito alle condizioni economiche e ai titoli estrinseci moltiplicati. La dottrina tradizionale resta però sempre immutata» (F. Roberti – P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, 4a ed., 1968, 2° vol., p. 1738).
Il CIC (1917) can. 1543 sanziona tale principio nella prima parte del canone citato: «se un bene viene dato a qualcuno in proprietà perché lo restituisca più tardi nello stesso genere, da questo contratto non è lecito prendere nessun guadagno in ragione dello stesso contratto [“ratione ipsius contracti”]». Tuttavia dopo aver ribadito in teoria nellaprima parte del canone la dottrina tradizionale sulla sostanza o natura del mutuo, laseconda parte del canone parla, in pratica e in concreto, delle circostanze estrinseche al mutuo: «nel prestito della cosa fungibile, non è illecito mettersi d’accordo su un guadagno ammesso dalla legge, eccetto che non consti essere sproporzionato» (cfr. F. Roberti – P. Palazzini, op. cit., pp. 1739-1740) perché se vi è sproporzione e guadagno diretto solo dall’impiego del denaro vi è usura.
I canonisti e i moralisti scesero in campo e attaccarono battaglia. Il padre agostiniano Nicola Boriano pubblicò un libro intitolato De Montibus Impietatis,(Cremona,1494). Addirittura anche il famoso teologo domenicano cardinal Tommaso de Vio, detto il Cajetanus, scrisse un Tractatus de Montibus Pietatis nel 1498 e si schierò contro i Monti. Il francescano Bernardino da Bustis scrisse un libro titolato Defensorium Montis Pietatis contra figmenta omnia del 1497, in cui condannava l’usura in quanto guadagno derivante dal solo prestito di denaro e dall’intento di arricchirsi col prestito, però siccome i Montinon ricavavano denaro dal prestito, ma solo dal pagamento del mantenimento delle loro case e dei loro impiegati e non avevano alcuna intenzione di arricchirsi, ma solo di impedire lo sfruttamento dei poveri da parte dei veri usurai, il mutuo praticato dai Monti non era illecito né usuraio, ma era il giusto guadagno per un opera prestata (affitto di una casa, stipendio di un impiegato ragioniere…).
Dovette, quindi, intervenire il Magistero ecclesiastico e papa Leone X (1513-1521) nel V Concilio Lateranense (sessione X, maggio 1515, DB 739) discusse la liceità del prestito ad interesse. Il Concilio e il Papa decretarono che, siccome il guadagno veniva ai Monti di Pietà non dal prestito del denaro, ma dal dovuto pagamento del giusto salario agli impiegati e delle spese per la conservazione materiale del Monte, tale guadagno era del tutto lecito e non usuraio. Fu così che i Monti di Pietà si diffusero in tutta Europa. Pian piano però iniziarono a degenerare e a diventare vere e proprie banche che prestavano denaro e guadagnavano dal prestito stesso in maniera sproporzionata, ossia ben oltre il 4%. Dopo il Settecento e soprattutto dopo l’epoca napoleonica i Monti furono sottratti alla Chiesa, che esigeva ancora la chiusura del Monte richiedente un interesse superiore al 4% (si tollerava un massimo del 6%), e divennero strumento di prestito ad alto interesse (30-35%).
Importanza pratica dei Monti di Pietà
I Monti di Pietà ci fanno capire in pratica quale sia l’importanza della vera economia e politica contro la falsa affaristica e partitica.
Aristotele parla della politica come di una scienza architettonica, la quale coordina e dirige tutte le altre scienze pratiche (l’economia, il diritto, la medicina, l’edilizia, ecc…), che essa applica per regolamentare la convivenza pacifica della comunità. Quindi l’economia deve essere subordinata alla politica, la finanza allo Stato.
Nello stabilire la gerarchia della Prudenza pubblica San Tommaso d’Aquino distingue tra loro e mette al primo posto la politica, che è la virtù di Prudenza ordinata al bene comune dello Stato; poi l’economia, la Prudenza che si occupa del bene comune della casa o della famiglia; infine la monastica, la Prudenza che si occupa del bene comune di una singola persona.
Economia significa “governo della famiglia o del focolare domestico” (dal greco “òikos,casa” e “némein, governare”). La ricchezza o il benessere materiale ha rapporto con la prudenza economica non come Fine ultimo, ma come causa strumentale in ordine al raggiungimento del Fine ultimo, ossia la ricchezza è un mezzo di cui la famiglia si serve per vivere virtuosamente e unirsi a Dio (S. Th., II-II, q. 50, a. 3, ad 1; ivi, q. 47, a. 12).
Sempre per l’Angelico è del tutto lecito avere una ordinata sollecitudine per procurare il necessario per sé e per la propria famiglia ed anche in previsione delle necessità future (S. Th., II-II, q. 55, a. 6, ad 2; ivi, a. 7). Solo la preoccupazione disordinata dei beni materiali è riprovevole poiché antepone i beni terreni a quelli ultraterreni.
L’Economia classica (cfr. S. Th., II-II, q. 47, a. 11; ivi, q. 50, a. 3; Commento all’Etica di Aristotele, lez. 1). Il suo rovesciamento è l’Affaristica moderna (contro cui son stati eretti i Monti di Pietà), che è l’arte di arricchirsi come Fine ultimo dell’uomo e delle famiglie. Se alla sana Economia familiare segue l’ordine sociale o la Politica tradizionale, che si fonda sul Diritto naturale, all’Affaristica segue la Plutocrazia, che è il governo della Finanza su questo mondo in vista dei beni di questo mondo et non plus ultra.
Di qui la necessità di studiare e mettere in pratica la vera Economia (v. Monti di Pietà) e di distinguerla dalla sua degenerazione che è la moderna Pecuniativa, Affaristica o Finanziaria (v. Banche e Usura).
Se per Aristotele la moneta aveva solo una funzione di scambio con i beni di natura e non poteva mai essere mezzo di guadagno (Etica, V, 10, 1933a 20; Politica, III, 13, 1257a 35), per San Tommaso (S. Th., II-II, q. 77, a. 4; ivi, q. 78, a. 1) è lecito negoziare e guadagnare attraverso il commercio, vendendo un bene naturale ad un prezzo moderatamente più caro di quello a cui si è comperato (“lucrum moderatum”). Infatti se il commerciante ha apportato delle migliorie al bene comprato o si è esposto a dei rischi nel trasporto della merce, è giusto che la rivenda ad un prezzo proporzionatamente più alto di quello a cui l’ha pagata. Il guadagno, in questo caso, è il compenso di un lavoro e non una ruberia. Se invece si commercia solo per procurarsi guadagno, senza corrispondenza alle necessità della vita ed al lavoro svolto nella compra-vendita, allora vi è un disordine poiché porta alla cupidigia del lucro, che non ha fine, ma tende all’infinito. In questo senso il commercio non è più Economia, ma Affaristica, Crematistica o Pecuniativa e contiene una certa malizia in se stesso (“quamdam turpitudinem habet”) in quanto non è ordinato a nessun fine onesto o necessario, ma è fine a se stesso (cfr. Aristotele, Politica A, 3, 1258b 10 ss.; S. Tommaso, Commento alla Politica di Aristotele, lez. 7-8; B. Meerkerlbach,Summa Theologiae Moralis, II, n. 538).
Nel De regimine principum (lib. I, cap. 15) l’Angelico spiega che affinché l’uomo possa vivere virtuosamente son richieste due cose: “l’azione virtuosa in sé e una presenza sufficiente di beni materiali il cui uso è necessario per vivere bene”. Ebbene con i Monti di Pietà si è voluto sovvenire a questo secondo elemento della conduzione familiare. Infatti “per ottenere la felicità imperfetta in questa vita sono necessari anche dei beni materiali, non come essenziali alla felicità, ma in quanto servono come strumenti per ottenere la felicità di una vita virtuosa. In questa vita l’uomo che è composto di anima e corpo deve poter provvedere anche al mantenimento dei suoi bisogni materiali” (S. Th., I-II, q. 4, a. 7).
Per l’Aquinate (S. Th., I-II, q. 9, a. 1) siccome la moneta è stata inventata per facilitare gli scambi, servendo da misura per la compra-vendita (S. Th., I-II, q. 9, a. 1), per natura essa è uno strumento (e non un fine) ordinato ad aiutare l’uomo a procurarsi i beni sufficienti richiesti per sé e per la sua famiglia affinché possano vivere virtuosamente. Quindi è contro la natura della moneta se la produzione e la distribuzione dei beni di natura dovessero conformarsi alle esigenze della produzione della moneta, mentre l’ordine naturale è tutto il contrario ossia la moneta - come misura stabile del valore dei beni di natura - deve conformarsi a facilitare lo scambio dei beni prodotti (cfr. cardinal Tommaso de Vio detto Cajetanus, De cambiis, cap. 5).
Conclusione
Come si vede esistono due concezioni diametralmente opposte dell’uomo, della famiglia e dello Stato. Da una parte la Plutocrazia o il Regno di Mammona e delle Banche, che fa della ricchezza materiale il fine ultimo dell’uomo e sottomette sia l’individuo che lo Stato alla Finanza. Il suo “dio” è l’oro. Dall’altra parte vi è la vera e sana Economia, la quale dirige con Prudenza la famiglia o il focolare domestico al suo fine prossimo (ordine interno e benessere temporale) subordinatamente al Fine ultimo (Dio conosciuto, amato e posseduto).
La Dottrina sociale della Chiesa propone come rimedio possibile a tanto sfacelo (Plutocrazia/Collettivismo/“Banco-crazia”) l’unica via che si deve e si può percorrere: laFrugalità contro il Consumismo che spinge a spendere e spandere, indebitarsi e rovinarsi l’esistenza ecco, dunque, qual è la necessità dei Monti di Pietà contro la banca e l’usura.
d. Curzio Nitoglia
7 luglio 2014
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